Pubblicato sul sito del Centro Studi Livatino il 10 agosto 2020
Tornato alla ribalta il tema delle quote rosa in materia di legge elettorale, con esso si ripropone il quesito: quanto serve introdurre ex lege un rilevante numero di donne candidate – fino a quando sarà lecito adoperare il termine “donna”? da quando si dovrà andare davanti al giudice in caso di rifiuto dell’uso del termine “individuo con le mestruazioni” o “individuo con cervice uterina”? – se non si aiutano le donne a superare i veri problemi che limitano il loro pieno realizzarsi nella famiglia, nel lavoro e nella società?
Che senso ha avere più donne in Parlamento se a troppe donne, magari della stessa età, è ancora negata la possibilità di formare una famiglia o di conciliare gli impegni famigliari con quelli lavorativi? Se una gravidanza diventa una seconda scelta rispetto al fatto di dover portare a casa uno stipendio? Se scegliere di essere mogli e madri senza lavorare è diventato quasi impossibile o una condizione che ormai il mainstream considera non dignitosa? Casalinga: che brutta parola! Non sia mai!
Quindi non importa se una donna è costretta a lavorare perché altrimenti la famiglia non riuscirebbe a pagare il mutuo o l’affitto della casa, le spese per l’istruzione dei figli, le cure per i genitori anziani: l’importante è che le venga garantito di potersi sedere in Parlamento, nei consigli regionali e comunali, nei cda! Si è arrivati persino a modificare, anzi a storpiare, la lingua italiana per coniare le declinazioni di ministra, sindaca, consigliera… E così abbiamo risolto tutti i problemi! Invece non abbiamo risolto niente: lo dico avendo ricoperto ruoli importanti, indipendentemente dalle quote rosa.
Quante donne vengono candidate non perché più meritevoli ma solo per l’esigenza di riempire liste elettorali con persone di sesso femminile? È sufficiente scorrere qualche curriculum. E quante volte nelle varie tornate elettorali si è sentito ripetere che servivano donne da candidare, solo per rispettare la legge?
Non penso che l’imposizione normativa sia un grande traguardo: non sono queste le battaglie da fare in nome del sesso femminile. A maggior ragione quando constato che mentre lo Stato tratta la donna come una specie protetta – nelle aule parlamentari, nelle assemblee regionali, comunali, nei cda -, lo Stato medesimo non riesce ad aiutarla nella vita di tutti i giorni: a diventare moglie, madre, lavoratrice, e anzi l’ultima trovata del Ministro della Salute Roberto Speranza è la possibilità di utilizzare la pillola abortiva senza ricovero ospedaliero anche fino alla nona settimana di gravidanza!
Questi sono gli aiuti dei paladini del gentil sesso (fino a quando si potrà dire gentil sesso senza essere imputati di discriminazione?). Il messaggio è: avanti donne! In nome dei vostri diritti e delle vostre libertà vi siano aperte le porte della carriera politica, istituzionale e manageriale, ma – attenzione! – meno figli fate e meglio è. Il volto dell’Occidente cosiddetto avanzato (con lungimiranza Alessandro Manzoni ricordava che “non sempre ciò che vien dopo è progresso”) è il consumo usa e getta, e quindi l’aborto per tutti, l’eutanasia per tutti, le quote rosa a tutti i costi, in attesa della rivendicazione e del varo delle quote fluide, transgender, ecc. È la maggiore attenzione portata per un cane abbandonato che per un bambino abortito; è lo scandalo di fronte a un agnello arrosto sulla tavola pasquale, e non di fronte a un bambino disabile a cui viene imposta l’eutanasia di Stato; è la lotta anche politica per salvare la vita a un orso (bene, anche a me piacciono gli orsi); è la gara a scattare foto e video da postare sui social di un essere umano in fin di vita.
È la società dei diritti à la carte con sempre meno doveri, senza prospettiva verticale e senza futuro. Cui non ci si deve arrendere: la consapevolezza della deriva raggiunta impone il lavoro per invertire la rotta. Subito.
Cristina Cappellini
già Assessore alla Cultura e Identità della Regione Lombardia
Lunedì, 10 agosto 2020