Domenico Airoma, Cristianità n. 368 (2013)
Intervento, riveduto e annotato, al Corso di formazione su Un’importante frontiera per l’apostolato culturale. La moderna crisi del diritto e dello stato, organizzato da Alleanza Cattolica, dal 18 al 21-4-2013, a Napoli, presso l’Eremo del SS. Salvatore.
L’”anello di Gige”, ovvero riflessioni su diritto e libertà in epoca postmoderna
1. Prologo
“Narrano che […] in conseguenza di un gran temporale e di un terremoto si spaccasse il terreno, ed una voragine si aprisse vicino al luogo ove teneva al pascolo il gregge. Stupito a quella vista, discese nella voragine e, fra le altre meraviglie che si raccontano, vide anche un cavallo di bronzo, cavo, punteggiato di finestrelle, affacciandosi alle quali, dentro, scorse un cadavere la cui statura, così almeno gli parve, sorpassava la misura umana: nulla aveva indosso il morto se non alla mano un anello d’oro. Egli prese quell’anello e, quindi, uscì. Ora, come di solito ogni mese, i pastori s’erano riuniti per riferire al re intorno alle greggi, ed anche Gige, con l’anello, andò a quell’adunanza. Sedendo insieme agli altri pastori, gli venne fatto di girare il castone dell’anello a sé, verso il dentro della mano, e subito divenne invisibile a chi gli sedeva vicino, tanto che, con sua gran meraviglia, si parlò di lui come se fosse andato via. Maneggiò di nuovo l’anello e, voltone il castone dalla parte del dorso, subito ritornò visibile. Essendosi accorto di tali effetti volle far la prova se l’anello avesse davvero questa virtù: e sempre gli avveniva di diventare invisibile se voltava il castone all’interno, visibile se lo voltava invece verso l’esterno. Certo di questo, riuscì a farsi mettere nel numero di quei pastori che, come messi, venivano inviati al re: giunto, gli sedusse la moglie e, da lei aiutato, lo uccise e s’impadronì dello Stato”(1).
La scena ha un protagonista: Gige (secolo VII a.C.), re di Lidia, nell’attuale Turchia occidentale. Ma ha anche un “prima” e un “dopo”, ovverosia Gige senza e con l’anello. Descrive, inoltre, un habitat, quello che precede e quello che segue la decisione di Gige di far uso dell’anello. E ha un epilogo.
2. Dalla libertà limitata alla libertà assoluta; dalla libertà regolata dal diritto alla libertà che si fa regola al diritto
Partiamo dal protagonista, che è indubbiamente Gige con l’anello. La caratteristica dominante è l’invisibilità di Gige, un uomo privo della dimensione corporea e, quindi, della relazionalità. Una condizione, diremmo, da sogno.
“I sogni son desideri”, recita una famosa canzone per bambini. Nella dimensione onirica, infatti, ci permettiamo di desiderare qualunque cosa, anche cose di cui magari ci vergogniamo al nostro risveglio. Osiamo coltivare desideri paranomoi, cioè contrari alle regole. Lo possiamo fare perché nel sogno non siamo costretti a confrontarci con la nostra finitezza, con la nostra natura di creature, con il nostro essere animali sociali.
E, infatti, che cosa fa Gige con l’anello? Si comporta come “un dio fra gli uomini” (2). La scena così descritta ci consente, in un colpo d’occhio, d’intuire la natura del Sessantotto, cioè della Rivoluzione Culturale, e la condizione che ne è conseguita, la cosiddetta età post-moderna (3). “Siamo realisti. Pretendiamo l’impossibile!”, oppure “La fantasia al potere!”, sono stati, del resto, gli slogan-simbolo del Sessantotto (4); l’esito — richiamando un luogo anch’esso tipico di quest’epoca — è il rave-party: più che un sogno, un delirio psichedelico di massa. Una condizione priva di qualsiasi prospettiva di svolgimento e dominata solo da un movimento incessante e policentrico (5); dove gli attori, i “centri”, privati della corporeità e della relazionalità, delle stesse coordinate spazio-temporali, s’inebriano nell’illusione di un potere immenso, lo stesso potere di Dio.
Come si è giunti a tanto? Per cercare di capire, è utile soffermare ancora una volta la nostra attenzione su Gige e sul “prima”. Non è difficile notare come quella scena sia dominata, più che da Gige, dalle cose — che lo circondano e lo stupiscono — e dagli altri, dalla comunità, riunita attorno al proprio re.
Res sunt. Homines sunt (6): questa è la condizione dell’uomo premoderno, che viene al mondo e fa i conti con un ordine oggettivo e preesistente.
Questa è la mentalità che ha contraddistinto gli uomini che hanno abitato la cosiddetta Magna Europa (7), ovverosia, quell’ambito geografico, non esauribile nell’Occidente, che è stato interessato dal processo d’inculturazione della fede cristiana. In quell’epoca, premoderna, le libertà erano intrinsecamente limitate da regole che formavano la Costituzione non scritta di quelle società, proprio perché radicate nella natura dell’uomo. Quel complesso di norme rappresentavano ciò che era proprio dell’uomo, a lui dovuto; il giusto, insomma. E il diritto era, appunto, ipsa res iusta, tanto da non richiedere, se non in via eccezionale e in presenza di attacchi tirannici, una versione scritta, solo pro memoria, a beneficio soprattutto dei governati; una versione tutta centrata sulle comunità più che sui singoli, dal momento che questi ultimi incontravano i governanti già rivestiti dei propri naturali abiti sociali (8). Non che non vi fosse un esercizio sregolato della libertà, ma tale esercizio veniva riconosciuto e qualificato come tale, non come conforme a diritto, cioè a giustizia, dal singolo così come dalla comunità (9).
Ma, a un certo punto, Gige scopre l’anello. E soprattutto il potere dell’anello. Quel che cambia, davvero, la scena è la decisione di Gige di fare uso dell’anello, decisione assunta non con moto d’impeto ma all’esito di una riflessione.
Tale ultima notazione, all’apparenza una nuance, ci è utile, ancora una volta, per descrivere con un’immagine quel che è accaduto nell’esperienza storica della civiltà cristiana medioevale a partire dal Rinascimento; l’epoca della riflessione, dell’uomo che si piega su sé stesso e che si fa centro di tutte le cose; l’età in cui trova incubazione — e quindi la nascita — una libertà che si scrolla di dosso il diritto oggettivo (10), e con esso le regole che definiscono i desideri leciti e quelli paranomoi. In questa fase, che caratterizza l’avvio dell’epoca moderna, la libertà che si fa assoluta è quella esercitata ai piani alti, quelli cioè occupati dal Principe, superiorem non recognoscens. E si tratta di una decisione che porta con sé molteplici conseguenze.
La libertà premoderna, limitata — perché riconosce l’esistenza di un ordine preesistente, di norme cui confrontarsi — cammina di pari passo con la responsabilità, con la disponibilità, cioè, a rendere conto del proprio comportamento, in una dimensione essenzialmente comunitaria, quindi pubblica. Non solo: essa postula sempre un giudizio — di colpevolezza o di meritevolezza —, nella misura in cui il suo esercizio è consono o meno al diritto oggettivo, cioè a giustizia.
Al contrario, la libertà che pretende di dettare le regole a sé stessa, per forza di cose non è responsabile, né vi è spazio per la colpa o il peccato (11).
Nell’epoca dello Stato moderno la libertà assoluta è quella detenuta dal Sovrano, dalla Volontà Generale, dal Partito; sono questi ultimi che stabiliscono che cosa si debba desiderare e che chiamano a rispondere coloro che frappongono ostacoli alla realizzazione del desiderio per eccellenza, quello di ri-creare, sicut Dei, un mondo nuovo e un uomo nuovo.
“Il concetto di colpevolezza è soppresso, e non è più nemmeno menzionato. I comunisti ne danno questa ragione: non v’è posto in un tribunale di classe per il concetto di colpevolezza; perché l’arrestato, quando appartenga a una classe nemica, è da ritenersi senz’altro capace di delitto contro la classe proletaria, che detiene il potere, e per questo solo può essere punito” (12).
Il Sessantotto conduce a compimento questo processo di assolutizzazione della libertà, portandolo a livello dei singoli e della concezione che l’uomo ha di sé stesso e del proprio habitat, cioè su un terreno squisitamente culturale. Per far questo, per rendere davvero la libertà priva di ogni limite, occorre, però, che essa sia liberata dall’ultimo vincolo, quello del corpo.
Non a caso, l’epoca postmoderna è dominata dall’accanimento contro l’ultimo residuo di oggettività: l’uomo stesso, la sua corporeità e con essa il suo ordine interiore. “”Cominciai già molto presto a sentire l’uomo come brutto: l’animale mi sembrò più bello e più puro” […] (Franz Marc [1880-1916]).
“[…] Guillaume Apollinaire [1880-1918] formula più brutalmente il medesimo pensiero dell’artista: “Troppi pittori adorano ancora le piante, le stelle, l’acqua e l’uomo. È giunto ora il momento di dimostrare che i padroni siamo noi”. […] Ma già il Füssli [Johann Heinrich, 1741-1825]aveva esclamato: “Al diavolo la natura! Essa serve soltanto a portarmi fuori di carreggiata!”.
“[…] Gli artisti sono magicamente attratti dall’ultraumano e dall’ultranaturale, dall’irreale e dall’inconscio, dal caos e dal Nulla. “Occuparsi di cose irreali è l’attività più alta” (Corinth [Lovis, 1858-1925])” (13).
Non si tratta, è bene sottolinearlo, di propositi da innocui buontemponi visionari. Reciso ogni contatto con la corporeità — e con la sua intrinseca portata normativa —, per una siffatta libertà, proprio perché caratterizzata da una dimensione a-corporea, tutto è possibile; basta desiderarlo. Le norme, già private di una dimensione di oggettività e sottoposte alla signoria del pensiero, diventano meri involucri dei desideri partoriti da una volontà tendenzialmente sconfinata.
Nulla è più come prima. Di ciò si rende conto Emanuele Severino, uno dei maestri del pensiero filosofico postmoderno, il cosiddetto “pensiero debole”, padre del “diritto mite”, figlio della “libertà onnipotente”, che scrive: “[…] quando il pensiero filosofico contemporaneo […] si fa avanti, che cosa dice? Dice che non esiste, non può esistere alcun Ordinamento assoluto e immutabile, non può esistere alcun Limite inviolabile. È importante rilevare che questo non è semplicemente un discorso teorico […]. Questo sgombrare il terreno del Mondo, questo sgombrarlo, inevitabilmente, da ogni limite assoluto […], rende possibile quel dominio dell’aula/Mondo, che altrimenti sarebbe impossibile se si fosse convinti che in essa ci sono suppellettili inamovibili, cioè Limiti inviolabili” (14).
Ma che cosa rende possibile il dominio del Mondo, accanto alla “riflessione”, cioè al pensiero filosofico autoreferenziale? L’”anello di Gige”, cioè la tecnica, le ali con cui la volontà dell’uomo può finalmente sentirsi illimitata.
“La tecnica acquista il diritto di non tener conto di alcun Limite, solo in forza della sua unione con la filosofia contemporanea” (15).
“[…] La tecnica è diventata Potenza suprema alla quale l’umanità si allea. L’alleanza con Dio è diventata alleanza con la Potenza suprema oggi esistente sulla terra. La tecnica è la salvezza” (16).
“Le forme della normatività tradizionali […] saranno sempre più costrette […] a non intralciare il funzionamento ottimale della tecnica”(17).
Il diritto perde consistenza, si fa “liquido” (18); il suo compito non è più quello di tracciare gli argini, ma di assecondare il flusso dell’acqua e i suoi capricci. Il diritto non regola ma viene regolato, definisce i contorni evanescenti di un contenuto che per definizione non si lascia definire, perché continuamente mutevole; può solo servire a descrivere le modalità di realizzazione dei desideri, tracciare le procedure, fare in modo che ciascuno possa costruirsi il proprio simulacro di realtà, la propria iper-realtà.
Vi è, infatti, chi, come il filosofo francese Jean Baudrillard (1929-2007), nega puramente e semplicemente che, nel contesto della postmodernità, si possa ancora parlare di una “realtà”: se pure c’era, ora non vi è più; al suo posto, la sua contraffazione virtuale, da tutti, però, identificata come la cosa “reale”. Ecco perché la società contemporanea avrebbe compiuto il delitto perfetto: “[…] perché ha negato la realtà nascondendola nelle maglie intricate della rappresentazione: ha trasformato la vita in diritto alla vita, la libertà nei diritti di libertà, trasferendo tutto in una “clinica dei diritti” che vivono di rimandi e malinconie costanti” (19).
“Il postmoderno — è stato osservato — segna l’ingresso delle virgolette in filosofia: la realtà diventa “realtà”, la verità “verità”, l’oggettività “oggettività”, il sesso “sesso” ecc. […]. Ciò che in Husserl [Edmund Gustav Albrecht, 1859-1938] era un esercizio filosofico diventa un protocollo di politically correct con cui si decreta che chiunque si provi a togliere le virgolette esercita un atto di inaccettabile violenza o di fanciullesca ingenuità, pretendendo di trattare come reale ciò che, nella migliore delle ipotesi, è ‘reale’ o “reale”” (20).
Si comprende, dunque, per quale ragione la postmodernità, salutata trionfalmente da molti come l’età della libertà e dei diritti, è l’età in cui, paradossalmente, più devastanti sono le violazioni delle libertà e dei diritti. “Dietro il linguaggio dei diritti umani non si nasconde forse una certa ipocrisia? […] Quando gli uomini sono sistematicamente vessati, perseguitati o annichiliti, non è un eufemismo dire che sono stati violati i diritti umani invece di dire semplicemente che quegli uomini sono stati assassinati, torturati, derubati, schiavizzati o vessati? Colpisce di più la violazione dei diritti umani o essa è più importante degli uomini concreti? Ciò non suppone forse dare maggiore importanza a dei diritti che all’uomo stesso che ne costituisce il supporto?” (21).
Non si tratta, a ben vedere, d’ipocrisia, bensì degli effetti coerenti di una libertà che, per farsi assoluta, si è privata non solo della corporeità, sublimandosi nell’iper-realtà, ma anche della relazionalità, del rapporto con l’altro, che implica il permanere di un residuo di responsabilità, di un “dovuto”, irrimediabile contraddizione con una volontà onnipotente.
Ciò comporta che il perseguimento dei desideri si gioca su un terreno esclusivamente individuale, di un individuo considerato, appunto, in una dimensione solipsistica, assolutamente a-relazionale.
Alla stagione del “tutto è pubblico” succede quella del “tutto è privato”, con una ipertrofia del diritto privato rispetto a quello pubblico, cui è interdetto qualsiasi intervento regolativo sull’“io e le sue voglie” (22).
Ancora una volta è interessante notare il rovesciamento totale dei piani rispetto alla civiltà premoderna. In un contesto di ancoraggio del diritto a una dimensione fondante munita di oggettività, i diritti naturali delle persone, avendo una rilevanza anche e soprattutto comunitaria, non potevano che avere una dimensione pubblica: costituivano limiti per l’esercizio del governo della societas. Con la nascita dello Stato moderno i diritti fondamentali perdono il loro carattere di originarietà e, pur rimanendo in un contesto pubblico, ricadono nella titolarità dello Stato, che li amministra e li dispensa (23).
Con la Rivoluzione Culturale, con lo sfaldamento dello Stato moderno, i diritti fondamentali perdono ogni dimensione pubblica; appartengono agl’individui e sono soggetti all’assoluto potere dispositivo di questi ultimi. “Le regole della privacy vengono così a sostituire le regole tradizionali sul matrimonio […]; qualsiasi norma statale che respinga la possibilità di ricorrere alle tecnologie riproduttive superando i limiti generali posti dalla disciplina dei contratti dovrà di conseguenza essere considerata come violazione di un principio costituzionale” (24).
Emblematico, al riguardo, è quanto previsto dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare […].
“2. Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Nonostante l’apparentemente ampio catalogo di situazioni legittimanti l’intervento pubblico, in realtà la sfera di riservatezza intangibile dall’autorità pubblica è stata progressivamente ampliata dal giudice di Strasburgo, fino a farvi rientrare libertà e diritti che sono sempre stati considerati di rilevanza fondante per la società: la vita e la morte, l’identità sessuale, la famiglia.
A tale ultimo riguardo, appare significativo quanto statuito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella causa S.H. e altri contro l’Austria: “La Corte ricorda che la nozione di “vita privata” nell’ambito del significato dell’articolo 8 della Convenzione è un concetto elastico che comprende, inter alia, il diritto di stabilire e sviluppare relazioni con altri esseri umani […], il diritto allo sviluppo della propria personalità […] e il diritto di autodeterminarsi […]. Esso comprende elementi come i nomi […], l’identità sessuale, l’orientamento sessuale e la vita sessuale, che ricadono nell’ambito della sfera della personalità protetta dall’articolo 8 […], nonché il diritto al rispetto della decisione sia di aver che di non avere un figlio” (25).
In un tale contesto di accentuata “privatizzazione” non è più neppure necessario che il diritto venga prodotto e sanzionato da uno Stato; è ben possibile che vi siano un diritto senza Stato e una giustizia senza Stato, amministrata da organismi sovranazionali — quali la Corte per i Diritti Umani, la Corte Europea di Giustizia, il Tribunale per i crimini contro l’umanità — che ne costituiscono anche le fonti. E “[…] quando i diritti sono dichiarati da commissioni transnazionali rimangono nel mondo dei sogni o, se si preferisce l’espressione di Bentham [Jeremy (1748-1832)],“nonsensi sui trampoli“” (26).
3. Scenari iper-reali: la libertà/diritto di “crearsi” il sesso, di “crearsi” una famiglia, di determinare l’origine e la fine della vita
Si è già detto che gli stessi maestri della postmodernità hanno chiarito come una tale Rivoluzione Culturale sia tutt’altro che mero esercizio teorico e che la iper-realtà vada costruita distruggendo tutto ciò che è limite.
Orbene, il primo vincolo da abbattere è quello che il corpo stesso impone all’uomo e alla donna per il fatto di nascere “maschio” e “femmina”.
In un documento dell’ONU, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, del 3 agosto 2009, a firma Martin Scheinin, pur affrontandosi il tema della Protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel contrasto al terrorismo, l’identità sessuale viene definita come un costrutto di derivazione sociale e culturale (27).
L’identità sessuale diventa identità di genere ed è frutto di una scelta del tutto volontaristica, mutevole orientamento, sempre modificabile, anche per effetto di una mera manifestazione di volontà, che tocca all’anagrafe pubblica registrare, anche a prescindere dall’effettivo mutamento di sesso: è il paper-gender, appunto, il genere “sulla carta”, il sesso iper-reale (28).
“Che ne è della percezione del corpo di un transessuale: uomo? donna? uomo divenuto donna? “Nel momento in cui le nostre percezioni culturali ancorate al quotidiano crollano, quando non riusciamo a leggere con chiarezza il corpo che vediamo, significa che non siamo più sicuri di sapere se il corpo percepito è quello di un uomo o di una donna (Judith Butler, Introduzione del 1999, Scambi di genere: identità, sesso e desiderio [trad. it.], Milano, Sansoni, 2004, p. 7)”. Alcuni adepti del “transgender” rifiutano addirittura il sostantivo “transessuale” che ridurrebbe il problema intimo ad una questione medica o psichica. […] Il riferimento alle situazioni limite, il transessualismo, permette di presentare come virtuali i quadri anatomici. “Offuscare” il genere significa attribuire un carattere di realtà a dei corpi considerati fin qui virtuali, nonché conferire allo stesso tempo un carattere di irrealtà a ciò che era naturale” (29).
Se gli orientamenti sessuali sono i più vari, a seconda di come si vuole essere e di come si costruisce il proprio simulacro di realtà, ne discende che anche gli accoppiamenti possono essere non determinati o non determinabili, trovando il loro “fondamento” nella sempre cangiante affettività, mutevole sia quanto alla intensità sia quanto ai destinatari.
Pertanto, l’unione fra sessi può assumere forme varie in relazione alla stabilità del vincolo — dalle convivenze alle dichiarazioni, dai patti al matrimonio — e alla composizione, potendo essere formata da persone sia di sesso diverso sia dello stesso sesso, in versione monogamica o poligamica. Quel che costituisce dato non negoziabile è che tutti, a prescindere dal loro orientamento sessuale, hanno diritto a crearsi una famiglia, essendo oramai da ritenersi superato l’assunto “artificioso” secondo cui, perché si dia una famiglia, sarebbe indispensabile l’unione di due persone di sesso diverso (30).
Ma vi è un’ulteriore conseguenza.
Lo scivolamento della famiglia nelle sabbie mobili del soggettivismo ha fatto sì che il legame famiglia-figli — che è anche il legame con la dimensione “naturale” della famiglia — diventasse assolutamente secondario. Se, infatti, quel che fa la famiglia è il “sentimento” e non la sua struttura d’istituzione potenzialmente aperta alla riproduzione e quindi al mantenimento in vita della società, allora i figli sono un accidens, che ben possono darsi fuori dalla famiglia, cioè essere procreati se e quando se ne ha voglia, in ciò avvalendosi della tecniche di fecondazione artificiale.
“La biologia della riproduzione naturale si allontana dalla famiglia — osserva il sociologo Roberto Volpi —, [così che] la biologia della riproduzione o fecondazione assistita […] attesta la “trasformazione” della famiglia, non più necessaria alla riproduzione” (31).
La riproduzione artificiale apre all’ultima e decisiva frontiera da oltrepassare: l’origine e la fine della vita. È intollerabile, infatti, che una libertà così assoluta debba dipendere da quello che appare come un Caso ingovernabile. Ed è ancor più intollerabile che l’uomo non abbia il diritto di decidere quando porre fine alla sua vita. Vita e morte, dunque, devono essere dominate, non possono sottrarsi al soggettivismo, vanno sottoposte all’interpretazione manipolativa della volontà. “[…] lo stesso fatto materiale della morte procurata a un uomo può essere inteso in differenti sensi: come mezzo rivolto contro la vita altrui, oppure contro le sofferenze altrui (eutanasia), oppure contro la degenerazione della specie umana (eugenetica) […] o ancora come prezzo per la sperimentazione medica su esseri umani, o, infine, come via obbligata per l’espianto di organi utilizzabili per trapianti” (32).
La perdita di oggettività di vita e morte rende sconfinate le prospettive d’intervento delle biotecnologie. La tecnica offre gli strumenti per ri-creare il corpo, sottraendo l’uomo alla “lotteria della nascita” (33), finalmente incidendo sulla stessa irripetibilità di ogni uomo, che è l’estrema frontiera della sua dignità.
Lo scenario è stato tracciato, più di dieci anni or sono, dal filosofo non credente Jürgen Habermas: “[…] il giorno in cui gli adulti potessero considerare come producibile e modellabile il corredo genetico dei loro figli, e dunque progettarne a piacimento un “design” accettabile, essi verrebbero con ciò stesso ad esercitare, sui loro prodotti geneticamente manipolati, un potere di disposizione che […] era finora sembrato essere lecitamente esercitabile soltanto sulle cose e non sulle persone” (34).
4. La moltiplicazione degli anelli: l’incontro/scontro di libertà assolute
Vi è ancora una riflessione suggerita dalla scena di Gige: l’uso dell’anello genera conflitto e spargimento di sangue; e ciò in contrapposizione alla pace che caratterizza il “prima”. “C’è anche un’altra povertà! È la povertà spirituale dei nostri giorni, che riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi. È quanto il mio Predecessore, il caro e venerato Benedetto XVI, chiama la “dittatura del relativismo”, che lascia ognuno come misura di se stesso e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini” (35).
Qualche giurista si è reso conto della carica di conflittualità insita in una società fondata sul riconoscimento a ciascuno dei consociati di una libertà assoluta, del “potere dell’anello”. Fra questi, Gustavo Zagrebelsky, che prende atto della divisione oramai irrimediabile conseguente all’assenza di un contesto condiviso di princìpi e di valori. “Ciascun principio e ciascun valore, se intesi nella purezza di un loro concetto assoluto, si risolverebbero nell’impossibilità di ammetterne altri accanto. È il tema del conflitto dei valori, che noi vorremmo sciogliere dando la vittoria a tutti, anche se conosciamo la loro tendenziale inconciliabilità”(36).
A chi spetta il compito di risolvere il conflitto fra siffatti desideri assoluti e quindi inconciliabili? È preferibile attribuirlo, osserva ancora Zagrebelsky, all’“opera silenziosa delle aule dei tribunali e degli studi dei giuristi. Senza considerare che molte domande nuove poste al diritto dal progresso tecnologico (si pensi alla tecnologia genetica) forse più opportunamente possono trovare una prima risposta in una procedura giudiziaria in cui si mettano a confronto prudentemente i principi coinvolti, piuttosto che in assemblee politiche dove il richiamo ai principi è spesso uno strumento di militanza di parte” (37).
Non è materia solo da giudici. Si tratta di un compito che “[…] ben potrebbe essere svolto da organi amministrativi indipendenti” (38), o da comitati etici, come per le decisioni in tema di embrioni o di fine vita; giacché, se vita e morte diventano “reali” all’esito di procedure regolate dalla legge, basta solo controllare che tutte le fasi siano state osservate e che i moduli siano stati correttamente compilati.
Per quanto sia mite, un tale diritto, non potendo assecondare tutti, qualcuno pur deve dichiarare soccombente. Chi? Ovviamente, in primo luogo, chi ritiene che si debba porre un argine alla libertà assoluta, chi rappresenta un pericoloso richiamo al mondo premoderno.
“Gli uomini e anche i giuristi tutti d’un pezzo — avverte Zagrebelsky —non fanno per il tipo di vita individuale e sociale al quale chiama lo Stato costituzionale del nostro tempo. La loro presenza, oltre ad alimentare fragilità ed emotività, costituisce un potenziale di asocialità, aggressività, autoritarietà e, alla fine non solo di incostituzionalità ma anche di anticostituzionalità” (39).
In tale prospettiva, il diritto serve alla libertà assoluta per contrastare il riemergere dell’uomo vecchio.
Non vi è da meravigliarsi, dunque, se per l’ONU l’obiettore di coscienza può essere equiparato addirittura a un torturatore delle donne che domandano di abortire (40).
5. Risvegli
Come va a finire l’avventura di Gige? Male.
Egli non ha fatto tesoro del passato; non ha considerato, cioè, che anche colui al quale ha sfilato l’anello non si è sottratto alla morte, che ha posto irrimediabilmente fine al suo sogno di onnipotenza, relegandolo negl’inferi.
Ma vi è un modo per evitare tutto ciò, e sta nel risvegliarsi. Se il Sessantotto è fuga dal reale, pura immaginazione, senza memoria, senza alcun vincolo neppure con il passato, la reazione non può che passare per il risveglio della coscienza, attraverso il ritorno al reale (41) e alla sua intrinseca normatività, per giungere a riappropriarsi della responsabilità e della colpevolezza.
Vi sono casi significativi di risvegli, di chi tornando dalla iper-realtà, denuncia la follia e l’insensatezza di una libertà che, per aver rinunciato ad ogni misura, non è più a misura d’uomo.
Walt Heyer, ex transgender, così descrive la disumanità dell’ideologia del gender, che prescinde dal corpo: “È giunto il momento di mettere a nudo l’inganno: gli interventi chirurgici di riattribuzione del sesso non fanno altro che peggiorare la vita di chi vi si sottopone. L’ho imparato a mie spese e non posso che essere vicino alla sofferenza dei transgender, ma un atteggiamento di comprensione non basta: è necessario un supporto psicologico e psichiatrico che li aiuti ad affrontare i loro problemi. È pura follia continuare ad avallare una procedura chirurgica, fallimentare e causa di grandi sofferenze, come risposta a un disturbo che è di natura psicologica” (42).
Giuseppe Vacca, filosofo marxista, s’imbatte nella realtà, senza virgolette, della famiglia e della vita: “L’amore, l’affetto, la solidarietà sono importanti, ma quello che definisce la famiglia è la generazione e il diritto dei nati ad essere generati da un padre e una madre.
“[…] Nel documento sulla “emergenza antropologica” abbiamo scritto una cosa ben precisa sul valore della vita fin dal concepimento. Il tema può essere declinato in termini di assunzione di responsabilità di fronte a un evento che interpella ciascuno: intendo, appunto, il rispetto della vita come valore. Subito dopo la nascita del mio quinto nipote mi sono chiesto: “Qual è il senso, per me non credente, di questa nascita?”. E mi son detto che una vita che si mette in cammino chiede un’assunzione di responsabilità. Ma allora che senso ha delegare alla scienza la decisione su quando cominci la vita? Si è messo in moto un processo di generazione e sei chiamato ad assumere una responsabilità antropologica: la responsabilità di accogliere e accompagnare una vita, guardando al genere umano e al suo destino materiale e spirituale” (43).
Emanuele Severino, filosofo relativista, confessa l’esito finale dell’avventura del binomio libertà-tecnica: “La dominazione della tecnica, a cui è destinata ad approdare la storia dell’Occidente, è […] la forma più rigorosa della Follia estrema” (44).
6. Un epilogo diverso
Un epilogo diverso è possibile. Anche partendo dal desiderio.
“Sarebbe di grande utilità, a tal fine, promuovere una sorta di pedagogia del desiderio […]. Una pedagogia che comprende almeno due aspetti. In primo luogo, imparare o re-imparare il gusto delle gioie autentiche della vita. Non tutte le soddisfazioni producono in noi lo stesso effetto: alcune lasciano una traccia positiva, sono capaci di pacificare l’animo, ci rendono più attivi e generosi. Altre invece, dopo la luce iniziale, sembrano deludere le attese che avevano suscitato e talora lasciano dietro di sé amarezza, insoddisfazione o un senso di vuoto. Educare sin dalla tenera età ad assaporare le gioie vere, in tutti gli ambiti dell’esistenza — la famiglia, l’amicizia, la solidarietà con chi soffre, la rinuncia al proprio io per servire l’altro, l’amore per la conoscenza, per l’arte, per le bellezze della natura —, tutto ciò significa esercitare il gusto interiore e produrre anticorpi efficaci contro la banalizzazione e l’appiattimento oggi diffusi. […] Diventerà allora più facile lasciar cadere o respingere tutto ciò che, pur apparentemente attrattivo, si rivela invece insipido, fonte di assuefazione e non di libertà” (45).
E ogni sogno può essere l’inizio di un risveglio, solo che si aprano gli occhi e si scopra finalmente l’inganno dell’“eritis sicut dii” (Gn. 3,4-5).
“Allora, se è tutta qui
la causa del disinganno,
se so che il piacere è una fiamma
che in cenere si converte
al primo alito del vento,
pensiamo all’eternità,
alla gloria che non muore,
dove la gioia non dorme
e il trionfo non riposa” (46).
Note:
(1) Platone, Repubblica, 359d, trad. it., in Idem, Repubblica, Timeo, Crizia, Politico, a cura di Francesco Adorno, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 2004, pp. 265-717 (p. 320).
(2) Ibid., 360c, trad. it., in ibid., p. 321.
(3) “Il concetto di “postmoderno” diviene materia di dibattito sia filosofico sia culturale a partire dal 1979, anno in cui J[ean]. F[rançois]. Lyotard [1924-1998] pubblica La condition postmoderne [trad. it., Feltrinelli, Milano 1981]. L’età contemporanea è descritta da Lyotard come quella in cui la modernità ha raggiunto il suo termine con la delegittimazione dei “grandi racconti” (grand récits), ovvero delle prospettive filosofiche e ideologiche che, a partire dall’Illuminismo, hanno ispirato e condizionato le credenze e i valori della cultura occidentale […].
“In Italia, al concetto di postmoderno ha dedicato attenzione G[ianni]. Vattimo; in una prospettiva nietzschiana e heideggeriana, egli ha elaborato la nozione di “pensiero debole” per definire l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti” (Enciclopedia Treccani online, voce Postmoderno, <www.treccani.it/enciclopedia/postmoderno>; gl’indirizzi Internet dell’articolo sono stati consultati il 29-6-2013).
(4) Cfr. un’ampia riflessione sul Sessantotto, in Enzo Peserico (1959-2008), Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, Sugarco, Milano 2008.
(5) “[…] il postmoderno […] intende riferirsi a una modalità del tempo che mette in crisi l’intera concezione lineare e progressiva della temporalità […]. Il postmoderno […] porta guerra al tutto, è il dissidio contro la conciliazione, l’affermazione della differenza contro l’identità […]. Il postmoderno, scrive Lyotard, non è il moderno alla fine, ma allo stato nascente, e questo stato è costante” (Gaetano Chiurazzi, Il postmoderno, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 40).
(6) “Il nostro giudizio può essere vero o falso; le cose, invece, sono sempre e soltanto vere, mai false” (Josef Pieper [1904-1997], La Verità delle cose, trad. it., Massimo, Milano 1991, p. 52).
(7) Cfr. Giovanni Cantoni e Francesco Pappalardo (a cura di), Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, D’Ettoris, Crotone 2007.
(8) “Sarà in questi gruppi — siano essi la parrocchia, la corporazione professionale, l’associazione politica, la fraternità, e così via — che si fonderà prevalentemente l’edificio della società medievale, allo stesso modo che la grande cattedrale, perno e simbolo delle aspirazioni di un’intera comunità, presuppone non già questo o quello artefice ma la corporazione operosa al cui interno spariscono le singole individualità” (Paolo Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 73).
(9) “La Chiesa ha potuto battezzare la società medievale perché era una società di peccatori, ma il suo successo non è così promettente nella società moderna dove tutti si credono innocenti” (Nicolás Gómez Dávila [1913-1994], Escolios a un texto implícito. Selección, a cura di Rosa Emilia Gómez de Restrepo, con prologo di Mario Laserna Pinzón ed epilogo di Franco Volpi [1952-2009], Un Angel Cautivo en el Tempo, Villegas Editores, Bogotà D.C. 2001, p. 160).
(10) “Si capisce come, in questo nuovo mondo protomoderno, si venga consapevolmente a coniare l’idea del diritto soggettivo e si edifichi su di essa tutta la costruzione” (P. Grossi, op. cit., p. 85).
(11) L’eclissi della colpa dal mondo postmoderno è descritta con grande efficacia nel grido che lo scrittore danese Henrik Stangerup (1937-1998) mette in bocca al protagonista del suo romanzo: “Ma io ho commesso un assassinio! Deve pur esserci scritto da qualche parte che ho ammazzato mia moglie! Punizione e colpa sono concetti che non usiamo più. […] L’unica cosa che pretendo è che mi si dica che sono colpevole” (Henrik Stangerup, L’uomo che voleva essere colpevole, trad. it., Iperborea, Milano 1992, pp. 86-88; cfr. la recensione di Andrea Morigi, in Cristianità, anno XX, n. 203, marzo 1992, pp. 26-27).
(12) Leo Galin, Tribunali e pene nella Russia rivoluzionaria, trad. it., F.lli Bocca, Milano-Roma 1921, p. 108.
(13) Hans Sedlmayr (1896-1984), Perdita del centro. Le arti figurative dei secoli XIX e XX come sintomo e simbolo di un’epoca, trad. it., Rusconi, Milano 1974, p. 207.
(14) Emanuele Severino, Téchne-Nomos: l’inevitabile subordinazione del diritto alla tecnica, in Pietro Barcellona (a cura di), Nuove frontiere del diritto. Dialoghi su giustizia e verità, Dedalo, Bari 2001, pp. 15-24 (pp. 18-19).
(15) Ibid, p. 19.
(16) Ibid., p. 21.
(17) Ibid., p. 23.
(18) Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità liquida, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2011.
(19) Eligio Resta, Il paradosso dei limiti superabili, in P. Barcellona (a cura di), op. cit., pp. 43-55 (p. 50).
(20) Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 9.
(21) Estanislao Cantero Nuñez, Il realismo giuridico di J. Bms. Vallet de Goytisolo, trad. it., ESI. Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2011, p. 113.
(22) Cfr. card. Joseph Ratzinger, Omelia della Messa pro eligendo romano Pontifice, del 18-4-2005, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 19-4-2005.
(23) “Con l’avvento della moderna teoria della sovranità il capovolgimento è totale: il nuovo re è sovrano in quanto fa la legge e, pertanto, non è da essa limitato, è cioè supra legem. […] Il grande mutamento consiste, così, nel fatto che una volta il diritto era dato, ora esso è creato” (Nicola Matteucci [1926-2006], Lo Stato moderno, il Mulino, Bologna 1997, pp. 86-87).
(24) Carmel Shalev, Nascere per contratto, trad. it., Giuffrè, Milano 1992, p. 133.
(25) Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, S.H. e altri v. Austria, application n. 57813/00, judgement 1 April 2010, par. 58, consultabile in inglese all’indirizzo Internet: <hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx#{“appno”:[“57813/00″],”itemid”:[“001-98048”]}>.
(26) Roger Scruton, Il bisogno di nazione, trad. it., Le Lettere, Firenze 2012, p. 61.
(27) “In quanto costrutto sociale, il gender viene ad essere permeato e va ad intersecarsi con diversi altri elementi attraverso i quali i ruoli, le funzioni e le responsabilità sono percepite e praticate, quali la razza, l’etnia, la cultura, la religione e la classe. Conseguentemente, il gender non è statico; esso cambia nel tempo e a seconda dei contesti” (Martin Scheinin, United Nations, General Assembly, A/64/211, p. 8, consultabile in lingua inglese all’indirizzo Internet <www.unhcr.org/refworld/docid/4aae4eea0.html. 2>). Cfr., inoltre, quanto statuito dall’articolo 3, lettera c, della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, dell’11-5-2011, approvata dal Parlamento italiano il 19-6-2013: “con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”(consultabile all’indirizzo Internet <www.pariopportunita.gov.it/imges/stories/ documenti_vari/ UserFiles/ PrimoPiano/ Convenzione_Istanbul_violenza_donne.pdf>).
(28) Rilevanti, sul punto, sono le statuizioni della Corte Europea dei Diritti Umani sui casi Goodwin c. Regno Unito, del 17-7-2002, e Van Kück c. Germania del 12-6-2003, consultabili in lingua inglese agl’indirizzi Internet <hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-60596> e <hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-61142>, nelle quali è stato sancito che il riconoscimento giuridico dell’identità di genere non deve necessariamente dipendere dall’intervento chirurgico di riattribuzione dei genitali.
(29) Jacques Arenes, Il Genere: un problema multidisciplinare, in I Quaderni di Scienza&Vita, anno II, n. 2, Identità e Genere, Roma marzo 2007, pp. 79-93 (p. 86).
(30) “[…] la Corte considera artificioso mantenere l’opinione secondo cui, a differenza della coppia eterosessuale, una coppia di partner dello stesso sesso non potrebbe godere di un diritto alla “vita familiare” ai sensi dell’art. 8″ (Corte Europea per di Diritti dell’Uomo, Schalk and Kopf c. Austria, del 24-6-2010, par. 94, consultabile in lingua inglese all’indirizzo Internet <hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-99605>).
(31) Roberto Volpi, La fine della famiglia, Mondadori, Milano 2007, p. 37.
(32) Gustavo Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992, p. 13.
(33) L’espressione è attribuita al politico post-comunista Walter Veltroni (cfr. Una sinistra aperta e moderna, Platea congressuale dei Democratici di Sinistra, Fiera di Roma, 6 novembre 1998, nell’inserto l’Unità Documenti, in l’Unità. Giornale fondato da Antonio Gramsci. Quotidiano di politica, economia e cultura, Roma 7-11-1998, pp. 1-25 [p. 19]). La tesi è ripresa dal filosofo neocontrattualista americano John Rawls (1922-2002).
(34) Jürgen Habermas, Il futuro della dignità umana. I rischi di una genetica liberale, trad. it., Einaudi, Torino 2002, p. 16.
(35) Papa Francesco, Discorso durante l’udienza al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, del 22-3-2013, in L’Osservatore Romano. Quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23-3-2013.
(36) G. Zagrebelsky, op. cit., p. 13.
(37) Ibid., p. 203.
(38) Ibid., p. 207.
(39) Ibid., p. 16.
(40) Cfr. Lorenzo Schoepflin, Opporsi all’aborto. Per l’Onu è tortura, in La Nuova Bussola Quotidiana, quotidiano online, alla pagina <www.lanuovabq.it/it/articoli-opporsi-allabortoper-lonu–tortura-5981.htm>, del 10-3-2013.
(41) “L’esperienza storica […] ha portato una pesantissima smentita di quelli che […] sono i due dogmi del postmoderno: che tutta la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile […]. Le necessità, le vite e le morte reali, che non sopportano di essere ridotte ad interpretazioni, hanno fatto valere i loro diritti, confermano l’idea che il realismo (così come il suo contrario) possieda delle implicazioni non semplicemente conoscitive, ma etiche e politiche” (M. Ferraris, op. cit., p. XI).
(42) Walt Heyer, Io vittima del cambio di sesso, in La Nuova Bussola Quotidiana, quotidiano online, alla pagina <www.lanuovabq.it/it/articoli-io-vittima-del-cambio-di-sesso-6263.htm>, del 16-4-2013.
(43) Vacca e D’Agostino. Bioetica, stop alle “doppie morali”, intervista a cura di Pierluigi Fornari, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, Milano 21-11-2012.
(44) E. Severino, op. cit., p. 24.
(45) Benedetto XVI (2005-2013), Discorso all’udienza generale, del 7-11-2012, in L’Osservatore Romano. Quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 8-11-2012.
(46) Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), La vita è sogno, atto terzo, scena decima, vv. 785-794, trad. it., Adelphi, Milano 1993, p. 193.