Oscar Sanguinetti e Andrea Morigi Cristianità n. 193-194 (1991)
Intervista con don Lush Gjergji
Il Kosovo è, con la Vojvodina, una regione autonoma compresa nella Repubblica di Serbia che, a sua volta, costituisce con le repubbliche della Bosnia e Erzegovina, della Croazia, della Macedonia, del Montenegro e della Slovenia la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia. In quanto regione autonoma aveva il diritto di mandare propri rappresentanti al Consiglio delle Repubbliche che costituisce, con il Consiglio Federale, l’Assemblea Federale, cioè l’organo che esercita la funzione legislativa. Questo avveniva fino al 5 luglio 1990, quando sono stati sciolti tutti gli organismi rappresentativi del Kosovo.
L’opinione pubblica italiana — nonostante la vicinanza geografica — conosce decisamente poco la situazione di questa regione al confine con l’Albania e abitata prevalentemente da albanesi, e di quel poco è venuta a conoscenza in seguito alle dimostrazioni degli studenti albanesi del Kosovo nel 1981 e poi alle grandi manifestazioni del popolo albanese della stessa regione nel 1989, seguite da una dura repressione da parte del governo centrale e dell’esercito jugoslavi.
L’incontro con alcuni esponenti della piccola comunità cattolica del Kosovo offre la possibilità di approfondire questa conoscenza e così di prendere atto dell’esistenza di una drammatica condizione di ingiustizia in cui versa tutto un popolo, mantenuta dallo Stato jugoslavo e praticamente ignorata nel mondo. Attraverso la storia e la situazione attuale del Kosovo viene anche offerta, implicitamente, una chiave di lettura per capire la portata della crisi che sta investendo il rapporto fra le diverse repubbliche che costituiscono la Jugoslavia.
Il 29 aprile 1991, nella sede milanese di Alleanza Cattolica, si è svolto un incontro con esponenti della comunità cattolica albanese della regione jugoslava del Kosovo. Guidati da don Lush Gjergji, presidente dell’Associazione Umanitaria Madre Teresa — Madre Teresa di Calcutta nasce infatti Ganxhe Bojaxhiu, nella stessa regione autonoma jugoslava, quindi albanese kosovara —, erano presenti il vicepresidente del medesimo sodalizio, professor Jak Mita, l’avvocato Franklin Sedaj, sempre della stessa associazione, e Nikë Gjeloshi, vicepresidente del partito democratico cristiano albanese del Kosovo.
Don Lush Gjergji nasce il 21 marzo 1949 a Stubla, nella diocesi di Skopje-Prizren, in Jugoslavia. Compie studi di filosofia e di teologia a Roma, quindi di psicologia all’università statale della stessa città, dove — nel 1975 — si laurea in psicologia sociale con una tesi su La donna albanese. È caporedattore dell’unica rivista religioso-culturale del Kosovo, Drita, “La luce”, e collabora a diverse riviste straniere. Parroco di Ferizaj nel Kosovo, non è soltanto presidente dell’Associazione Umanitaria Madre Teresa, ma anche membro della presidenza del Forum degli Intellettuali Albanesi e del Consiglio per la Difesa dei Diritti e delle Libertà, con sede a Pristina, la capitale del Kosovo. È autore di diverse opere: in albanese, Il ruolo della donna albanese nella famiglia e nella società, del 1977; il catechismo Cristo fra noi, del 1978; La nostra madre Teresa, del 1980, tradotto in croato nel 1981, in sloveno nel 1983, in italiano nel 1983, con il titolo Madre Teresa di Calcutta. Prima biografia completa (Jaca Book, Milano), in francese nel 1985 e in spagnolo nel 1988; i catechismi Dio ha cura del popolo, del 1985; Verso la terra promessa, sempre del 1985; Fiori per la Madre, del 1986, tradotto in italiano nel 1987 come Madre Teresa e le sue radici (EMI-Piemme, Bologna-Casale Monferrato); e il catechismo Cristo con noi, del 1988; in croato i saggi Tutta la nostra vita è dire: “Grazie e perdono”, del 1984, tradotto in italiano (EMI, Bologna 1989); Vivere, amare, servire, del 1987; Canti e viaggi, del 1988; La voce del silenzio, del 1989; e, finalmente, in italiano La Madre della carità, del 1990 (Velar, Gorle [Bergamo]).
Nel corso dell’incontro, don Lush Gjergji ha tracciato un quadro storico-religioso e politico della regione albanese jugoslava, nello stesso tempo facendo ampi riferimenti alla nazione albanese in senso lato.
Gli albanesi del Kosovo e il loro problema
D. Quando è nato il problema degli albanesi kosovari?
R. Il Kosovo balza alla ribalta della politica internazionale verso la fine di febbraio del 1981, quando hanno luogo massicce dimostrazioni di studenti universitari a Pristina — la capitale, che conta circa centoventimila abitanti — contro il governo centrale. Nel quadro dell’incipiente destabilizzazione della federazione jugoslava, l’episodio testimoniava l’accresciuta consapevolezza della comunità albanese, che non vuole venire considerata una semplice minoranza etnica, né, tantomeno, essere repressa da parte del Partito Comunista Serbo, che egemonizza la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia. Gli albanesi del Kosovo non sono slavi, e quindi hanno avvertito prima degli altri popoli compresi nello Stato comunista jugoslavo questo monopolio economico, politico e culturale, nonché la pressione religiosa del popolo serbo, sia nella “prima Jugoslavia”, quella precedente la seconda guerra mondiale, sia nella “seconda Jugoslavia”, quella comunista.
D. Quanti sono gli albanesi del Kosovo?
R. Sono circa due milioni, pari al 90% della popolazione della regione. Ma la cifra sarebbe da verificare: infatti, gli albanesi del Kosovo, della Macedonia e del Montenegro hanno boicottato e rifiutato un recente censimento della popolazione, sia perché intendevano protestare contro il governo che aveva abolito qualunque istituzione albanese — radio, televisione, stampa, perfino un istituto demografico —, sia perché temevano manipolazioni, facilmente immaginabili dal momento che i funzionari governativi annotavano i dati relativi agli albanesi a matita! Solo un intervento della Conferenza Episcopale di Jugoslavia — guidata dal card. Franjo Kuharic — ha potuto sbloccare la situazione adducendo l’urgenza di conoscere la reale consistenza della nazione albanese e della comunità dei credenti nel nuovo contesto di ripresa dei nazionalismi nel paese, al fine di evitare la costituzione di maggioranze “artificiali”.
D. Che cosa chiedevano gli studenti con le dimostrazioni della fine di febbraio del 1981?
R. In un primo tempo gli studenti avanzavano la richiesta di miglioramento della vita universitaria quanto al vitto e all’alloggio, quindi di programmi di studio e di professori albanesi, dal momento che i serbi avevano tutte le cattedre, nonostante l’università di Pristina fosse bilingue. In seguito hanno chiesto maggiore autonomia economica, politica e culturale per la regione.
La situazione religiosa in Jugoslavia
D. Qual’è la situazione religiosa della Jugoslavia?
R. La Slovenia e la Croazia, nella parte settentrionale del paese, sono a grande maggioranza cattoliche. La Bosnia-Erzegovina, al centro, ha una maggioranza di musulmani, un 20-22% di ortodossi, e circa il 15% di cattolici, costituiti dalla minoranza croata. La Serbia è a stragrande maggioranza ortodossa. Nel Montenegro, anch’esso a maggioranza ortodosso, la minoranza albanese è in parte cattolica, in parte musulmana. La Macedonia è ortodossa e la Vojvodina è invece un vero e proprio miscuglio: su un milione e mezzo di abitanti, vi sono venticinque comunità confessionali. Infine, nel Kosovo, il 90% degli albanesi è costituito da un 95% di musulmani e da un 5% di cattolici.
La Chiesa cattolica nel Kosovo
D. Com’è composta e strutturata la Chiesa cattolica nel Kosovo?
R. Esistono due diocesi accorpate in una: quella di Skopje-Prizren, che comprende sia il Kosovo che la Macedonia, con una popolazione totale di circa quattro milioni di persone. I fedeli sono circa settantacinquemila, dei quali sessantacinquemila sono albanesi e circa diecimila croati o di altra etnia. In Macedonia si trovano altri cinquemila cattolici “uniati”, cioè fedeli appartenenti a Chiese di rito greco già scismatiche, che hanno ristabilito la comunione con Roma e che hanno saputo resistere alla pressione religiosa ortodossa combinata della Serbia e della Grecia. Oltre a questa diocesi, nel Montenegro vi è l’arcidiocesi di Antivari, con circa ventimila fedeli, che è situata nella zona confinante con l’Albania ed è quasi completamente albanese.
Nella diocesi di Skopje-Prizren vi sono due vescovi: l’ordinario, S. E. mons. Joakim Herbut, uniate, con sede a Skopje, è originario della Vojvodina, quindi non di lingua albanese, e perciò ha sensibili problemi di comunicazione con il popolo, il che configura una situazione pastoralmente difficile, di cui — con ogni evidenza — non si è tenuto adeguatamente conto nella sua nomina; un vescovo ausiliare saedi datus, S. E. mons. Nikë Prela, vescovo titolare di Rufiniana, di dieci anni più anziano di mons. Joakim Herbut, è privo assolutamente di sede e vive nella mia parrocchia.
Inoltre, cinquemila cattolici albanesi sono emigrati in anni passati in Croazia e in Slovenia per sfuggire a diverse persecuzioni. Poi, a partire dal 1950, altri circa diecimila albanesi sono emigrati in altre parti della federazione.
Quindi, in totale, i cattolici di nazionalità albanese in Jugoslavia ammontano a circa centomila.
È esistito ed esiste un forte flusso migratorio verso l’America — negli Stati Uniti vi sono quattro grosse parrocchie di comunità albanesi — e verso i paesi dell’Europa Occidentale: per esempio, solo in Svizzera vi sono circa centomila lavoratori albanesi, dei quali diecimila sono cattolici. Proprio per loro ho celebrato la Messa pochi giorni fa nella zona di Aarau, nella Svizzera tedesca.
Gli albanesi in Jugoslavia prima dell’instaurazione del regime comunista
D. Prima dell’instaurazione del regime comunista qual’era la situazione degli albanesi in Jugoslavia?
R. Nel 1918 viene creata la “vecchia Iugoslavia”, cioè il regno serbo-croato-sloveno, in seguito allo smembramento degli Imperi Austro-Ungarico e Ottomano. Fino a tale data le persecuzioni turche contro i cristiani albanesi erano state per sei secoli incessanti, tranne che nel periodo d’oro della nazione albanese, quello caratterizzato dalla figura di Giorgio Castriota Skanderbeg, l’eroe nazionale albanese, nel secolo XV. Alla fuga davanti alle persecuzioni seguite alla conquista turca — dopo la morte dell’eroe nel 1468 — si deve l’insediamento delle comunità albanesi nell’Italia Meridionale: in quell’epoca fuggì circa un terzo degli albanesi.
Nel 1845, con una legge della Sublime Porta, il governo ottomano garantiva la libertà anche ai cristiani, ma essa non venne mai tradotta in pratica. Sotto la dominazione turca i cristiani erano fuori legge: secondo una legge del 1908 — la più recente in materia — uccidere un cristiano e uccidere un cane era la stessa cosa. Anzi, per un musulmano, mentre uccidere un cane non dà alcun merito, uccidendo un cristiano salva la propria anima e può salvare anche quella della sua vittima. Davanti a questo atteggiamento molti cristiani cercano un modus vivendi: nasce il fenomeno dei cripto-cattolici, cristiani interiormente e musulmani esternamente. Il problema dei cripto-cattolici veniva affrontato da un Concilio particolare albanese convocato nel 1703 da Papa Clemente XI, nato a Urbino da famiglia albanese. Questo Concilio condanna il cripto-cattolicesimo come un rinnegamento della fede.
Di fronte al dichiarato riconoscimento della libertà religiosa, nel 1845 i cristiani albanesi esternano la propria fede davanti alle autorità ottomane e si gloriano del fatto di essere cristiani da sempre. Ma questa ingenuità è loro fatale: il governo turco fa intervenire l’esercito, che arresta i ventiquattro capi della delegazione cristiana e li deporta in Turchia con l’intera popolazione dei quattro villaggi cattolici di Stubla, Bincia, Vernacola e Terziaj. Anche il parroco viene deportato con i suoi fedeli. È un’autentica via crucis: lungo la strada dal Kosovo alla Turchia, attraverso la Grecia, molti cristiani — almeno centocinquanta —, con catene al collo pesanti fino a trentacinque chili, muoiono di stenti. Dopo due anni di esilio, grazie a un intervento diplomatico dell’Austria-Ungheria e della Francia, tornano solo in novantasette. Oggi queste quattro parrocchie contano diecimila fedeli — discendenti dei novantasette superstiti — e sono il focolaio maggiore delle vocazioni religiose e sacerdotali.
In questo periodo il Kosovo è privo di protezione, stretto fra due potenti nemici, i serbi ortodossi e i turchi musulmani. I vescovi albanesi dell’epoca scrivevano che, talvolta, non sapevano quale nemico fosse il peggiore. Vi è chi dice perfino che molti albanesi abbracciarono l’islam quasi come male minore rispetto alle pressioni panslava e ortodossa. Gli albanesi cattolici, nel tempo della “vecchia Jugoslavia”, fra le due guerre mondiali, hanno avuto molti martiri per mano ortodossa. La persecuzione serbo-ortodossa durante questo periodo viene denunciata con un memorandum alla Società delle Nazioni, redatto negli anni Trenta da tre sacerdoti. In questi stessi anni la Chiesa subisce il martirio di tre francescani; altri tre devono fuggire oltre la frontiera albanese: uno di essi è padre Shtjefen Kurti, che morirà martire nell’Albania comunista all’inizio degli anni Settanta.
Dopo lo Stato albanese nel 1912, e la “vecchia Jugoslavia” nel 1918, nel 1945 viene creata la “nuova Jugoslavia” socialista: nasce un falso internazionalismo interno, mentre — di fatto — continua il predominio della nazione serba. Con il comunismo si viene a creare una grande e diffusa povertà. Nella Jugoslavia di Tito gran parte della Chiesa ortodossa si asservisce al regime comunista; lo stesso accade per le comunità musulmane: solo la Chiesa cattolica resiste alla persecuzione antireligiosa, e di questa resistenza è esempio l’arcivescovo di Zagabria, in Croazia, il card. Aloizjie Stepinac.
I cattolici nel Kosovo dopo l’instaurazione del regime comunista
D. Dopo l’instaurazione del regime comunista, qual’è la situazione religiosa nel Kosovo?
R. Dal 1946 anche qui divampa la persecuzione. Non vi è sacerdote che non trascorra lunghi periodi di “ritiro” in carcere; la gran parte delle chiese viene espropriata e adibita ad altri usi: per esempio, la mia parrocchia viene trasformata in un granaio. Fino al 1970 non viene concesso nessun permesso di costruzione o di restauro di chiesa. La persecuzione religiosa si avvale di ogni strumento, compresa la menzogna sfrontata: nel 1968 un sacerdote viene arrestato e condannato a quindici anni di carcere perché avrebbe sostenuto in confessionale la necessità di uccidere il segretario del partito comunista locale.
D. La Chiesa cattolica è la comunità religiosa più reattiva e, quindi, quella più colpita, più perseguitata: perché — ciononostante — rimane sempre minoritaria fra la popolazione del Kosovo?
R. È un mistero che conferma come la conversione maturi sempre lentamente e sia un dono di Dio, dello Spirito Santo. Vi è poi una particolare refrattarietà all’evangelizzazione da parte dei musulmani: personalmente ho preparato catecumeni provenienti dalla religione islamica e ho rilevato enormi difficoltà da parte loro a proposito di determinati punti della fede cristiana; per esempio, quando sono arrivato a spiegare il mistero eucaristico, uno di loro, un professore, ha abbandonato la catechesi in quanto non riusciva a concepire come Dio potesse rendersi presente in un minuscolo pezzo di pane. Il Dio dell’islam è quello della forza, è il Dio dell’Antico Testamento, non è una Persona. I musulmani non riescono a capire neppure il concetto di persona e di soggetto umano: il personalismo intrinseco al cristianesimo è loro particolarmente ostico. Il popolo albanese ha una grande stima per la Chiesa cattolica, ma fra questo apprezzamento e la conversione vi è una grande distanza. Non si può peraltro immaginare la cultura nazionale albanese — letteratura, poesia e tutto il resto — senza la presenza della Chiesa. La prima frase scritta in lingua albanese è stata la formula battesimale. Gli albanesi mettono sempre in maggior rilievo i quindici secoli di cristianesimo che non i cinque di islamizzazione. Per superare la difficoltà relativa alla conversione oggi dobbiamo lavorare per un “battesimo culturale” e non soltanto far ricordare le radici cristiane dell’Albania, ma cercare anche di provocare nei non cattolici il desiderio di conoscere la cosiddetta “fede antica”, quindi il contenuto della fede e far loro desiderare la catechesi e, infine, il sacramento del battesimo: perciò, l’itinerario è dalla cultura nazionale alla cultura cattolica, e dalla cultura cattolica alla fede. Il cristianesimo è la culla della civiltà europea, è la motivazione profonda della creatività umana che si esprime attraverso i valori europei, che sono profondamente umani e cristiani. Occorre rimettere in collegamento gli albanesi non cattolici con i loro fratelli che, invece, hanno resistito nella continuità con le proprie radici nella fedeltà a Dio, alla Chiesa, e così via.
Eredità cattolica ed eredità islamica
D. L’islam è penetrato nella cultura albanese?
R. È certamente penetrato, ma non profondamente. Il popolo odia l’islam per la violenza subita da esso. L’islam venne diffuso soprattutto dall’esercito turco, fu un frutto della conquista militare ottomana che se ne serviva per le sue conquiste politiche. La pratica religiosa islamica è scarsamente vissuta. Fondamentalmente la popolazione albanese è credente, di una religiosità naturale che persiste a livello profondo e inconsapevole: Dio esiste, esiste un’anima che sopravvive dopo la morte, occorre fare il bene e fuggire il male. L’ammirazione per la Chiesa cattolica, almeno come fattore decisivo nella storia nazionale, è generalizzata fra tutti gli albanesi non cattolici: la Chiesa è sempre rimasta fedele al suo popolo. Per esempio, nel 1990, quando si verificarono circa settemila casi di avvelenamento fra la popolazione del Kosovo, gran parte dei colpiti venne curata nei numerosi piccoli e poveri ambulatori privati cattolici, e questo è rimasto nella memoria del popolo.
D. Com’è avvenuta l’evangelizzazione del Kosovo?
R. Il cristianesimo è stato portato ai popoli dell’Illiria nei primi due secoli. San Paolo stesso è stato in Macedonia. Nel 325, al Concilio di Nicea, sono presenti due vescovi illirici, entrambi provenienti dal Kosovo. Si può dire che il cristianesimo comincia a essere perseguitato non appena arriva nel Kosovo. Gli illiri accettano il cristianesimo per la valutazione della persona umana di cui esso è portatore. Il cristianesimo nell’Illiria è la base di partenza dell’evangelizzazione dei popoli slavi. Con lo scisma ortodosso, la Chiesa albanese si trova divisa fra due mondi e due riti e si separa: la parte meridionale dell’Albania diventa ortodossa, e i kosovari che perdono la fede cattolica vengono anche serbizzati.
Dalla Resistenza alla Repubblica del Kosovo
D. Qual’è la situazione politica attuale?
R. Alla fine della seconda guerra mondiale la Jugoslavia vorrebbe annettersi anche l’Albania come settima repubblica; comunque il Kosovo — dopo la breve parentesi del periodo di guerra in cui si era riunificato con l’Albania — si trova a far parte della federazione jugoslava. Nel dicembre del 1944 due divisioni serbe avevano occupato il Kosovo mentre i soldati albanesi combattevano nella Jugoslavia settentrionale: l’occupazione serba provoca la nascita di una resistenza albanese che dura fino al 1946. L’esercito occupante perseguiterà gli albanesi, costringendone molti, che facevano parte dei gruppi della Resistenza, a fuggire in Grecia.
Nel 1945 l’esercito amministra direttamente la nostra regione, così come avverrà dopo le rivolte del 1981; nel frattempo si costituisce il partito unico, che — pur composto anche da albanesi — quando sostituirà l’esercito al governo della regione farà una politica al servizio degli interessi serbi. Esistono anche partiti d’opposizione come la Lega Democratica del Kosovo, l’unico registrato, di ispirazione liberaldemocratica; il partito democratico-cristiano, il 45% dei cui sostenitori è musulmano; il partito dei contadini e il partito parlamentare, che è il vecchio partito socialdemocratico. Bisogna però tener presente che con un decreto del governo centrale, del 5 luglio 1990, ogni struttura autonoma della nostra regione è stata abolita, in particolare il Consiglio Esecutivo, cioè il Parlamento regionale, mentre sono state chiuse la radio, la televisione e la stampa locali, e sostituito con elementi serbi il personale dirigente di ospedali e di scuole. Inoltre, nei diversi settori produttivi, sono stati licenziati sessantamila lavoratori albanesi, che vanno ad aggiungersi ai centocinquantamila che erano già senza lavoro.
D. Come ha reagito l’opposizione albanese di fronte a questi fatti?
R. Ha scelto l’opposizione passiva per non provocare la strage che sarebbe seguita dando un pretesto all’esercito per intervenire. In particolare, i membri del nostro Parlamento regionale, il 2 luglio 1990, hanno pubblicamente sottoscritto una dichiarazione che affermava il Kosovo essere una repubblica nell’ambito della federazione jugoslava: questa dichiarazione veniva pronunciata davanti al Parlamento, circondato dai carri armati dell’esercito e oggi coloro che l’hanno sottoscritta, centoundici membri, si trovano tutti fuori dal Kosovo. Infine, il 7 settembre 1990, i nostri parlamentari regionali hanno clandestinamente proclamato la Repubblica del Kosovo.
Attualmente, con un decreto del mese di aprile del 1991, il membro kosovaro della Presidenza collegiale della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia — dove sono rappresentate le sei repubbliche e le due regioni autonome — è stato sostituito con un altro nominato dalle autorità della Repubblica di Serbia. Questo provvedimento è anticostituzionale perché la Costituzione prevede che siano i Parlamenti regionali a eleggere il proprio rappresentante nella Presidenza collegiale. Il motivo di questa sostituzione sta nel fatto che il rappresentante del Kosovo aveva votato contro il provvedimento proposto dalla Serbia e accettato dal Montenegro e dalla Vojvodina, e in seguito a ciò è stato immediatamente sostituito così da far perdere la maggioranza agli oppositori: il provvedimento prevedeva l’assunzione dei pieni poteri da parte dell’esercito per far fronte alle rivendicazioni nazionali, praticamente un colpo di Stato.
a cura di Oscar Sanguinetti e Andrea Morigi