1. Necessità di chiarezza. Il dibattito sul “fine vita” ha assunto carattere di complessità e, per molti aspetti, di confusione: sul piano del merito, e parallelamente sul piano del metodo. Vi è necessità di chiarezza, al tempo stesso:
· quanto ai termini che vengono adoperati,
· quanto ai principi a cui si fa riferimento,
· quanto agli obiettivi che si intendono raggiungere,
· quanto al ruolo della magistratura italiana e di talune sue autorevoli pronunce,
· quanto alle conseguenze di un intervento legislativo nella materia, pur finalizzato ad arginare lo straripamento dei giudici,
· quanto alla configurazione del nuovo assetto normativo,
· quanto alle modalità politiche per giungervi.
Su ciascuna delle voci precedenti, se si prova a fare un confronto con l’esperienza che il Parlamento italiano ha vissuto fino al 2004 a proposito della legge sulla fecondazione artificiale — materia egualmente complessa e fonte (per una lunga fase iniziale) di confusione —, si colgono nella situazione attuale più differenze che analogie: spesso i medesimi termini vengono adoperati in modo diverso dagli interlocutori; non si comprende fino in fondo se esistono e quali sono gli obiettivi da raggiungere; non è emerso finora un metodo condiviso, che superi i confini del singolo partito o dello schieramento, trattandosi di questioni che interpellano la coscienza di ciascuno, per giungere a un testo normativo egualmente condiviso. A ciò si aggiunge la consueta tendenza a usare etichette di tipo confessionale per mettere fuori gioco ragionamenti che invece si fondano su dati di diritto naturale, in quanto tali non sottoposti a condizionamenti di tipo religioso.
Dopo aver fornito un primo contributo al dibattito sulle norme che potrebbero disciplinare la materia, concorrendo alla elaborazione dei disegni di legge presentati al Senato dalla sen. Laura Bianconi e alla Camera dall’on. Barbara Saltamartini e dall’on. Roberto Cota, intendiamo con questo documento — come parlamentari — rendere ancora più esplicita la nostra posizione tesa a una tutela della vita “senza se e senza ma”, certi che lo sforzo volto a eliminare ambiguità e incertezze interpretative, pur rischiando di apparire ripetitivo, è il presupposto ineludibile per una legge realmente rispettosa della dignità della persona. Peraltro siamo confortati dalla circostanza che, nonostante le inevitabili difficoltà, il d.d.l. Bianconi reca le sottoscrizioni di 45 senatori e la p.d.l. Saltamartini ha le firme di 158 deputati: a conferma che si tratta di una posizione non marginale nel Parlamento; siamo anzi convinti che proseguire nell’approfondimento del tema crea i presupposti per l’allargamento dei consensi.
2. Riaffermare il valore della vita. Per quanto scontato possa apparire (ma alla fine tale non è), il punto di partenza è il valore della vita, e i quesiti che ruotano attorno a esso:
— la vita ha sempre in ogni momento e in ogni circostanza della sua esistenza un identico valore?
— o si deve riconoscere, come si sostiene da parte dei fautori del “testamento biologico”, che esiste una vita “meramente biologica”, che per natura sua non è libera e quindi non è dignitosa, o è meno dignitosa? sì che, in taluni casi, è consentito al tutore del malato incapace di esprimere la volontà di interrompere la vita “meramente biologica” di quel paziente (vengono subito alla mente i casi di Eluana Englaro e di Terry Schiavo)?
— ancora: costituisce esercizio di un diritto la scelta di una “morte dignitosa” che cancelli una vita pur cosciente e non meramente biologica, ma divenuta per il paziente insopportabile? Qui riaffiora il ricordo del “caso Welby”, della sentenza penale e della decisione disciplinare che lo hanno concluso. La sentenza del G.u.p. di Roma e il provvedimento dell’Ordine dei medici di Cremona hanno affermato che Piergiorgio Welby non aveva solo il potere di rifiutare la ventilazione artificiale che lo teneva in vita: aveva il diritto soggettivo di farlo e di ottenere per questo l’assistenza medica necessaria; e perciò il medico che lo ha assistito è stato assolto con l’impegnativo dispositivo “per adempimento di un dovere”.
In base a queste pronunce, sembra quindi si configurino ipotesi di “vita di minor valore”, o a causa dell’incoscienza irreversibile del soggetto o a causa delle sofferenze che lo coinvolgono. In questi casi si dovrebbe dare spazio all’interruzione della vita: non solo nel senso che viene rispettata la volontà attuale del paziente che rifiuti una cura pur utile, ma nel senso che le strutture mediche sarebbero tenute (o quanto meno legittimate) a rimuovere i meccanismi che tengono in vita il paziente, e a prestargli assistenza in una simile operazione. Questa rimozione o rinuncia alle cure potrebbe poggiare anche su una volontà espressa ma non attuale del paziente (testamento biologico o — ciò che è diventato equivalente — d.a.t., dichiarazione anticipata di trattamento), o sulla decisione di un terzo, che trovasse un qualche appiglio in una scelta del paziente solo ipotizzata o supposta.
Addirittura dalle decisioni della Corte di Cassazione e della Corte di appello di Milano sul “caso Englaro” emerge, capovolgendo un ordine logico, che solo una espressa preventiva scelta del paziente in favore della vita potrebbe impedire al tutore di ordinare di “staccare la spina”. Questa tematica, sull’esistenza di circostanze in cui la vita è meno meritevole di essere vissuta, interferisce, in qualche misura, con un’altra tematica, da porsi e da affrontare in termini assolutamente laici: con la domanda se la vita costituisca un bene disponibile, e cioè se la scelta di morte compiuta per sé da un soggetto imponga ad altri (medici e non) un obbligo di attenersi a questa opzione.
Siamo, con tutta evidenza, oltre e al di fuori delle ipotesi di rifiuto dell’accanimento terapeutico: almeno se seguiamo l’opinione del Consiglio Superiore della Sanità del 20 dicembre 2006, in base al quale “nell’accezione più accreditata, per accanimento terapeutico si intende la somministrazione ostinata di trattamenti sanitari in eccesso rispetto ai risultati ottenibili e non in grado, comunque, di assicurare al paziente una più elevata qualità della vita residua, in situazioni in cui la morte si preannuncia imminente e inevitabile” (1). Proprio alla stregua di questa definizione, si può ricordare che nei casi noti prima indicati la morte non si è mai presentata come “imminente”; anzi, è stata proprio la “non imminenza” della morte a giustificare la richiesta di por fine alla vita del paziente; e quindi, a porre il problema se debba essere rispettato il suo rifiuto delle cure.
3. La Convenzione di Oviedo e gli articoli 32 e 13 della Costituzione. Spesso si richiama come risolutiva in proposito la Convenzione di Oviedo, in specie agli articoli da 5 a 9, relativi al c.d. “consenso informato”. Lasciando da parte ogni considerazione circa il valore giuridico di tale convenzione (2), va osservato, in primo luogo, come essa non contenga univoci elementi per consentire l’interruzione di una cura medica nei confronti di un paziente incapace di intendere e di volere, persino quando tale interruzione abbia formato oggetto di esplicite pregresse manifestazioni preventive dei desideri del paziente stesso. Recita infatti l’articolo 9 della Convenzione: “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”. Dunque, non afferma che tali desideri debbano essere necessariamente osservati da chi è legittimato a decidere; e in particolare, che debbano essere osservati quando la loro applicazione risulti mortale.
Si richiama anche la Costituzione italiana, allorché fa riferimento ai “trattamenti sanitari cui nessuno può essere obbligato” in forza del comma 2 dell’articolo 32. Ed è evidente che alimentazione, idratazione e respirazione non costituiscono interventi sanitari. Ciò senza trascurare che la Costituzione, a differenza della Convenzione di Oviedo, consente gli interventi sanitari contro la volontà del paziente, purché ciò avvenga in base ad una disposizione di legge. Dunque, afferma l’esistenza di valori che possono prevalere sulla volontà del paziente: valori fra cui non è azzardato collocare anzitutto la vita del paziente stesso.
Si aggiunge, sempre a sostegno del testamento biologico, che se alimentazione, idratazione e ventilazione artificiali fossero escluse dall’ambito delle “cure mediche”, ciò contrasterebbe con l’articolo 13 della Costituzione, che tutela la libertà personale; e quindi si dice che una alimentazione, o una idratazione, o una ventilazione polmonare imposte violerebbero la libertà personale garantita dall’art. 13 della Costituzione. Ora, a parte la considerazione che anche l’art. 13 permette interventi pubblici limitativi della libertà del soggetto, ci si chiede se con questo si pensi di sostenere che un ordinamento non può imporre né “vita” né “morte”, e quindi deve mostrarsi neutrale rispetto all’una o all’altra opzione e lasciare gli individui liberi di scegliere. Le conseguenze di una eventuale risposta affermativa sarebbero inquietanti: commette violenza privata colui che trattiene l’aspirante suicida in procinto di gettarsi nel vuoto? o il medico che pratica la lavanda gastrica a chi ha tentato di darsi la morte con il veleno, magari lasciando un ultimo messaggio in cui esprime la puntuale volontà di morire?
4. Esiste il “diritto” al suicidio (e il corrispondente “dovere” di assecondarlo)? Queste considerazioni portano a esaminare un ulteriore conseguente quesito: esiste, e a quali condizioni, un “diritto al suicidio”, inteso come scelta consapevole della morte? La questione non riguarda solo il caso del paziente che ha di fronte a sé la prospettiva di una vita ritenuta “meno degna” perché accompagnata da paralisi o sofferenze (“caso Welby”), bensì pure soggetti per i quali si apre davanti la possibilità di una vita normale, ma che ritengono di rifiutarla o con lo specifico intento di morire, o accettando la morte come conseguenza del rifiuto di cure. L’esempio più noto, ma certo non unico, è dato dalla contrarietà da parte dei testimoni di Geova delle trasfusioni di sangue. Se è vero che la Corte di Cassazione ha aperto varchi eutanasici con la sentenza Englaro, è altrettanto vero che due sentenze della Suprema Corte (23 febbraio 2007, n. 4211, e n. 23676 del 15 settembre 2008) (3) hanno respinto la richiesta proposta da testimoni di Geova di essere risarciti per l’essere stati sottoposti a sgradite procedure di trasfusione di sangue (nel secondo caso è stato riconosciuto il diritto al risarcimento per i danni, ma perché la trasfusione aveva determinato un’infezione). In entrambi i casi la Cassazione ha fondato la pronuncia sulla circostanza che il paziente non avrebbe espresso un adeguato “informato dissenso” dalla terapia. Nella più recente delle due sentenze ha però affermato che i medici sono tenuti a rispettare l’“informato dissenso” del paziente, purché la di lui volontà sia “espressa, inequivoca, attuale, informata”. Probabilmente non si è riflettuto a sufficienza su queste impegnative circostanze richieste dalla Cassazione per il consenso, che non rinviano a una dichiarazione riguardante un futuro incerto, come è la c.d. “d.a.t.”, ma esigono attualità e concretezza di un quadro patologico e/o traumatologico, cui riferire l’espressione del consenso da parte non di un soggetto di genere, bensì di un “paziente”.
È vero che, applicando i criteri enunciati nella sentenza 23676/2008, non sarebbe possibile interrompere l’alimentazione di Eluana Englaro. Tale sentenza ammette infatti che la decisione di rifiutare cure mediche può essere demandata a un terzo solo quando il terzo è stato indicato dal paziente stesso quale rappresentante ad acta; attribuisce rilevanza solo a un rifiuto di cure espresso e inequivoco, formulato quando il paziente è consapevole della scelta fra la vita e la morte; dunque, mai potrebbe assumere rilievo giuridico il generico orrore nei confronti di uno stato di vita vegetativa espresso in un remoto passato da Eluana.
Le diverse risposte a questo insieme di angosciosi quesiti trova radice nella domanda di fondo dalla quale siamo partiti: la vita umana ha sempre ed in ogni momento della vita un uguale valore? A prescindere dalle sofferenze che la accompagnano? A prescindere dalla coscienza di sé che assiste l’essere umano? Se la risposta è sì, mai potrà essere consentito ad un terzo di decidere l’interruzione di quelle misure che mantengono in vita l’essere umano. In quest’ottica, il tutore ha il compito di operare le scelte migliori per conservare in vita il proprio tutelato, e favorirne la guarigione. Dunque potrà autorizzare un’operazione rischiosa che comporti speranze di guarigione; ma non potrà eseguire una mirata scelta di morte. La stessa autodeterminazione del singolo incontra dei limiti: il rifiuto di una cura, la scelta di quella signora ligure che rifiutò l’intervento di amputazione dell’arto inferiore, con la consapevolezza che avrebbe potuto cagionare la morte (come poi purtroppo è avvenuto), la decisione del testimone di Geova che rifiuta la trasfusione… restano atti leciti, ma non costituiscono l’esercizio di un diritto da cui scaturiscano doveri per altri soggetti.
L’opzione cui aderiamo può apparire rigida: pone dei limiti a quella autodeterminazione che tutti tendiamo istintivamente a rivendicare. Avrebbe imposto di dire di no a Piergiorgio Welby che invocava la morte; e di opporre un rifiuto al padre di Eluana, che chiede di essere liberato dall’angoscia. Sono argomenti che pesano sulla coscienza di ciascuno. Ma chi sostiene l’opzione opposta deve a sua volta esser consapevole di altri contrapposti problemi etici e giuridici: dove si arresta tale autodeterminazione? non si muove verso un “diritto al suicidio” (in contrasto con la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 29 aprile 2002, caso Petty c. Regno Unito)? E ancora: la sentenza della Cassazione n. 21748/2007 e il conseguente decreto della Corte di Milano sul “caso Englaro”, o la sentenza del G.u.p. di Roma sul “caso Welby”, pongono in essere una implicita ma chiara pressione psicologica su migliaia di persone che non si rassegnano a “staccare la spina” a un proprio caro, né a chiedere la morte come via d’uscita del proprio tormento. Se la così detta “dolce morte” è soluzione percorribile, e quasi valorizzata dai provvedimenti giudiziari, perché accanirsi a tenere occupata una stanza di ospedale? Perché stravolgere la vita propria e magari anche quella di persone a noi vicine, per la cura di un malato la cui vita è consentito troncare? È a portata di mano una soluzione — la morte — che, secondo la Corte di appello di Milano, costituisce espressione del “diritto alla dignità individuale del malato incapace”, e sarebbe il naturale sviluppo di una personalità libera e positiva…
L’apprezzamento per la “dolce morte”, contenuto nei provvedimenti giudiziari in questione, e la parallela affermazione del “diritto alla morte” aprono la porta a un “dovere della morte”, non ignoto all’esperienza umana (si pensi alle ipotesi di “suicidio d’onore” o di abbandono alla loro sorte dei vecchi e degli inabili, di cui parla la storia). Mentre l’affermazione di un diritto a rifiutare cure mediche può condurre al riconoscimento di un vero e proprio “diritto al suicidio”, ben più ampio e coinvolgente della mera liceità del suicidio. È possibile limitare il “diritto” alla morte ai soli casi in cui tale opzione sia mediata attraverso il rifiuto di una prestazione medica (così come sostiene la sentenza penale sul “caso Welby”)? Oppure la logica del sistema ci porterà a ritenere esercizio di un diritto anche la ricerca della morte con operazioni attive quali l’ingerimento di veleni?
5. È necessaria una legge. È certo comunque che in un regime democratico opzioni di questo genere spettano all’intero corpo sociale attraverso il Parlamento. Il primato del Parlamento è soggetto a regole, e in particolare è tenuto al “rispetto della persona umana”; ma resta da dimostrare che questo “rispetto della persona umana” imponga di mettere sullo stesso piano le scelte di vita e le scelte di morte, per es. la scelta di nutrirsi e quella di non nutrirsi. Per toccare con mano l’invasione di campo in atto da parte del giudiziario nei poteri degli organi legislativi è sufficiente leggere la massima di diritto enunciata dalla Cassazione nella sentenza 21748/2007 (quella relativa al caso Eluana), con parole e fraseggiare tipico delle leggi “generali ed astratte”: “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”. Questo passaggio spiega la posizione dei fautori dell’eutanasia: se ci si fermasse qui, non sarebbe necessaria alcuna legge. Sarebbe sufficiente un regolamento di attuazione della sentenza della Corte.
6. Non è necessaria una legge “qualunque”. Se una legge è necessaria, non è però necessaria una legge qualunque. È necessaria una legge che, partendo da una assoluta chiarezza concettuale e terminologica, pervenga a norme altrettanto definite. Se si accettasse come inevitabile l’introduzione delle “d.a.t.”, ciò equivarrebbe ad ammettere il principio secondo cui la vita è un bene rinunciabile e tale rinuncia costituisce esercizio di un diritto; così facendo, però, sarebbe difficile sottrarsi alle logiche conseguenze di questo principio, anche in termini di qualificazione dell’idratazione, dell’alimentazione e della ventilazione. Un “principio” come questo avrebbe, in altri termini, una propria “forza espansiva”, tale da travolgere tutti i limiti e i formalismi in cui un legislatore, pur accorto, pensasse di imbrigliarlo; anzi, lo sforzo di formalizzare il più possibile una “d.a.t.” (presenza del notaio, termine di validità, ecc.) avrebbe come effetto quello di rendere la “dichiarazione anticipata” ancora più vincolante per chi fosse chiamato a darne attuazione.
Ciò senza trascurare che l’applicazione concreta della legge sarà affidata a una magistratura che, ripudiando la linea interpretativa dell’articolo 32 Cost. seguita fino al 2006, ha operato una scelta politica di campo netta in favore delle pratiche eutanasiche e della disponibilità della vita umana: giungendo ad affermare — come si è appena ricordato — che la tutela della vita del malato costituisce un pubblico interesse inferiore e subordinato alle volontà manifestate dal paziente verbalmente anche anni prima che verifichi la situazione di malattia. Per questo solo una legge chiara e puntuale potrà indurre la magistratura ad adeguarsi a opzioni di vita da parte del Parlamento, mentre una legge equivoca verrà sicuramente interpretata come elemento di continuità con la odierna giurisprudenza.
Ribadiamo la nostra scelta di fondo in favore della vita. E con questo riteniamo che vada ribadito per legge che la vita ha sempre in ogni momento e in ogni circostanza un medesimo identico valore; che non esiste una vita “meramente biologica”, per natura sua non libera e quindi non (o meno) dignitosa; che quindi non è consentito dare spazio a opzioni di morte, ancorché confortate da indicazioni in passato espresse dal paziente.
Nel proporre il d.d.l. Bianconi e la p.d.l. Saltamartini siamo ben consapevoli che il favore per la vita e il conseguente obbligo del medico di operare per la salute incontrano un limite invalicabile nella libera disponibilità da parte di ciascuno del proprio corpo: il singolo (ovviamente maggiorenne e capace di intendere e volere) è legittimato a rifiutare intrusioni sul proprio corpo che pure potrebbero salvargli la vita. Non è quindi consentito trascinare sul tavolo operatorio il malato per sottoporlo a un’operazione che rifiuta in piena coscienza. Per una forma di rispetto della volontà del malato dissenziente, si esclude che questo intervento possa essere compiuto anche quando il paziente perde conoscenza dopo aver espresso la chiara volontà di non essere curato con quelle modalità. Questa è però una eccezione al principio del favor vitae che, proprio perché è tale, richiede una piena, informata ed attuale volontà del paziente espressa in prima persona nell’imminenza dell’intervento; cioè quando egli è nelle condizioni di operare un’opzione vera e consapevole.
Questa scelta peraltro impone al medico di non operare l’intrusione che pur potrebbe salvare il malato, ma non può vincolarlo a operare una intrusione di segno opposto, per esempio rimuovendo i dispositivi salvavita che siano già stati collocati. La missione del medico è salvare la vita; egli può essere — in questa sua opera — paralizzato dal dissenso del paziente, ma non gli è consentito attivarsi — anche su richiesta del paziente — con atti che portano alla morte.
7. Alleanza per la vita fra medico e paziente, nel rispetto della libertà. L’alleanza terapeutica fra medico e paziente, il consenso informato, il conseguente piano di cura sono — nell’ottica che proponiamo — strumenti di consapevole partecipazione alla cura, strumenti di vita e non di morte. Con essi il paziente sceglie terapie e modalità di cura. Può anche rifiutare cure necessarie per la sua sopravvivenza, nei limiti e nei termini in precedenza indicati. Il principio del consenso informato risponde cioè a finalità di “cura consapevole”: non deve e non può essere stravolto come mezzo per la legittimazione dell’eutanasia volontaria, dell’aiuto al suicidio, del “testamento suicida”.
Non vi è alcuna ragione di principio per escludere che il medico possa tenere conto dei desideri espressi dal paziente prima dell’insorgere dello stato di malattia. Si possono anche disciplinare le forme di manifestazione di questi desideri. Ma un punto ci pare inderogabile: questi desideri comunque espressi, comunque denominati non possono comportare la rinuncia — ora per allora — a forme di cura o di assistenza che appaiano necessarie per la vita del paziente.
Se si afferma l’esistenza di un diritto del singolo a una qualsiasi forma di “testamento biologico” che consenta la scelta di morte, la logica e la coerenza di questa scelta porteranno ad aggirare tutti i limiti e i vincoli posti al concreto esercizio di questo presunto diritto. Una volta affermato che l’opzione di morte è un diritto, non esiste alcun ragionevole motivo per subordinare questa opzione a forme o limiti determinati. E tutte le forme e i limiti potranno essere superati da un accertamento giudiziario della volontà.
Il consenso informato cancella quel “paternalismo medico” che è stato spesso esercitato nei confronti di un malato considerato mero inconsapevole destinatario di cure, ma non trasforma il medico in un passivo esecutore dei desiderata del paziente. In altre parole non contrattualizza il rapporto medico-paziente. Ci pare perciò doveroso che la legge scongiuri — almeno in questo settore — un pericolo che incombe sulla professione medica: la sua trasformazione da attività mirata a un risultato di salute e di benessere del paziente, in un’attività burocratica, di cui il primo precetto sia “tener a posto le carte”; il pericolo, cioè, che la responsabilità, invece di costituire una spinta a ben operare, ne costituisca una remora, se non un ostacolo.
Da quanto finora esposto emergono i tre punti inderogabili su cui si fonda la nostra proposta:
a) il paziente in cura può rifiutare intrusioni sul proprio corpo anche quando siano in grado di salvargli la vita; ma per il medico resta la piena autonomia, in ossequio ai principi della propria professione, di prospettare al paziente ipotesi di cura con probabilità di successo, e quindi di provocare un mutamento della decisione dell’interessato. In nessun caso il medico sarà tenuto a dare corso alla volontà del paziente che solleciti un’intrusione tale da determinare la sua morte, per esempio neutralizzando gli apparati che lo tengano in vita;
b) la facoltà sub a) spetta esclusivamente a un soggetto qualificabile come “paziente”; perciò non hanno alcun valore le dichiarazioni di volontà preventive volte a escludere, per il futuro, trattamenti utili alla sopravvivenza;
c) missione del medico è la cura del malato, secondo scienza e coscienza, e non costituire uno strumento passivo di attuazione delle volontà del singolo; in particolare, il medico non può essere vincolato a cagionare la morte del paziente.
In coerenza con questi tre punti abbiamo elaborato il d.d.l. Bianconi e la p.d.l. Saltamartini, che escludono termini come DAT o testamento biologico, oggi comunemente percepiti come sinonimo del “testamento di morte”.
Ci auguriamo, in particolare, che la delicatezza del tema, e la sua non esclusiva pertinenza a un partito o a uno schieramento, favoriscano al più presto un lavoro di confronto e di raccordo fra tutti coloro che condividono quanto fin qui esposto.
Alfredo Mantovano, Laura Bianconi, Barbara Saltamartini, Massimo Polledri, Fabio Rizzi, Alessandro Pagano, Isabella Bertolini, Domenico Di Virgilio, Renato Farina, Raffaello Vignali, Luca Volonté, Gian Carlo Abelli, Franco Asciutti, Alberto Balboni, Gianpaolo Bettamio, Franco Bevilacqua, Valerio Carrara, Maurizio Castro, Luigi Compagna, Rosario Costa, Cesare Cursi, Gianpiero D’Alia, Diana De Feo, Stefano De Lillo, Nicola Di Girolamo, Fabrizio Di Stefano, Antonio Fosson, Benedetto Fucci, Vincenzo Galioto, Cosimo Latronico, Simonetta Licastro, Giuseppe Francesco Maria Marinello, Gianfranco Paglia, Guido Possa, Luigi Ramponi, Filippo Saltamartini, Giacomo Santini, Giancarlo Serafini, Ada Spadoni, Oreste Tofani, Giuseppe Valditara, Simona Vicari, Guido Viceconte, Valter Zanetta
[documento del dicembre 2008]
Note:
(1) Il parere cita: Santosuosso A., Valutazione medica e autonomia del paziente; accanimento terapeutico e eutanasia, in Medicina e Diritto, a cura di Mauro Barni e Amedeo Santosuosso, Giuffrè, 1995; Iadecola G., Eutanasia. Profili giuridici e medico-legali, Liviana Editrice, Padova 1991.
(2) La sentenza n. 21748/2007 della prima sezione civile della Corte di Cassazione così si esprime: “ora, è noto che, sebbene il Parlamento ne abbia autorizzato la ratifica con la legge 28 marzo 2001, n. 145, la Convenzione di Oviedo non è stata a tutt’oggi ratificata dallo Stato italiano. Ma da ciò non consegne che la Convenzione sia priva di alcun effetto nel nostro ordinamento. Difatti, all’accordo valido sul piano internazionale, ma non ancora eseguito all’interno dello Stato, può assegnarsi — tanto più dopo la legge parlamentare di autorizzazione alla ratifica — una funzione ausiliaria sul piano interpretativo: esso dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie, ma può e deve essere utilizzato nell’interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile ad esso conforme. Del resto, la Corte costituzionale, nell’ammettere le richieste di referendum su alcune norme della legge 19 febbraio 2004, n. 40, concernente la procreazione medicalmente assistita, ha precisato che l’eventuale vuoto conseguente al referendum non si sarebbe posto in alcun modo in contrasto con i principi posti dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997, recepiti nel nostro ordinamento con la legge 28 marzo 2001, n. 145 (Corte cost., sentenze n. 46, 47, 48 e 49 del 2005): con ciò implicitamente confermando che i principi da essa posti fanno già oggi parte del sistema e che da essi non si può prescindere”.
(3) Sentenza n. 23676 del 15 settembre 2008: Sussiste un generale principio (di indubbia rilevanza costituzionale), desumibile, tra l’altro, dal codice di deontologia medica e dal documento 20 giugno 1992 del comitato nazionale per la bioetica in forza del quale va riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita (principio del consenso informato). Per quanto attiene al dissenso informato alla trasfusione di sangue, presenta caratteri peculiari il caso in cui a negare il consenso alla terapia trasfusionale sia il testimone di Geova, maggiorenne e pienamente capace, essendo in tal caso il medico obbligato alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico. E ciò perché il conflitto tra due beni — entrambi costituzionalmente tutelati — della salute e della libertà di coscienza non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicché ogni ipotesi di emotrasfusione obbligatoria diverrebbe per ciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali (perciò, un rifiuto “autentico” della emotrasfusione da parte del testimone di Geova capace — avendo, in base al principio personalistico ogni individuo il diritto di scegliere tra salvezza del corpo e salvezza dell’anima — esclude che qualsiasi autorità statuale — legislativa, amministrativa, giudiziaria — possa imporre tale trattamento ed il medico deve fermarsi).
Il rifiuto di un trattamento sanitario necessario per il mantenimento in vita del paziente deve risultare da una sua manifestazione di volontà espressa, inequivoca, attuale, informata.
Il paziente deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto “ideologica”, ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una “precomprensione” in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l’informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute (perciò deve essere rigettato il ricorso avverso la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto legittima la trasfusione di sangue operata su un paziente che portava su di sé un cartellino con la dicitura “niente sangue”). Il dissenso al trattamento trasfusionale, anche quando esso risulti necessario per la salvezza del paziente, deve emergere o da una dichiarazione di volontà dello stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero da un diverso soggetto dal paziente stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari.