Paolo Mazzeranghi, Cristianità n. 306 (2001)
La Sindone, conservata a Torino, è la reliquia che generazioni di fedeli hanno venerato, e tuttora venerano, come il telo che avvolse il Signore Gesù nel sepolcro; ne parlano i Vangeli e dicono che venne acquistato in tutta fretta da Giuseppe d’Arimatea la sera della Parasceve.
Com’è noto, si tratta di un lungo telo di lino su cui appare l’immagine frontale e dorsale di un uomo composto nel rigore della morte. I segni della Passione vi sono impressi con un’assoluta precisione anatomica: dal sangue misto ad acqua sgorgato dal costato, alle piaghe della flagellazione, alle ferite sul capo prodotte dagli aculei delle spine. Non per nulla i primi a convincersi che la Sindone aveva realmente avvolto un uomo percosso e crocifisso sono stati medici e patologi.
Ma i problemi sollevati dalla reliquia sono molteplici e spaziano in un campo vastissimo: dai meccanismi di formazione dell’immagine, ai riti funerari degli ebrei all’epoca di Gesù, al contenuto di isotopi del carbonio nella cellulosa — il lino è in gran parte composto da questo polimero —, alla natura mineralogica delle rocce dei sepolcri nei pressi di Gerusalemme, ai pollini degli antichi fiori della Palestina, e così via. Malgrado la maggior parte degli studi e delle verifiche sperimentali tendano a confermare quanto generazioni e generazioni hanno sempre creduto, cioè che la Sindone sia il panno funebre di un uomo che ha patito tutto quanto narrano i Vangeli, v’è spazio per molteplici obiezioni, sia perché in campo scientifico nessuna certezza può considerarsi definitiva, sia perché, per alcuni, è d’obbligo trovare sempre nuovi motivi per negare tutto quanto può essere di stimolo alla fede.
Fra i temi già da lungo tempo motivo di dibattito v’è quello dell’itinerario percorso dalla reliquia per giungere da Gerusalemme a Torino e proprio a questo aspetto specifico della ricerca sindonica è dedicata l’opera di Francesco Barbesino e Mario Moroni.
Entrambi gli autori provengono da un’esperienza tecnico-scientifica. Francesco Barbesino, laureato in Ingegneria Industriale sottosezione Chimica al Politecnico di Milano, ha lavorato per oltre trent’anni, prima come responsabile del Laboratorio Prove Materiali poi come senior scientist, presso il Centro Informazioni Studi ed Esperienze di Milano. Mario Moroni è un esperto di elettronica industriale. Membro della British Society for the Turin Shroud e del Centro Internazionale di Sindonologia di Torino, è noto a livello internazionale come esperto numismatico e per le sue ricerche sulla formazione dell’immagine sindonica.
Da alcuni anni gli autori conducono in collaborazione ricerche scientifiche sulla Sindone riassunte in numerose memorie presentate a congressi nazionali e internazionali. Hanno pure pubblicato insieme L’ordalia del Carbonio 14, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1996, e Apologia di un falsario. Indagine sulla Sindone di Torino, Minchella, Milano 1997 (cfr. recensione di Marco Respinti, in Cristianità, anno XXV, n. 267-268, luglio-agosto 1997, pp. 21-24); e collaborato ad AA. VV., Il grande libro della Sindone, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, con La Sindone prototipo indiscusso per le monete bizantine (pp. 211-214) e Sulla Sindone due monete di Tiberio Cesare? (pp. 217-219).
Dopo la Prefazione (pp. 5-6), che fornisce qualche indicazione metodologica, il lungo e tortuoso itinerario inizia dal Santo Sepolcro: Da Gerusalemme a Edessa (pp. 7-18); quindi gli autori trattano de Il “Mandylion” di Edessa a Costantinopoli (pp. 19-25), del Ritorno delle immagini dopo la crisi iconoclastica (pp. 26-34), de Il periodo oscuro dopo il sacco di Costantinopoli (pp. 35-61), de La Sindone a Lirey: Goffredo I di Charney (pp. 62-71), de La polemica del vescovo Pietro d’Arcis (pp. 72-82), de Da Lirey a Chambéry (pp. 83-97), de L’incendio della Santa Cappella (pp. 98-106); Finalmente a Torino (pp. 107-108) è il titolo dell’ultima sezione, che precede la Conclusione (pp. 109-110) e un Indice dei nomi (pp. 111-116), reso utile dall’ampiezza dell’area e dell’arco temporale esaminati.
Dunque, subito si pone una serie d’interrogativi. Il telo intriso di sangue, che secondo i riti giudaici avrebbe dovuto venir distrutto, fu conservato dei discepoli del Risorto? Lo portarono con sé i primi cristiani in fuga da Gerusalemme, quando il Tempio venne profanato ed era prossima la sua distruzione per opera dei romani? Un possibile itinerario conduce da Gerusalemme a Pella nella Decapoli, da qui ad Antiochia e infine a Edessa nella Mesopotamia settentrionale ove un piccolo regno, già nel secolo II, era divenuto cristiano. Questo un primo tratto del cammino, che si potrebbe definire come “ragionevolmente possibile”.
In questo periodo i documenti che parlano della Sindone vanno ricercati non solo nella storia ma anche nella leggenda, poiché, com’è noto, anche questa contiene spesso un nocciolo di verità. E una tra le più note leggende narra del re di Edessa Abgar e di un oggetto che ha ricevuto da Gesù. Sorprendentemente la natura di questo oggetto muta, nelle redazioni successive della leggenda, col passare dei secoli: prima è una lettera, poi un dipinto del volto del Salvatore, infine un panno nel quale questi si è disteso lasciandovi impressa la sua immagine, come se la natura dell’oggetto, all’inizio nascosto o venerato segretamente, divenisse sempre più noto nella sua vera natura. È l’immagine non fatta da mano d’uomo, già dal secolo VII famosa in tutto l’Oriente al punto che il suo volto, ripreso in ogni particolare, viene impresso per cinque secoli sulle monete dell’impero di Bisanzio.
In realtà la monetazione aurea bizantina che riproduce costantemente, senza alterazioni e con il massimo di verosimiglianza, il volto della Sindone è una prova indiscutibile, quanto meno, dell’antichità del telo.
La presenza della Sindone nella capitale dell’impero costituisce un punto fermo dell’itinerario.
Nel 944 una spedizione militare bizantina giunge sotto le mura di Edessa, già da tempo divenuta territorio musulmano, con il preciso scopo di ottenere la reliquia con le trattative o con la forza: infatti lo stesso anno, nel giorno dell’Assunta, la Sindone fa il suo ingresso trionfale a Costantinopoli, attraverso la Porta d’Oro, l’ingresso riservato agli eserciti vittoriosi. Ancora una volta, secondo i canoni conciliari ancora vigenti, il corpo viene scoperto solamente sino alla ferita del costato, piaga considerata il segno di vita che persiste nel redentore morto. La reliquia verrà custodita nella chiesa del palazzo imperiale e mostrata ad ospiti illustri della corte di Bisanzio. Ne parleranno pellegrini e visitatori, anche se non è certo che tutti l’abbiano potuta osservare direttamente.
Vi rimarrà certamente sino al 1204, quando si consuma una delle maggiori catastrofi della cristianità: la conquista di Costantinopoli a opera dei cavalieri franchi e dei veneziani che avrebbero dovuto dar vita alla quarta crociata. La reliquia scompare, “né alcuno seppe, né greco, né francese, che cosa avvenne” (p. 36).
Le ipotesi elaborate, sono numerosissime: da quelle ragionevolmente fondate sulla base di un minimo di documentazione a quelle del tutto fantastiche. Nella maggior parte di esse il punto di partenza è Costantinopoli e quello d’arrivo Lirey, un villaggio della Champagne, regione storico-geografica della Francia nordorientale, il cui feudatario è Goffredo di Charny, scomparso nel 1356, il primo proprietario certo, in terra di Francia, della Sindone. Fra più accreditati nel ruolo di tramite i Cavalieri del Tempio, le famiglie della prima e seconda moglie di Goffredo e il re di Francia Filippo VI di Valois (1293-1350), che nel 1247 riceve molte delle reliquie di Costantinopoli dall’imperatore latino Baldovino II di Bourgh, morto nel 1131.
Uno dei maggiori problemi per lo storico, che voglia dipanare questo intricatissimo nodo, non è soltanto la scarsità di documenti certi, ma il fatto che quelli esistenti rendono in qualche modo ragionevoli le diverse ipotesi.
Lo stesso Goffredo fonda una collegiata per riporvi oggetti indicati genericamente come reliquie di grande valore e chiede per essa al suo re e ai Papi del suo tempo privilegi e indulgenze ma, in esplicito, la Sindone non viene mai nominata. Di fatto si rimarrebbe nell’incertezza riguardo alla sua presenza a Lirey, se fortuitamente non fosse stata ritrovata una placca ricordo del pellegrinaggio a Lirey, che riproduce con molta verosimiglianza il telo e porta gli stemmi araldici di Goffredo e della moglie. Trent’anni dopo il vescovo diocesano di Troyes, in accesa polemica con i Charny, afferma in un famoso memoriale che, vivente Goffredo, è stato individuato e processato il falsario che avrebbe dipinto la Sindone, accusa del tutto inconsistente, ma tale da confermarne la presenza a Lirey.
Dal punto di vista giuridico, secondo il volere del fondatore, i canonici della collegiata sono i legittimi proprietari della Sindone, ma la famiglia di Goffredo esercita su di essa un diritto di patronato. E a Margherita di Charny (1392 ca.-1459), nipote di Goffredo, si rivolgono i canonici in uno dei periodi più oscuri della Guerra dei Cento Anni, perché ponga in salvo nei feudi del marito il Santo Sudario e tutte le cose preziose della Collegiata, con la promessa di una pronta restituzione al cessare dello stato di guerra.
Ma, cessato ogni pericolo, Margherita non restituirà la Sindone, malgrado una serie interminabile di chiamate in giudizio nei tribunali civili ed ecclesiastici e un’ultima definitiva scomunica; infine la cederà, non senza compenso, ai duchi di Savoia.
In questa lunghissima, sotto certi aspetti gustosa, querelle fra Margherita, la famiglia di lei e gli sfortunati canonici di Lirey, occorre tener presente che il diritto di proprietà sulla reliquia da parte di Margherita era tutt’altro che certo e che, inoltre, il commercio di reliquie era severamente proibito dalla Chiesa; così anche il passaggio della Sindone ai duchi di Savoia è un altro episodio certo, i cui particolari sono però ampiamente avvolti nel mistero.
Da questo momento la storia della Sindone s’intreccia con quella dei cattolicissimi duchi, che la portano seco in ogni spostamento attraverso le loro terre poste al di qua e al di là delle Alpi. Quando sono a Chambéry, capitale del ducato, il palladio dei Savoia è conservato nella cappella del Santo Sudario e lì, la notte fra il 3 e 4 dicembre 1532, scoppia il furioso incendio nel quale la reliquia rischia di andare perduta. Poi i duchi vengono coinvolti, loro malgrado, nella guerra fra Francia e Spagna per la successione al ducato di Milano: la Sindone attraversa le Alpi e rimarrà in Piemonte sino alla restaurazione del ducato a opera di Emanuele Filiberto (1528-1580). La Sindone ritorna a Chambéry vent’anni dopo; ma lo stesso duca, cogliendo l’occasione di un voto fatto dall’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo (1538-1584) di andare pellegrino a venerare la Sindone — voto fatto in occasione della peste che aveva desolato la sua diocesi — il 14 settembre 1578 trasferisce il Santo Sudario da Chambéry a Torino, e questa volta definitivamente. Ma già sette anni prima, alla battaglia di Lepanto, i duchi di Savoia avevano innalzato sulle loro galee lo stendardo con al centro la Santa Sindone.