Massimo Introvigne, Cristianità 341-342 (2007)
Bat Ye’or, “Figlia del Nilo” in ebraico, è lo pseudonimo della giornalista e scrittrice Gisèle Littman, nata Orebi. Rifugiata a Londra, come molti altri ebrei, dal nativo Egitto nel 1957, nel 1959 Bat Ye’ or è diventata cittadina britannica e nel 1960 si è trasferita a Ginevra, dove vive tuttora. Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, pubblicata in inglese nel 2005 e in francese nel 2006, è la sua opera più nota, che in un certo senso ne corona tutte le altre: The Dhimmi: Jews & Christians Under Islam, “I dhimmi. Ebrei e cristiani sotto l’islam” (Fairleigh Dickinson University Press, Madison [New Jersey] 1985), The Decline of Eastern Christianity: From Jihad to Dhimmitude, “Il declino della cristianità orientale. Dal jihad alla dhimmitudine” (ibid. 1996), Islam and Dhimmitude: Where Civilizations Collide, “Islam e dhimmitudine. Quando le civiltà si scontrano” (ibid. 2001).
La stessa espressione “Eurabia” deriva sì dal titolo di un’oscura rivista pubblicata nel 1975 a Parigi da un Comité Européen de Coordination des Associations d’Amitié avec le Monde arabe, ed è stata fatta conoscere al grande pubblico dallo storico Niall Ferguson e dalla giornalista Oriana Fallaci (1929-2006), ma sia Ferguson sia la Fallaci la derivano da Bat Ye’or.
Si tratta di un ampio studio fondato su una ricchissima documentazione, diviso in cinque parti. Nella prima — Il progetto (pp. 15-60) — Bat Ye’or definisce che cosa precisamente intende per Eurabia: un disegno che, negando la nozione di “Occidente”, mira a staccare l’Europa occidentale dalla tradizionale alleanza con gli Stati Uniti d’America sostenendo che l’Europa è assai più vicina per storia, per mentalità, per cultura e per interessi economici al mondo arabo e musulmano di quanto non sia all’America Settentrionale. Se è vero che la crisi del petrolio negli anni 1970 rendeva, per così dire, questa tesi economicamente conveniente per l’Europa, per Bat Ye’or non si tratta solo di economia ma di una posizione che è anzitutto culturale e che, ben prima che i problemi petroliferi diventassero decisivi, già seduceva personalità come il generale Charles de Gaulle (1890-1970), presidente della Repubblica Francese dal 1959 al 1969 e all’origine, con altri, di quello che negli ambienti diplomatici è da allora definito DEA, Dialogo Euro-Arabo. Lo stesso de Gaulle, negli anni 1960, rovescia la politica francese di amicizia con Israele prendendo posizione per l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina guidata da Yasser Arafat (1929-2004), e convincendo molti Stati europei a seguirlo su una strada sempre più apertamente anti-israeliana. Infine, il progetto di Eurabia ha anche un versante accademico, ed è sostenuto — oltre che da un anti-americanismo assai diffuso negli ambienti universitari europei — da una reinterpretazione dell’islam che lo presenta come una religione di pace, mettendo fra parentesi tutto quanto nel Corano e nella storia islamica chiama invece i fedeli a sottomettere i non musulmani tramite la guerra.
Nella seconda parte — La genesi di Eurabia (pp. 61-126) — Bat Ye’or si concentra sugli anni 1970 e mostra come il DEA, utilizzando gli strumenti offerti dalla Comunità Economica Europea — oggi Unione Europea —, si dota di tutta una serie di strumenti permanenti culturali, economici e di cooperazione allo sviluppo, il cui segno distintivo è il sostegno ad Arafat e all’OLP, nonostante quest’ultima organizzazione moltiplichi proprio in quegli anni gli attentati terroristici.
Nella terza parte — Il funzionamento di Eurabia (pp, 127-192) — attraverso una puntigliosa elencazione d’incontri e di documenti l’autrice mostra che il DEA e il progetto Eurabia sono tuttora vivi e vitali, e hanno avuto uno snodo fondamentale alla I Conferenza Euromeditteranea di Barcellona del 1995. Anzi, il sostegno all’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e l’antisionismo sono talora degenerati in aperto antisemitismo. Il progetto ha avuto un comprensibile momento di difficoltà dopo l’11 settembre 2001: ma è rapidamente ripartito, e la VI Conferenza Euromediterranea, tenuta a Napoli nel 2003, ha mostrato che gli attentati di New York e di Washington non hanno sostanzialmente cambiato nulla, ancorché Bat Ye’or riconosca che alle tesi anti-americane del governo francese dell’epoca abbia cercato di fare ostacolo l’esecutivo italiano allora presieduto dall’on. Silvio Berlusconi.
Nella quarta parte — Gli strumenti di Eurabia (pp. 193-248) — mostra l’uso strumentale della prassi e della stessa espressione “dialogo”, che porta la parte europea a fare gradualmente suo il punto di vista dell’interlocutore musulmano, accettando anche tesi che in fasi precedenti della conversazione aveva dichiarato inaccettabili, per esempio quanto al terrorismo in Medio Oriente e al ruolo di Hamas. A chi ha letto lo studio del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo (trad. it., Edizioni de L’Alfiere, Napoli 1970), che Bat Ye’or non cita e che è consacrato ai rischi del dialogo fra l’Occidente cristiano e il comunismo, l’analogia appare così precisa da rivelarsi sorprendente. Anche nel dialogo con l’islam è all’opera un “trasbordo ideologico inavvertito” che porta l’interlocutore occidentale ad accettare le tesi altrui in modo così graduale che quasi non se ne rende conto.
Fondamentale per l’intera argomentazione di Bat Ye’or è la quinta parte — L’ideologia di Eurabia (pp. 251-352) — che prelude alle Conclusioni (pp. 333-340), integrate da un Post scriptum all’edizione italiana (pp. 341-352). Qui l’autrice denuncia il “palestinismo” (p. 251) — definito un “nuovo culto [che] assegna una valenza teologica ai palestinesi” (p. 252) — come il cuore dell’ideologia che sostiene il progetto Eurabia e come qualche cosa di diverso da una semplice opzione di politica estera. No, afferma Bat Ye’or, il “palestinismo” è una sorta di culto religioso di una figura del “palestinese” che è due volte immaginaria, ma a cui è attribuito il ruolo, che richiama quello di Gesù Cristo in una trasposizione secolare e blasfema, della vittima che con le sue sofferenze redime l’Occidente dai peccati dell’imperialismo e del colonialismo. Il “palestinese” è anzitutto una figura immaginaria per le sue origini recenti e socialmente e politicamente costruite: prima che si cominci a parlare di uno Stato d’Israele nella regione non vi sono “palestinesi” ma arabi musulmani, ex sudditi ottomani che si considerano parte di regioni come la Giordania, la Siria o l’Egitto e che del resto coesistono sullo stesso territorio con arabi cristiani e con ebrei. L’identità “palestinese”, secondo Bat Ye’or, è ampiamente inventata in funzione anti-israeliana: dal punto di vista etnico, linguistico e culturale nulla giustifica una distinzione fra un “palestinese” della Cisgiordania e un “giordano” della Transgiordania, né fra un “egiziano” del Sinai e un “palestinese” di Gaza. Con l’esasperazione artefatta — ma riuscita — di un nazionalismo palestinese, i “palestinesi” diventano una figura immaginaria anche in un secondo senso, come presunti protagonisti di una storia di martirio da parte del “satanico Israele” (p. 252) in cui l’Occidente è invitato a vedere la versione attualizzata della Passione di Gesù Cristo. Anzi: lo stesso Gesù Cristo, contro ogni evidenza storica, è presentato come “palestinese” e non come ebreo, e la storia dei rapporti fra islam e cristianesimo è riscritta in modo “buonista” e idilliaco a partire dal mito dell’Andalusia moresca, dove in realtà la condizione dei cristiani sotto il dominio islamico nei secoli che vanno dall’VIII al XV era ben peggiore di come comunemente la si dipinge. Ma i cristiani, secondo Bat Ye’or, o almeno molti di loro, hanno accettato quella che in tutta la sua opera chiama, con neologismo da lei inventato, “dhimmitudine”: la condizione di dhimmi, “protetti”, cittadini cui è concesso praticare — ma non propagandare — la propria fede purché riconoscano la superiorità dell’islam e il buon diritto dei musulmani a godere di una pienezza di diritti che ai non musulmani è negata. Bat Ye’or parte da una nota polemica contro la “teologia della sostituzione”, la teologia — cioè — secondo cui, con l’avvento della Chiesa, Nuovo Israele, la funzione nella storia della salvezza dell’Antico Israele, il popolo ebraico, è completamente venuta meno, e non ne rimane più nulla: una posizione che — come la stessa autrice ricorda — è stata riletta criticamente dal Magistero cattolico durante il pontificato di Papa Giovanni Paolo II (1978-2005). Ma per gli apologisti — anche cristiani — della “dhimmitudine” la “teologia della sostituzione” è diventata qualche cosa di diverso: non solo la Chiesa, ma anche, in particolare, il “popolo palestinese” ha sostituito il popolo ebraico come popolo eletto, e insieme come popolo-vittima con cui è obbligatorio essere in comunione per poter dire di amare veramente la verità e la giustizia.
Il giudizio di Bat Ye’or sul dialogo islamo-cristiano, su molte istituzioni cattoliche e sugli scambi culturali con l’islam nelle università europee è molto severo, e a tratti sembra implicare che sia un oggettivo contributo al perverso progetto di Eurabia ogni dialogo con qualunque musulmano che creda nell’islam; nel libro si salva, occasionalmente, il dialogo con qualche laicista nato musulmano, che però, a rigore, dell’islam non fa, o non fa più, parte. Qui — naturalmente — l’opera rivela la sua natura di pamphlet, nonostante la mole, che non deriva dalla scarsa documentazione — al contrario, questa è eccellente come risulta anche dalle Appendici (pp. 353-381) e dalla Bibliografia (pp. 383-401), completata da una Sitografia (p. 402) — ma dal tono. Bat Ye’or ha una tesi, e la sostiene senza sfumature. Questo le è stato rimproverato da autori che, senza essere “islamofili” per partito preso, pensano però che la sua posizione sia eccessiva e ultimamente ostacoli le possibilità di distinguere, all’interno dei musulmani che vivono e praticano la loro fede, i fondamentalisti da coloro che, senza essere laicisti, a rigore fondamentalisti non sono. L’argomento — in polemica esplicita con Bat Ye’or — è stato sviluppato da ultimo dal sociologo statunitense Philip Jenkins nel suo God’s Continent. Christianity, Islam, and Europe’s Religious Crisis, “Il continente di Dio. Il cristianesimo, l’islam e la crisi religiosa europea” (Oxford University Press, New York 2007). Benché la prospettiva di Jenkins sia a mio avviso eccessivamente ottimistica sulle possibilità di dialogo e d’integrazione nel breve periodo della maggioranza dei musulmani che vivono nell’Europa Occidentale, la critica a Bat Ye’Or contiene elementi su cui vale la pena di riflettere. Il progetto Eurabia, la pavidità dell’Europa e il dialogo che diventa “trasbordo ideologico inavvertito”, il culto semi-religioso dei “palestinesi” sono tutti elementi sia ben presenti e reali sia assolutamente pericolosi nell’attuale panorama politico e culturale europeo. Da questo punto di vista, Bat Ye’or suona un campanello d’allarme che merita di essere ascoltato con la massima attenzione. I campanelli d’allarme, però, riescono a svegliare i dormienti proprio per il loro suono che è stridulo e monocorde come quello di una sirena. Non vanno confusi con le sinfonie, che possono permettersi variazioni musicali quasi infinite. Una volta risvegliati — in modo salutare — dal campanello di Bat Ye’or, occorre chiedersi che cosa fare per uscire dalla logica perversa di Eurabia. Se la prospettiva non è quella della guerra apocalittica contro oltre un miliardo di musulmani, non resta che cercare nel mondo islamico interlocutori non uguali a noi occidentali — come sono quei “musulmani laici” che fanno bellissima figura nei congressi europei ma che, nel contempo, hanno scarsissimo seguito fra gli autentici fedeli dell’islam — i quali però, pur consci della loro diversità, siano disposti a discutere almeno sulle condizioni di una coesistenza non necessariamente amichevole, ma neppure obbligatoriamente affidata solo alle bombe e alle armi. Se le cose stanno così, pur ammirando la vis polemica di Bat Ye’Or, non è necessario concludere che ogni esponente cattolico, ogni vescovo, ogni uomo politico che si sieda al tavolo del dialogo con un interlocutore musulmano sia un fan del progetto Eurabia e pertanto deciso a svendere la sua identità e la sua fede. In molti casi sarà certamente così; ma in altri si tratta semplicemente della difficile ma indispensabile ricerca di un islam che non sia né ultra-fondamentalista né laicista ma interessato a riannodare il filo — faticosamente, perché la sua tradizione sembra averlo smarrito da parecchi secoli — del rapporto fra fede e ragione. È questo — dalla lectio magistralis all’università di Ratisbona del 12 settembre 2006 al viaggio in Turchia dal 28 novembre al 1° dicembre 2006 — l’invito che viene anche da Papa Benedetto XVI.
Massimo Introvigne