Paolo Mazzeranghi, Cristianità 229 (1994)
Joseph-Pierre Hilaire Belloc nasce il 27 luglio 1870 a La Celle-Saint-Cloud, presso Parigi, da padre francese, avvocato, e madre inglese, appartenente all’alta borghesia, convertita al cattolicesimo dal protestantesimo. Condotto in tenera età in Inghilterra dopo la morte del padre, compie i suoi studi prima presso i padri oratoriani a Birmingham, poi negli Stati Uniti d’America e in Francia, dove presta il servizio militare. Nel 1894 entra al Balliol College di Oxford, dove si addottora brillantemente in storia e diviene presidente dell’Union, circolo di discussione frequentato dai rampolli della più alta classe dirigente; ma la sua dichiarata adesione al cattolicesimo e le franche prese di posizione causano il suo allontanamento da Oxford. Nel 1900 conosce Gilbert Keith Chesterton, con il quale dà vita a un fraterno sodalizio. Divenuto suddito britannico nel 1902, è eletto nel 1906 alla Camera dei Comuni per il Partito Liberale e nel 1910 come indipendente. Polemista molto attivo nel dibattito politico, è anche scrittore straordinariamente prolifico nei generi più diversi: dalla narrativa per i ragazzi alla poesia, dai racconti di viaggi — celebre The Path to Rome (trad. it., La Via di Roma, Edizioni Paoline, Alba [Cuneo] 1966), in cui narra il pellegrinaggio a piedi da Parigi a Roma svolto nel 1901 — alla tecnica militare e ai romanzi polizieschi, dai saggi di tema politico alle biografie e alle grandi opere storiche. Si spegne il 16 luglio 1953 a Guildford, nel Surrey. La critica letteraria — compresa quella inglese, peraltro generalmente ostile alle sue idee storiche — concorda nel ritenerlo uno dei maggiori scrittori inglesi della prima metà del secolo XX. Non sono disponibili traduzioni italiane recenti dei volumi di Hilaire Belloc; a parte alcune biografie storiche — comunque piuttosto datate — è possibile approfondire il suo pensiero storico su alcune fra le sue opere più significative (cfr.Saggio sull’indole dell’Inghilterra contemporanea, La Nuova Italia, Firenze 1938; Breve storia d’Inghilterra, Studium, Roma 1938;L’anima cattolica de l’Europa, Morcelliana, Brescia 1946; La crisi della civiltà, Morcelliana, Brescia 1948).
Quella che viene consuetamente accreditata come la più famosa opera di carattere politico di Hilaire Belloc, The Servile State, edita nel 1912 — di cui il lettore italiano ha potuto leggere ampi brani in un saggio di Francesco Perfetti (cfr. Hilaire Belloc, Volpe, Roma 1968) —, è apparsa nel 1993 in edizione italiana con il titolo Lo Stato servile, introdotta da Marco Vitale (pp. XV-XXX) e con la riproduzione dell’introduzione di Robert Nisbet a un’edizione statunitense del 1977 (pp. XXXIII-XLII), cui fa seguito la Prefazione alla seconda edizione (pp. XLV-LI), dedicata dall’autore a rispondere a obbiezioni suscitate dalla prima edizione.
Dopo un breve preambolo — L’argomento di questo libro (pp. 3-6) — in cui espone il piano dell’opera, Hilaire Belloc riserva il primo capitolo — Definizioni (pp. 7-20) — alla precisazione dei termini “proprietà”, “proletariato”, “società capitalista”, “società collettivista” o“società socialista”, ricorrenti nello studio, nonché alla definizione di “Stato servile”, su cui l’opera è incentrata: “Chiamiamo Stato servile quell’ordinamento sociale per il quale il numero di famiglie e di individui costretti dalla legge a lavorare a beneficio di altre famiglie e altri individui è tanto grande da far sì che questo lavoro si imprima sull’intera comunità come un marchio” (p. 11).
Lo Stato servile — dall’accezione latina di servus, cioè “schiavo” — sarebbe, secondo l’autore, la forma socio-economica verso cui starebbe regredendo il capitalismo, primo fra tutti quello britannico.
La connotazione essenziale della condizione servile è l’assenza di libertà del lavoro, “[…] quando si toglie all’uomo la libera scelta di lavorare o no, in un posto o in un altro, per questo e quell’altro motivo, e quando lo si obbliga con una legge a lavorare a beneficio di altri che non sono soggetti allo stesso obbligo” (p. 18), anche se la stessa misura retributiva — essendo “[…] nello spirito della schiavitù che allo schiavo venga assicurata la sussistenza o poco più della sussistenza” (p. 17) — annulla ogni speranza di emancipazione economica. Nel secondo capitolo — La nostra civiltà fu originariamente servile (pp. 21-26) — Hilaire Belloc delinea le connotazioni schiavistiche della civiltà greco-romana, non mutate sostanzialmente dall’incontro con l’elemento germanico. Nel terzo capitolo — Come scomparve per un periodo l’istituzione servile (pp. 27-37) — dedica ampio spazio al tema, ricorrente nelle sue opere, dell’estinzione della schiavitù in Europa durante il Medioevo: “In conclusione — scrive —, alla fine di questo lungo processo, durato mille anni, lo schiavo era diventato un uomo libero a tutti gli effetti: comprava e vendeva, risparmiava a suo piacimento, investiva, costruiva, sciupava denaro a sua discrezione e ogni miglioramento della terra in termini di produttività era esclusivamente a suo vantaggio” (p. 33); “al suo interno — aggiunge — la stabilità di questo sistema distributivo (come io l’ho definito) era garantita dall’esistenza di strutture cooperative che univano uomini impegnati nella stessa occupazione e abitanti nello stesso villaggio, proteggendo così il piccolo proprietario dalla perdita della sua indipendenza economica e, al contempo, tutelando la società contro la crescita del fenomeno proletario” (p. 34).
Nel quarto capitolo — Come fallì lo Stato distributivo (pp. 39-54) — viene descritto il processo che ha portato l’Inghilterra del secolo XIX alla completa affermazione del capitalismo, e che iniziò, secondo Hilaire Belloc, nel secolo XVI, sotto Enrico VIII e i suoi immediati successori, con la confisca di gran parte del patrimonio della Chiesa. Tali ingenti ricchezze, sfuggite al controllo della Corona, finirono nelle mani di un ristretto numero di grandi proprietari terrieri, in grado, per le loro risorse, di dominare il Parlamento e di indirizzare il destino politico della nazione. L’abolizione delle proprietà pubbliche e delle consuetudini comunitarie, ma soprattutto una spietata concorrenza alla piccola proprietà terriera, con la nascita del proletariato, sarebbero state le conseguenze dello strapotere politico ed economico di questa oligarchia agraria, a cui presto si associò una piccola plutocrazia commerciale. La concentrazione dell’industria e l’introduzione di macchine innovative furono rese possibili proprio dall’accumulo di risorse economiche nelle mani di questo nucleo capitalistico originario e dalla disponibilità di un proletariato, che non sarebbe quindi spiacevole conseguenza, ma causa necessaria della cosiddetta rivoluzione industriale. “Perché pochi uomini si ritrovarono senza difficoltà detentori dei nuovi metodi? […]Semplicemente perché l’Inghilterra nella quale si erano verificate le nuove scoperte era già un’Inghilterra il cui suolo e le cui accumulazioni di ricchezze erano posseduti da una piccola minoranza, e già con una popolazione forse per metà proletaria, che costituiva un veicolo di sfruttamento pronto all’uso” (p. 50).
La chiusura delle scuole e il limitato accesso alle università da una parte, e lo svigorimento della vita comunitaria dall’altra, sono state le cause della devitalizzazione culturale e sociale del popolo inglese.
Nel quinto capitolo — La instabilità dello Stato capitalista è direttamente proporzionale al suo perfezionamento (pp. 55-64) — l’autore individua due elementi di tensione, la cui azione congiunta renderebbe instabile, a suo avviso, il moderno capitalismo. In primo luogo la contraddizione fra lo spirito che anima le leggi britanniche, tutte incentrate sulla difesa della proprietà privata, sia nel suo possesso che nelle modalità di trasferimento, e una realtà in cui “per la maggior parte dei cittadini — diciamo il novantacinque per cento — la proprietà resta allo stadio di istinto e rimane una realtà sconosciuta. Numerosissime forme di frode, corollario inevitabile di una competizione sfrenata tra pochi e della smodata avidità che fa da motivo conduttore della produzione, non vengono punite o non possono esserlo”(pp. 57-58).
In secondo luogo la pratica smentita, da parte degli stessi capitalisti, dei postulati del capitalismo puro per la necessità di attenuare — mediante le Poor Law e provvedimenti analoghi — la precarietà dell’esistenza dei proletari, e, attraverso restrizioni della concorrenza — cartelli e monopoli —, la loro stessa insicurezza.
Nei capitoli sesto — Le soluzioni stabili di questa instabilità (pp. 65-68) — e settimo — Il socialismo è in apparenza la soluzione più facile al problema del capitalismo (pp. 69-77) — vengono prospettate le due possibili soluzioni all’instabilità di un insieme, che vede i mezzi di produzione nelle mani di pochi e la libertà politica per tutti. Il primo, il modello collettivista o socialista, “[…] cioè la gestione dei mezzi di produzione da parte dei funzionari politici della comunità” (p. 68), negherà la proprietà privata sacrificando la libertà politica. Il secondo, propugnato dall’autore, “[…] consiste nella più ampia distribuzione della proprietà finché questa non diventi una caratteristica di tutto lo Stato, e finché i cittadini liberi si trovino a essere possessori di capitale o di terra, o di entrambe le cose […] lo chiamiamo Stato proprietario o distributivo” (ibidem).
Ma Hilaire Belloc paventa una terza ipotesi: “Lo Stato capitalista genera una teoria collettivista che in atto produce qualcosa di completamente diverso dal collettivismo: lo Stato servile” (ibidem). Infatti, anche se l’ipotesi distributivista è più realistica, dal momento che ci si può rifare a qualcosa già esistito nella storia dell’Europa cristiana e dimostratosi positivo, mentre l’ipotesi collettivista è altamente utopica, quest’ultima sarebbe più facilmente realizzabile in quanto in sintonia con la società capitalistica: le modalità tecniche di funzionamento del socialismo sarebbero le stesse del capitalismo, o quantomeno percepite come tali non solo da “[…] quella grande massa che pensa alla produzione solo in termini di impiego” (p. 74), ma anche da tutti quei socialisti che considerano la fase capitalistica come necessario antecedente della fase collettivista.
Nell’ottavo capitolo — Riformatori e riformati si stanno dirigendo allo stesso modo verso lo Stato servile (pp. 79-96) — l’autore esamina le figure di riformatori che propizierebbero il passaggio allo Stato servile.
La prima, “[…] la cui spinta ad agire viene dalla bruciante pietà per la povertà e per il pericolo delle masse” (p. 82), di fronte alle difficoltà di una collettivizzazione che si risolverebbe in una confisca, accetterebbe di buon grado una società in cui “[…] la maggioranza degli uomini lavorerà ancora a beneficio di pochi e questa minoranza godrà ancora dei plusvalori prodotti dal lavoro, ma nella quale i mali particolari dell’insicurezza e dell’insufficienza economica, per lo più risultato della libertà, sono stati sconfitti a spese di quest’ultima” (p. 83).
Nella seconda figura è facilmente riconoscibile il socialista fabiano, occupato a “[…] “far funzionare” gli uomini, così come si fa funzionare una macchina” (p. 83), e che nello Stato servile, verso cui si scivolerebbe senza stravolgimenti rivoluzionari della società, vede “[…] schedatura e amministrazione minuziosa delle persone, coordinamento di più forze per un unico programma, sottrazione al privato di ogni possibilità di reagire contro il potere amministrativo” (p. 84). “Il cosiddetto socialista di questo tipo — nota Hilaire Belloc —non è finito nello Stato servile per errore di calcolo. Egli lo ha generato; gradisce la sua nascita e prevede il suo potere nel futuro” (p. 85).
La terza figura è quella del riformatore pratico, che, pur vantandosi di non essere socialista, è caratterizzato dalla “incapacità di definire i suoi princìpi primi” (p. 86); “non sa nulla dell’esistenza nel passato di una società in cui gli uomini liberi erano proprietari, né delle istituzioni cooperative e protettive che una tale società genera spontaneamente” (p. 87) e che addirittura considera il graduale annullamento della libertà come una panacea di fronte alle manifestazioni d’instabilità del sistema sociale.
Esaminando la questione secondo l’angolo visuale di “[…] quei milioni di destinatari delle riforme sulla cui pelle lavorano i riformatori, e che sono le cavie del grande esperimento” (p. 88), Hilaire Belloc rileva che “[…] nell’odierna Inghilterra l’atteggiamento del proletariato[…] riguardo alla proprietà e riguardo a quella libertà che si può raggiungere solo attraverso la proprietà non è più un atteggiamento di esperienza o di aspettativa. […] cessare di essere stipendiati è un obiettivo che a loro parrebbe del tutto al di fuori della vita reale” (p. 91), mentre il comprensibile desiderio di sufficienza economica e di sicurezza gioca a favore dello Stato servile, che prospetti loro di “[…]avere ciò che gli basti e non perderlo” (p. 96).
Segue una Appendice sul “rilevare” (pp. 97-103), in cui si discute come irreale l’ipotesi che i mezzi di produzione nelle mani dei capitalisti possano essere pacificamente ed efficacemente rilevati dalla collettività.
Nel nono capitolo — Lo Stato servile è iniziato (pp. 105-126) — Hilaire Belloc individua come avvisaglie dello Stato servile tutte le norme obbligatorie — sistema delle assicurazioni sul lavoro, sussidio di disoccupazione, minimo salariale, arbitrato obbligatorio, regolamentazione per legge dei salari — in via di introduzione od oggetto di dibattito negli anni in cui scrive, e che, sotto le parvenze di una maggiore tutela del lavoratore, si risolverebbero in realtà in una sorta di diritto disciplinare da parte del capitalista, in veste quasi di rappresentante dello Stato, sul lavoratore stesso. Tali misure, poi, agirebbero selettivamente sulla società: proteggendo solo i lavoratori salariati — e non le categorie economicamente libere — indeboliscono in loro il desiderio di un affrancamento basato sull’acquisizione dei mezzi di produzione.
Nella Conclusione (pp. 127-129) l’autore sostiene che, se il processo che ha portato all’affermazione del capitalismo, e di qui al pericolo dello Stato servile, ha avuto come inizio storico la separazione della nazione inglese dal corpo della Cristianità, l’esito sarà scongiurato solo da un cammino a ritroso: “E come, tutto sommato, sono ottimista sul fatto che la fede tornerà a occupare il suo posto di intima guida nel cuore dell’Europa, così credo che questa regressione al nostro paganesimo originario (perché la tendenza allo Stato servile non è altro) sarà fermata ed invertita” (p. 129).
Ho sommariamente esposto il contenuto de Lo Stato servile, così mostrando di fatto l’opportunità della sua edizione a fronte della problematica aperta dal fallimento storico del collettivismo utopistico, cioè dal crollo dei regimi a socialismo reale, anche se l’opera di Hilaire Belloc risale a un periodo certamente molto dissimile da quello attuale quanto alle connotazioni del capitalismo e nella quale — soprattutto — non era ancora stata fatta esperienza del collettivismo.
A questo punto credo indispensabile spendere qualche parola sulle introduzioni al volume, che si propongono sia di presentare Hilaire Belloc che di evidenziare i motivi di attualità della sua opera. Il duplice compito è svolto da Marco Vitale e da Robert Nisbet.
Il celebre sociologo nordamericano accosta la figura di Hilaire Belloc a quelle dei cattolici liberali Hugues-Félicité-Robert de Lamennais, Jean-Baptiste-Henri Lacordaire, Charles Forbes, conte di Montalembert, ai quali aggiunge John Henry Newman, Henry Edward Manning e John Emerich Dalberg Acton, quindi riconosce molte analogie fra le idee sociali ed economiche dello stesso Hilaire Belloc e quelle contenute nelle encicliche di Papa Leone XIII. Robert Nisbet crede di ravvisare le connotazioni dello Stato servile nello Stato burocratico, sia che questo si manifesti come totalitarismo sovietico, come socialdemocrazia svedese o britannica, come New Deal statunitense, o — infine — come Stato manageriale tecnocratico; ascrive di conseguenza lo scarso successo del distributivismo di Hilaire Belloc al fatto di essersi manifestato in un ambiente saturo di fabianesimo, così allettante sia per gli intellettuali che per i riformatori sociali, perché nella linea dello Stato politico moderno collettivista e nazionale.
Dal canto suo, l’economista Marco Vitale sottolinea l’importanza del nesso fra proprietà e libertà, vigorosamente affermato dal distributivismo di Hilaire Belloc, anche nel contesto socio-economico attuale, che, pur se profondamente diverso da quello in cui Hilaire Belloc scriveva, mantiene la tendenza — e il riferimento esplicito è agli Stati Uniti d’America, che possono essere considerati forma capitalistica esemplare — alla concentrazione dei mezzi di produzione, nonostante l’impressione corrente di un capitalismo diffuso.
Per quanto riguarda le parentele culturali di Hilaire Belloc, Marco Vitale si ricollega a quanto affermato da Robert Nisbet e le estende ai cattolici liberali italiani, fra i quali ricorda nominatamente Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini, Alessandro Manzoni , don Luigi Sturzo, Ernesto Buonaiuti, Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi. Prescindo dalla eterogeneità del catalogo, di una genericità disarmante. Mi limito a notare come il ripetuto riferimento, fra i cattolici liberali, alla figura di Hugues-Félicité-Robert de Lamennais — che, a detta di Marco Vitale, avrebbe come titolo di onore il fatto di essere stato personalmente colpito in una lettera enciclica, la Singulari Nos, del 25 giugno 1834, da Papa Gregorio XVI — pare voglia suggerire che anche il “veemente ed ortodosso cattolico” (p. XXII) Hilaire Belloc in realtà sarebbe stato un personaggio marginale, se non proprio eterodosso; infatti, egli avrebbe fatto parte di quel filone “sempre minoritario di fronte al cattolicesimo legittimista” (p. XXIV), ma storicamente e moralmente vincente — dal momento che “i Lamennais restano mentre le Singulari Nos sprofondano nei più nascosti meandri delle biblioteche specialistiche” (p. XXV) — sul cattolicesimo ufficiale, che ottusamente rifiuta di portare a una “forte e definitiva riconciliazione i doni più preziosi del cattolicesimo e del grande pensiero liberale”(ibidem).
Dunque, il cattolicesimo ortodosso viene semplicisticamente ridotto al legittimismo, evidentemente giocando più sull’immaginario collettivo che sulla verità storica; quindi, il minimo che si possa dire è che Marco Vitale dà prova di una comprensione ideologica del cristianesimo, messo a confronto con il liberalismo — o il confronto è fra la Chiesa cattolica e la “Chiesa liberale”, la “Chiesa della “religione della libertà””? —, accompagnata dall’affermazione non troppo implicita di un preteso “brevetto” liberale della libertà, mentre verità dottrinale e storica vogliono che il liberalismo, rispetto alla libertà, rappresenti solamente e piuttosto la sua mutilazione, proprio perché intende non distinguerla — il che è certamente vantaggioso — ma separarla dalla verità, il che è decisamente dannoso.
Se il discutibile apparentamento di Hilaire Belloc ai cattolici liberali non costituisce un grossolano arruolamento, esso è certamente dovuto alla tendenza, frequente nei liberali che scoprono nel campo cattolico decisi apologeti della proprietà privata come garanzia di libertà, di rubricarli nel tertium genus dei cattolici liberali, piuttosto di riconoscere che tali idee affondano le loro radici non in un impossibile mélange, ma nella integrale dottrina sociale naturale e cristiana, di cui i pronunciamenti magisteriali — solo a volerli prendere in seria considerazione — costituiscono parte non solo quantitativamente cospicua, ma assolutamente fondante.
Paolo Mazzeranghi