Marco Tangheroni, Cristianità 312 (2002)
Nell’opera Mitologie giuridiche della modernità Paolo Grossi — docente di storia del diritto nell’università di Firenze — raccoglie, leggermente rivisti, tre suoi interventi, facendoli precedere da alcune dense pagine introduttive — Un libro, la sua indole, il suo messaggio. Qualche nota introduttiva (pp. 1-11) — nelle quali chiarisce i problemi che sono al centro di quei saggi e che li rendono espressioni di un discorso unitario. Compito dello storico del diritto — afferma — è quello di comprendere mediante comparazione. Non ne possono derivare proposte, ma certamente stimoli critici, che in qualche caso possono anche tradursi in una provocazione, una provocazione “salutare”. Perché svela le “mitologie giuridiche della modernità” (p. 3). Il diritto moderno, identificato “in una norma, ossia in una regola autorevole ed ereditaria” (p. 5), ha perso “la dimensione sapienziale del diritto” (ibidem). La legge dei moderni si concretizza “più in un atto di volontà che di conoscenza” (ibidem). Nel diritto comune medievale e post-medievale il diritto aveva un’“intima sapienzialità” (p. 6), “un carattere antico […] da leggere, scoprire nella realtà cosmica e sociale e tradurre in regole” (ibidem).
Il primo saggio — che riprende una lezione tenuta a Pisa del 1998 — pone, nel titolo, una domanda di grande importanza: Giustizia come legge o legge come giustizia? (pp. 13-39). Esso parte da una constatazione: “[…] la pervicace diffidenza che l’uomo della strada, l’uomo comune, ha verso il diritto” (p. 15); e non a torto, secondo Grossi, perché il diritto gli appare “[…] soltanto come legge […], comando autoritario che piove dall’alto sulla inerme comunità dei cittadini” (ibidem). Infatti, a essa lo Stato moderno assicura “soltanto un complesso di garanzie formali” (p. 16) sulle modalità di elaborazione della legge, disinteressandosi del problema della sua giustizia. Il metodo comparativo mostra che non era così in un’altra epoca storica, quella medioevale. Medioevo e Modernità sono due età nelle quali il diritto ha grande importanza, ma in modo radicalmente diverso “[…] perché la diversità profonda nelle soluzioni adottate discende da radicalmente diverse fondazioni antropologiche” (p. 18). Riprendendo tesi della sua opera magna L’ordine giuridico medievale (Laterza, Roma-Bari 1995), Grossi sottolinea che, nella visione medioevale, “[…] il potere politico non ha la pretesa di controllare l’interezza del sociale” (p. 20), il quale rimane sostanzialmente autonomo, libero di “[…] vivere pienamente la sua storia in tutte le possibili ricchezze espressive” (ibidem). Si può dire che il diritto precede il potere politico; esso “[…] riposa negli strati profondi e durevoli della società” (pp. 21-22).
Esso non procede dalla volontà arbitraria di un Principe, ma è nelle cose, appartenendo a un ordine oggettivo voluto da una sapienza suprema; e compito dei sapienti di questa terra è di decifrarlo e tradurlo in regole. La lex è, allora, con san Tommaso d’Aquino, “un ordinamento della ragione rivolto al bene comune proclamato da colui che ha il governo di una comunità” (p. 24). Venne poi un lento processo che, a partire dal secolo XIV, mirando a liberare il più possibile l’individuo, libera parallelamente anche il potere, il Principe; e questi diviene sempre più onnicomprensivo e tendente a combattere ogni forma di pluralismo sociale e di pluralismo giuridico. La legge finirà così per trovare il suo fondamento nella provenienza e non nel contenuto. Se la legge medievale sfumava nello ius, il diritto moderno finisce per contrarsi nella legge; l’itinerario “moderno” può quindi essere così descritto: dal diritto alla legge.
Il secondo saggio — un discorso tenuto nel 2000 ad Amalfi, in provincia di Salerno, rivolto a un pubblico prevalentemente di non giuristi — s’intitola Oltre le mitologie giuridiche della modernità (pp. 41-82). Qual è la mitologia che fonda il “moderno”, fabbricata soprattutto in epoca illuministica? Una volta “[…] esiliata finalmente in un cantuccio appartato la vecchia approntatrice di favole, la Chiesa Romana, l’orgoglio è tutto di guardare il mondo” (p. 43) in modo secolarizzato e scientifico. D’altra parte, l’illuminismo giuridico ha bisogno del mito perché, non potendo più agganciarsi alle metafisiche religiose, con le quali ha volutamente rotto, solo una mitologia gli permette di sfuggire alla mutevolezza della storia, di supplire alla carenza di assoluto. Ma allo storico del diritto tale astratto, geometrico quadro appare sospetto, carico di venature ideologiche, frutto della propaganda illuministica e post-illuministica.
Dopo aver ripreso considerazioni già al centro del primo saggio, Grossi concentra al sua attenzione sull’impoverimento puramente “potestativo” (p. 55) del diritto, ridotto a “normativismo” (ibidem). Di questa visione è figura centrale Hans Kelsen (1881-1973), il cui messaggio ebbe enorme successo fra i giuristi del secolo XX ed è ancora largamente dominante. Egli tentò, con il suo formalismo, di porre limiti al Potere, cui ormai era ricondotto il diritto, ma il suo esorcismo si è dimostrato inefficace. Occorre superare la consapevole riduzione operata dall’illuminismo ricuperando la complessità del passato, al di là della “totalità macrocollettiva dello Stato” (p. 60) e della “dialettica esclusiva Stato-individuo” (ibidem); ripensare alle realtà microcollettive, le società intermedie, sul piano giuridico, quindi, scoprendo — o riscoprendo — il diritto come ordinamento e la ricchezza delle pluralità degli ordinamenti giuridici. Dopo qualche pagina dedicata ad alcuni giuristi italiani degli ultimi decenni dei quali l’autore mostra l’apertura al diritto concepito come ordinamento, come sforzo di lettura obbiettiva del reale, Grossi conclude prospettando il superamento della “mitologia giuridica post-illuministica” (p. 75), ormai usurata e disvelata da due secoli di vita giuridica, come mostrerebbero anche alcuni recenti richiami della Corte Costituzionale italiana al “principio di ragionevolezza” (p. 77).
Il terzo saggio — che riprende le Conclusioni di un congresso tenuto a Firenze pure nel 2000 — s’intitola Codici: qualche conclusione tra un millennio e l’altro (pp. 83-124). Esso è, data l’originaria destinazione, evidentemente il più legato all’occasione, con i frequenti riferimenti alle diverse relazioni del convegno. Ma risulta ugualmente utile a intendere il discorso dell’autore perché sintetizza bene le differenze fra il diritto anteriore alla Rivoluzione detta francese e quello della codificazione. Il primo era alluvionale, formandosi per accumulazione delle opinioni dei dottori e della giurisprudenza più importante, pluralistico, extra-statale. L’opera codificatoria voluta da Napoleone Bonaparte (1769-1821) è ispirata dall’orrore per la storicità del diritto, rivelando in pieno la sua filiazione illuministica e la sua fondazione giusnaturalistica, cioè scientista. Da allora i vari codici hanno espresso “l’ordine giuridico d’uno Stato temporalmente e spazialmente delimitato” (p. 96), sulla base di una vera e propria mistica della legge e del monopolio da parte del “potere legislativo” (p. 98) della produzione normativa. Il modello originario e ideale del codice è percorso da una triplice tensione: tende a essere unitario — specchio e cemento dell’unità statuale —, completo ed esclusivo. Significativa appare la persistenza nel codice austriaco del secolo XIX del ricorso ai “principj del diritto naturale” (p. 101) proprio perché l’Austria non era uno Stato-nazione; com’è da ricordare la generale vigenza del diritto comune nello Stato Pontificio. Nel diritto moderno, tutto illuminismo e positivismo giuridico, “[…] il procedimento di normazione si risolve nel momento in cui la norma viene prodotta” (p. 111); il momento interpretativo-applicativo perde d’importanza. E la scienza giuridica corre il rischio di ridursi a esegesi della codificazione. Ma la storia va avanti, la prassi forma continuamente nuovi istituti e modifica radicalmente i vecchi. I codici invecchiano; anzi, invecchia lo stesso modello di “codice”. Esso non potrà essere alla base della futura produzione normativa.
Paolo Grossi è certamente un grande maestro della storia del diritto, come ha dimostrato in decenni di attività. In quest’opera, densa e pur agile, sono riproposte le tesi centrali cui le sue ricerche sono approdate. La lettura mi pare raccomandabile anche ai non specialisti del diritto.
Marco Tangheroni