Nessuno, almeno in Italia, ha ancora affermato apertamente che vi sia un “partito stupido”, come John Stuart Mill ebbe a definire i conservatori, ma l’insistente denuncia della mancanza di una cultura in grado di opporsi a quella progressista è un luogo comune che percorre anche la destra italiana. Nel mondo anglosassone a quella dichiarazione di sfida seguì una reazione che mise in evidenza il contrario, cioè che il pensiero “moderno” — assolutamente non coincidente con il pensiero “contemporaneo” — vive parassitariamente dello scontro dialettico con la cultura del kosmos, sapendo opporre a essa solo l’anelito verso il chaos.
Fra coloro che hanno raccolto la sfida nel secolo XX, lo storico delle idee statunitense Russell Kirk mostra l’organicità del pensiero conservatore nella Grande Tradizione classica e cristiana. Le sue opere costituiscono così pietre miliari del pensiero di destra americano e, nel desolato panorama ideologico europeo, la diffusione di esse può favorire una ripresa del pensiero forte, con orrore dell’establishment progressista. Ottima occasione perché questo “scandalo” avvenga è fornita dalla traduzione e dalla pubblicazione in Italia di una degli studi più importanti dello studioso statunitense: Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo. Tradotto e curato da Marco Respinti — che ne ha redatto anche l’Introduzione (pp. V-XXI), completata da un elenco delle Opere di Russell Kirk (pp. XXII-XXIII) —, essa si articola in una Premessa dell’autore (pp. 5-8) — in cui egli richiama le ragioni prossime e remote della composizione e della pubblicazione della prima edizione statunitense, nel 1974 — e in dodici capitoli, conclusi da un Epilogo (pp. 499-506) scritto da Frank Joseph Shakespeare Jr. — nato nel 1925, attivo nei campi dell’informazione e della politica, ambasciatore statunitense presso lo Stato del Vaticano dal 1987 al 1989 (cfr. le note biografiche a p. 500) — e da un corposa Appendice. Questa si articolata a sua volta in Letture consigliate (pp. 509-536) — suddivise in relazione ai capitoli — e in una Cronologia (pp. 537-550), che “[…] comprende i principali fatti menzionati nel libro e altre date di primaria importanza storica. Può servire a correlare, dal punto di vista del tempo “lineare”, eventi accaduti durante gli stessi secoli, per esempio, nel Levante, in Grecia e a Roma” (p. 537). Chiude il volume L’indice dei nomi (pp. 551-560).
Nato nel 1918 a Plymouth, un sobborgo di Detroit, nel Michigan, Russell Kirk insegna per breve tempo Storia della Civiltà presso il Michigan State College — oggi Michigan State University —, quindi si ritira nella casa avita nel villaggio di Mecosta, per svolgere in completa indipendenza la professione di scrittore e di studioso, dando alle stampe trenta volumi nonché numerosissimi saggi e articoli. La sua fama e la sua influenza — nei campi della storia delle idee, della filosofia politica, del costituzionalismo, dell’educazione, della critica letteraria e della narrativa — ne fanno per decenni una delle figure più importanti del panorama culturale statunitense e, dopo la scomparsa avvenuta il 29 aprile 1994 — nato in una famiglia di origini puritane, si è convertito al cattolicesimo nel 1964 (cfr. il ricordo dello studioso e il suo Le radici antiche della nazione statunitense, in Cristianità, anno XXII, n. 229, maggio 1994, pp. 13-14) —, un punto di riferimento intellettuale imprescindibile per le nuove generazioni.
Lo studioso giunge quattro volte anche in Italia per incontri privati e per cicli di conferenze. Alleanza Cattolica organizza due di queste tournée, nel 1989 e nel 1991 (cfr. l’intervista a cura di Marco Invernizzi, Le due anime dell’America, in Cristianità, anno XVII, n. 170, giugno 1989, pp. 9-11; e quella a cura di Marco Respinti, Dove vanno gli Stati Uniti? La politica estera nordamericana e il “Nuovo Ordine Mondiale”, ibid., anno XIX, n. 195-196, luglio-agosto 1991, pp. 12-16); e Giovanni Cantoni, fondatore e reggente nazionale dell’associazione, grazie alla mediazione di Mario Marcolla — studioso del pensiero conservatore nordamericano, saggista, consulente editoriale con all’attivo lanci di autori quali Eric Voegelin e Augustin Cochin, e membro del comitato scientifico del Centro Studi Fondazione Augusto del Noce di Savigliano, in provincia di Cuneo — aveva incontrato Russell Kirk nel 1962 e ne aveva organizzato a Piacenza una conferenza sulla situazione americana. Il testo degli interventi svolti dallo studioso nordamericano nel 1989 a Torino, a Milano e a Lecce sulle differenze fra Rivoluzione francese e Guerra d’Indipendenza nordamericana — era, infatti, l’anno del fallito Bicentennaire — è stato pubblicato, con appendici, a cura e con una prefazione di Marco Respinti, introduzione di Mario Marcolla, nell’opuscolo Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto (Edizioni Centro Grafico Stampa, Bergamo 1995).
Nell’Introduzione a Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, Marco Respinti — studioso del pensiero conservatore angloamericano, corrispondente di The Russell Kirk Center for Cultural Renewal di Mecosta, nel Michigan, collaboratore di diverse testate italiane ed estere, fra cui Cristianità, organo di Alleanza Cattolica in cui milita dal 1987 — ripercorre la vita e la produzione dello studioso nordamericano, descrive la forma mentis del conservatorismo, si sofferma sul concetto conservatore nordamericano di “tradizionalismo” e sulla figura del pensatore angloirlandese Edmund Burke, e svolge infine considerazioni utili per contestualizzare il volume kirkiano nella composita situazione culturale e religiosa statunitense, con particolare riferimento alla “questione protestante”.
Nel primo capitolo — L’ordine, il primo dei bisogni (pp. 9-17) — Russell Kirk richiama la naturale inclinazione umana verso l’ordine, e le strette connessioni fra l’ordine di natura metafisico-morale e l’ordine politico-civile in vista della realizzazione dell’uomo e di una civiltà ad autentica misura di questi e secondo il piano di Dio.
Oggetto principale dello studio è la considerazione del patrimonio di cultura avuto in eredità dal Vecchio Mondo inteso come radice di una civiltà nuova, appunto quella americana, che viene indagata a partire da essa.
Per scoprire l’America reale, invece di immaginare che sia quel sogno rappresentato dai mass-media con tratti caricaturali e con distorsioni che finiscono per oscurare la realtà, sarebbe utile anzitutto convincersi che l’Europa non è obbligatoriamente un mercato terminale di mode importate e accorgersi, in secondo luogo, che l’identità europea è così “forte” da dar vita a un ordine tanto stabile da continuare anche dopo che l’ordine europeo — la Cristianità romano-germanica — è crollato sotto i colpi della Rivoluzione. E che l’identità europea è passata negli Stati Uniti d’America non perché fosse una “bella invenzione”, ma perché coincideva con il diritto naturale, quindi anche con tutti i contenuti della Rivelazione data da Dio a Mosè sul Sinai: infatti “[…] l’ordine morale americano non sarebbe affatto nato se non fosse stato per il retaggio lasciato da Israele” (p. 25), scrive Russell Kirk iniziando la lunga analisi delle fonti che hanno contribuito a costruire le basi della futura nazione americana, ben prima che il viaggio di Cristoforo Colombo fosse non solo previsto, ma prevedibile. Di questo tratta il secondo capitolo, La Legge e i profeti (pp. 18-59).
Invece che di civiltà, dunque, lo storico delle idee parla di “ordine”, perché si tratta del riflesso sociale dell’ordine morale dell’individuo. Quanto gli uomini costruiscono, quindi anche le Costituzioni, le leggi, l’ordinamento politico, sociale, economico, porta il marchio della loro struttura interiore e della gerarchia dei valori che essi riconoscono. Non sono novità, tiene a sottolineare Russell Kirk: mentre la Legge di Dio veniva rivelata attraverso i dieci comandamenti al popolo d’Israele, nell’Ellade — oggetto del terzo capitolo, Gloria e rovina del mondo greco (pp. 60-108) —, per intuizione di Solone la Costituzione ateniese veniva improntata all’equilibrio fra l’ordine interiore e quello esteriore, che ne doveva essere la proiezione. Tutt’altro che cow-boy spuntati dal nulla, gli statunitensi attingono a piene mani a Platone e ad Aristotele per costruire un modello di Stato “medio” e necessariamente pluralista, fondato sull’equilibrio dei poteri, benché senza una religione ufficiale come nelle polis greche, ma con la saldezza derivante dalla religiosità cristiana dei singoli e delle famiglie. Nel quarto capitolo — Il conflitto romano fra virtù e potere (pp. 109-150) — è la volta di Roma antica, emergente non solo dagli scritti dello storico britannico Edward Gibbon, ma richiamata come oggetto persino degli studi dei dirigenti della Convenzione costituzionale degli Stati Uniti d’America, che adottano il sistema istituzionale dei pesi e dei contrappesi proprio della divisione fra autorità consolare, senato e comitia. Fra gli autori più letti, Virgilio, Cicerone e gli stoici. In particolare Marco Aurelio lo era “[…] sin dall’insediamento delle prime colonie inglesi e l’imperatore fu caro al capitano John Smith, comandante delle milizie cittadine dei primi virginiani, più di qualsiasi altro autore” (p. 132).
Fra l’altro, certe osservazioni potrebbero tornare utili — ricordando che la storia è maestra di vita — a molti ingegneri costituzionalisti contemporanei: per esempio, la notazione secondo cui “in America le conseguenze dell’accentramento romano contribuirono a scoraggiare i progetti favorevoli al governo centralizzato come alternativa a quello federale, esattamente come la mancanza di unità greca alimentò le argomentazioni contrarie a una semplice confederazione dai tenui legami” (p. 147). Il diritto romano approda in America nella formulazione ciceroniana, attraverso il common law e con un particolare accento posto sulla legge di natura, definito da Russell Kirk “[…] l’immaginazione morale che ci mette in grado, attraverso la ragione, di esercitare il diritto consuetudinario e quello statutario con umanità” (p. 124).
Nonostante la storia non sia da considerarsi fra le discipline più frequentate da certi ambienti scolastici pubblici nordamericani contemporanei, è un fatto statunitensi hanno tratto vantaggio da tutti i passaggi critici compiuti dall’umanità, di ogni leap in being — il “balzo nell’essere” nel campo religioso, filosofico, storico o politico di cui ha parlato il filosofo e scienziato della politica Eric Voegelin —, e particolarmente di quello che avviene con il cristianesimo: il quinto capitolo è, infatti, dedicato a Il genio del cristianesimo (pp. 151-191). Al contributo di sant’Agostino d’Ippona, che oppone la città di Dio a quella terrena, nella quale gli uomini comunque non possono fare a meno dello Stato, si aggiungono quelli degli altri Padri e Dottori della Chiesa, uomini che, proprio grazie alla connessione che colgono fra la salvezza personale e l’ordine pubblico, hanno una tale influenza sulla società da frenarne il ritorno alla barbarie e da favorire la crescita di una civiltà cristiana nel Medioevo. Il lascito agli Stati Uniti d’America della Cristianità romano-germanica viene descritto nel sesto capitolo — La luce del Medioevo (pp. 192-235) —, che ripete significativamente il titolo di una della prime opere “revisioniste” pubblicata dalla storica francese Régine Pernoud (cfr. Luce del Medioevo, trad. it. con una prefazione di Marco Tangheroni, Volpe, Roma 1978; ed. orig. 1945), per altro ignota allo storico delle idee statunitense. “Per gli uomini che fondarono la Repubblica americana l’eredità medievale era così scontata che non si preoccuparono neppure d’elogiarla in modo adeguato” (p. 193), scrive Russell Kirk, che vede nel diritto inglese — il common law — uno degli elementi di maggiore continuità fra il mondo medioevale, soprattutto britannico, e l’impianto giuridico caratteristico degli Stati Uniti d’America, nonché veicolo principe della formulazione classica e premoderna del diritto naturale. L’influenza di san Tommaso d’Aquino risulta invece di portata forse più limitata: lo stesso Russell Kirk non ne riconosce il contributo diretto nella formazione delle istituzioni americane, benché essa talvolta compaia in forma mediata attraverso autori anglicani e/o protestanti. Nell’America Settentrionale il cristianesimo si fa ispiratore dell’ordinamento civile e della giustizia soprattutto attraverso dottrine protestanti — il settimo capitolo è intitolato Il tamburo dei riformatori (pp. 236-273) —, che spesso peraltro si vogliono reazione medioevaleggiante, benché oggettivamente menomata, al trionfo del pensiero umanistico-rinascimentale nella cultura ecclesiale. Da parte sua l’autore non crede di individuare potenziali differenze fra un’ipotetica colonizzazione cattolica e quella avvenuta storicamente, anche perché la portata delle dottrine di derivazione calvinistica nell’America Settentrionale viene — secondo lo studioso — temperato sia dall’incontro con un ambiente selvaggio — spesso assai ostile — che ne riduce l’utopismo a favore di un realismo de facto, sia dall’influenza dell’anglicanesimo — massicciamente presente nelle Colonie —, confessione in cui permangono forti elementi cattolici. Secondo Russell Kirk, l’impatto con il Mondo Nuovo porta a un fattuale — e magari inconscio — ricupero di virtù classico-medioevali, che attutiscono molti toni rivoluzionari propri del protestantesimo europeo originario.
La ricerca kirkiana prosegue, poi, nell’evo moderno britannico, con l’ottavo capitolo — La costituzione della Chiesa e dello Stato (pp. 274-316) —, che riecheggia il titolo di un’importante opera dello scrittore inglese, Samuel Taylor Coleridge (cfr. La Costituzione della Chiesa e dello Stato secondo le rispettive idee, trad. it., a cura di Claudio Palazzolo, Giappichelli, Torino 1996). In primo piano si situano le ripercussioni della Rivoluzione Gloriosa del 1688 in Gran Bretagna, così come i primi insediamenti delle denominazioni protestanti nelle tredici Colonie inglesi, avvenimenti che permettono ad alcuni elementi rilevanti del pensiero cristiano sull’uomo e sulla società di tradursi in leggi e di determinare gli sviluppi difformi di teorie come quella del contratto sociale. Gli scritti di John Bunyan, scrittore puritano inglese del Seicento, e del suo contemporaneo anglicano sir Thomas Browne moderano le tendenze emergenti in tutta Europa a formulare tesi di contratto sociale basate sul puro individualismo razionalistico. Più rispettosa del diritto naturale, l’ipotesi contrattualistica presentata dall’anglicano Richard Hooker — spesso detto “il san Tommaso della Chiesa d’Inghilterra” — si oppone decisamente a quella elaborata da Thomas Hobbes. Soltanto con il loro continuo riferimento alle istituzioni della madrepatria, le Colonie britanniche in America riusciranno a temperare anche le dottrine dei gruppi religiosi più radicalmente evangelici o, sul versante opposto, di John Locke e, più tardi, dei deisti del Settecento. Russell Kirk insiste sulla funzione della tradizione cristiana, affermando l’efficacia della “via media” — da lui descritta come un continuum che da Aristotele giunge al pensiero medioevale inglese — sia nell’evitare fughe fondamentaliste sia nel rinnovare la struttura sociale con uno spirito di autonomia, la quale favorisce la nascita di forme giuridiche e rappresentative ispirate al passato, ma adeguate alla nuova realtà. Il mondo delle Colonie britanniche viene descritto nel nono capitolo — Un salutare oblio: l’ordine coloniale (pp. 317-363) — come il tentativo di dar vita a una società gerarchica anche in assenza di una nobiltà nominata da un re, ma fornita di tutte le caratteristiche di virtuosità e di autorevolezza necessarie a un’élite destinata a governare: un elemento, questo, magnificamente colto — sia detto di passaggio — da Plinio Corrêa de Oliveira in una corposa appendice all’edizione statunitense della sua opera sulla nobiltà (cfr. The United States: An Aristocratic Nation Within a Democratic State, in Idem, Nobility and Analogous Traditional Elites in the Allocutions of Pius XII. A Theme Illuminating American Social History, Hamilton Press, Lanham [Maryland] 1993, pp. 133-330). Fra i padri nobili degli Stati Uniti d’America Russell Kirk annovera — e li analizza nel capitolo decimo, Intelletti settecenteschi (pp. 364-409) — il francese Charles de Secondat, barone di Montesquieu, accanto a David Hume e a sir William Blackstone, ma soprattutto a Edmund Burke, cui lo studioso nordamericano ha dedicato anche una parte importante della sua opera fondamentale, The Conservative Mind: From Burke to Eliot (7a ed. riv. e accresciuta, con il saggio The Making of “The Conservative Mind” di Henry Regnery, Regnery Publishing, Washington, DC 1993; ed. orig. 1953), e lo studio Edmund Burke: A Genius Reconsidered (2a ed. riv., Sherwood Sugden & Co., Peru [Illinois] 1988; ed. orig. 1967). Così il lungo viaggio attraverso lo sviluppo delle istituzioni statunitensi acquista anche il significato di un ripasso delle tappe che, mentre dividevano l’Europa, ne esportavano sia le virtù che i vizi. Proprio l’analisi delle idee e dei fatti da esse prodotti — come la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione degli Stati Uniti —, consente a Russell Kirk di invalidare definitivamente l’analogia fra la cosiddetta Rivoluzione americana e la Rivoluzione detta francese del 1789: è oggetto della brillante esposizione del capitolo undicesimo — Dichiarazione e Costituzione (pp. 410-458) —, nel quale vengono sviluppate le linee interpretative proposte nel saggio Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto contenuto nell’omonimo opuscolo (cit., pp. 11-25). L’età contemporanea viene affrontata nel dodicesimo e ultimo capitolo — La battaglia contro il disordine (pp. 459-497) —, nel quale primeggia la figura di Orestes Augustus Brownson (1803-1876), l’ultimo dei filosofi politici a cui Russell Kirk affida la descrizione delle radici dell’ordine nordamericano e lo sviluppo dell’albero che da esse è nato, affrontando l’epoca dei mutamenti — spesso dagli equilibri delicati — dell’Ottocento. Orestes A. Brownson è un intellettuale approdato al cattolicesimo dopo un lungo peregrinare attraverso comunità protestanti e ideologie secolariste, ed è uno dei primi pensatori statunitensi a cogliere compiutamente la pericolosità del liberalismo e del marxismo, denunciando — proprio per queste motivazioni — gli abusi del potere del denaro che quelle ideologie favoriscono e sfruttano. A trattenere gli Stati Uniti d’America dal divenire preda del disordine — sembra affermare l’autore a conclusione del suo grandioso affresco — dovranno venire altri, che si pongono sulla stessa linea di Orestes A. Brownson, la cui riscoperta nordamericana di questo secolo è dovuta in non piccola misura proprio a Russell Kirk.
Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo si rivela strumento privilegiato per ricostruire — a grandi linee, ma non senza dettagli — l’identità culturale della nazione statunitense, e per contrastare la nouvelle ideologie nordamericana del “multiculturalismo” dai tratti “politicamente corretti”, ennesimo escamotage per dissimulare un attacco diretto, frontale e grave alle radici europee del mondo nordamericano, cullando pericolosissime tentazioni di de-ellenizzazione del pensiero e di spoliazione del retaggio classico della cultura, della filosofia politica e del diritto, in realtà puro mascheramento della precisa volontà di eliminare ogni traccia di presenza cristiana — fisica e culturale — dalla nazione. Perciò l’opera di Russell Kirk viene salutata da Frank J. Shakespeare Jr. come arma privilegiata per un’efficace agere contra culturale, giacché “nonostante la spaventosa carneficina provocata dall’ideologia marxista-leninista e dallo statalismo sfrenato che essa scatenò, gli intellettuali di sinistra delle nostre università hanno continuato la loro marcia gramsciana attraverso le istituzioni culturali” (p. 502). Secondo l’ex ambasciatore, Russell Kirk mette in luce che gli Stati Uniti d’America devono quanto sono a una plurimillenaria cultura fondata sulla Sacra Scrittura, sul cristianesimo e sulla civiltà che ne è derivata, e sentenzia: “per conservare la nostra condizione non abbiamo bisogno di un’altra rivoluzione, ma di un rinvigorimento della tradizione” (p. 505). Ovvero, “dobbiamo respingere l’utopismo millenaristico, quella forza insidiosa che da tempo immemorabile tenta l’uomo spingendolo a scambiare ciò che è giusto e buono con un futuro incerto e sradicato. Faremmo meglio insomma a prenderci un po’ di tempo (sempre che ci riesca di trovarlo, fra elezioni e mezzi di comunicazione che alimentano la frenesia generale) per lasciarci ammaestrare dalla saggezza delle epoche storiche” (pp. 505-506).
Andrea Morigi