Ignazio Cantoni, Cristianità 368 (2013)
Monsignor Antonio Livi, cappellano di Sua Santità, nato a Prato nel 1938, è attualmente professore emerito della Pontificia Università Lateranense di Roma, dopo esserne stato ordinario di Logica e Filosofia della conoscenza, nonché decano della facoltà di Filosofia. Discepolo dello storico della filosofia e filosofo padre Cornelio Fabro C.S.S. (1911-1995) e dello storico francese della filosofia e pure filosofo Étienne Gilson (1884-1978), nell’arco di cinquant’anni di attività ha concentrato i suoi studi sulla nozione di “senso comune” e sugli aspetti gnoseologici, metafisici e morali a esso correlati.
Fra le numerose opere e iniziative di monsignor Livi vi sono i tre volumi in quattro tomi del corso di storia della filosofia per i licei La filosofia e la sua storia (Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1996; cfr. la recensione di Marco Invernizzi in Cristianità, anno XXVI, n. 279-280, luglio-agosto 1998, pp. 21-24), di cui è uscita fra il 2007 e il 2009, per i medesimi tipi, la nuova edizione con il titolo Storia sociale della filosofia; la direzione di Sensus communis. Studi e ricerche di logica aletica. Periodico trimestrale a carattere internazionale, uscito dal 2000 al 2004 in forma trimestrale, e poi trasformato a partire dal 2005 in Sensus communis. Annuario di logica aletica, con cadenza semestrale (cfr. la mia presentazione in Cristianità, anno XXXII, n. 321, gennaio-febbraio 2004, pp. 17-18); e lo studio Razionalità della fede nella Rivelazione. Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica, uscito originariamente nel 2002 e in seconda edizione riveduta e aumentata nel 2005 (cfr. la mia recensione in Cristianità, anno XXXII, n. 340, marzo-aprile 2007, pp. 27-30).
Nel 2010 è stata pubblicata una nuova edizione, interamente rielaborata, della sua opera probabilmente più importante; uscita originariamente nel 1990, Filosofia del senso comune. Logica della scienza & della fede(Ares, Milano) è un lavoro che ha segnato un’autentica pietra miliare nell’opera di monsignor Livi e, conseguentemente, in chi ne ha fatto tesoro (cfr., per esempio, Giovanni Cantoni, Elogio del senso comune, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVI, n. 247, Roma 17-10-1997, p. 20).
Nella Presentazione della nuova edizione (pp. 7-11) monsignor Livi scrive: “Venti anni or sono uscì la prima edizione della mia Filosofia del senso comune […] a oggi non ho fatto altro che ritornare sui medesimi argomenti, approfondendoli sempre di più e ricavandone tutte le necessarie applicazioni. Avvertivo la necessità di precisare ulteriormente[…] la mia tesi, che consiste nel denominare “senso comune” […]l’insieme organico di quelle certezze circa l’esistenza degli enti dell’esperienza immediata che sono sempre e necessariamente alla base di ogni altra possibile certezza, ossia di ogni altra pretesa di verità nei giudizi, sia di esistenza che attributivi, da chiunque siano formulati, indipendentemente dal “dove” e dal “quando”” (p. 7). Tale approfondimento, che si è dipanato attraverso ricostruzioni storico-critiche e trattati teoretici, viene idealmente chiuso con la ripresentazione dell’opera in oggetto, trasformata da “saggio in un vero e proprio trattato” (p. 10).
Nella Prefazione (pp. 13-19) monsignor Livi chiarisce che la propria tesi consta di due affermazioni: anzitutto “il pensiero umano […] fa capo a un preciso e ristretto numero di conoscenze primarie […] che tutti (sia pure implicitamente) posseggono come evidenze immediate e come fondamento attuale di ogni forma e di ogni livello di conoscenza, tanto che ogni dubbio a loro riguardo è meramente retorico. L’insieme organico di tali conoscenze può essere designato […] con il termine “senso comune”” (p. 14); in secondo luogo, se ciò è vero, è necessario dipanare una “filosofia del senso comune”, ossia uno studio sistematico e razionale di tali “conoscenze primarie” (p. 14) per scoprirne l’esistenza e “dimostrarne la funzione normativa per la ricerca della verità in ogni campo del sapere” (p. 14).
Dopo un utile Schema della trattazione (pp. 20-22), il primo capitolo — Premesse storico-critiche: l’uso incerto del termine “senso comune” nella filosofia moderna e la necessità di definirne il significato oltre l’attuale equivocità (pp. 23-63) — si pone l’obiettivo di ricostruire l’uso che si è fatto in filosofia del termine “senso comune”, caratterizzato da un’“imbarazzante equivocità” (p. 23). Vi sono accezioni sociologiche, che si riferiscono a “[…] imprecisabili convinzioni popolari che le scoperte scientifiche talvolta contraddicono” (p. 26), o a uno “strumento della dialettica ideologica” (p. 30); oppure, più positivamente, a “mera precondizione per i rapporti interpersonali nella vita pratica, o anche come espressione della saggezza popolare” (p. 36). Accanto a esse vi è anche l’utilizzo di “senso comune” a indicare l’“organo della percezione estetica” (p. 47). Ma l’utilizzo rivendicato da monsignor Livi è quello d’“intuizione della realtà esistenziale e […] fondazione della verità metafisica, morale e religiosa” (p. 50), di “evidenze originarie” (p. 51), di “[…] sapere epistemico di fondo che risulta incontrovertibile in quanto è di fatto il presupposto di ogni altro sapere epistemicamente valido” (p. 51), proprio di un’“accezione epistemica assolutamente positiva del termine” (p. 50). In tale ultimo senso si ritrovano pensatori quali “[…] il francese Claude Buffier (1661-1737), l’italiano Giambattista Vico (1668-1744), lo scozzese Thomas Reid (1710-1796) e lo svevo Friedrich Oetinger (1702-1782), i quali si rifecero tutti al senso comune per riscattare la verità dell’esperienza primaria dal razionalismo matematizzante dei cartesiani, responsabili ai loro occhi del diffondersi del “pirronismo” tra i cristiani, con nefaste conseguenze sulla morale e sulla religione” (p. 51).
Nessuno di questi pensatori — sottolinea nel capitolo II, Proposta di una nuova filosofia del senso comune (pp. 65-122) — “[…] ha però saputo o voluto determinare con precisione la natura gnoseologica, la funzione epistemica e i contenuti del senso comune” (p. 65), come invece intende fare monsignor Livi. Anzitutto devono essere analizzate le caratteristiche formali delle certezze del senso comune. Le principali caratteristiche sono: “evidenza”, ossia il coglimento delle certezze da parte dell’uomo si presenta essenzialmente degno di riconoscimento e di assenso; “immediatezza”, poiché esse sono i “presupposti privi di presupposti” di tutte le altre successive conoscenze; “esperienza”, perché per queste certezze si parla dei dati, dei fatti primi con i quali il soggetto entra originariamente a contatto esprimendo i “giudizi primari di esistenza” (p. 98) degli enti reali.
Veniamo ora ai contenuti delle certezze del senso comune, che sono cinque. Il passo merita di essere riportato nella sua completezza: “1) L’evidenza dell’esserci e del divenire di tante “cose”, individuabili nella loro identità (differenza di una dall’altra) e nella loro relativa permanenza nell’essere da quando appaiono a quando scompaiono: evidenza dunque di ciò che la metafisica chiama “enti” e che riconosce come molteplici, connessi tra di loro e regolati da leggi fisiche, diversi tutti per essenza specifica e individuale ma analoghi nell’atto di essere; eventuale espressione verbale di questa evidenza potrebbe essere l’asserzione che “ci sono delle cose”.
“2) L’evidenza dell’io come soggetto; l’eventuale espressione verbale di questa evidenza potrebbe essere l’asserzione che “nel mondo ci sono io, che conosco il mondo”.
“3) L’evidenza dell’esistenza di enti analoghi all’io, in una situazione esistenziale di intersoggettività; l’eventuale espressione verbale di questa evidenza potrebbe essere l’asserzione che “nel mondo ci sono degli altri, simili a me, con i quali comunico”.
“4) L’evidenza dell’esistenza di leggi di tipo morale (basate sulla libertà e la responsabilità) che regolano i rapporti interpersonali; l’eventuale espressione verbale di questa evidenza potrebbe essere l’asserzione che “il mio rapporto con gli altri e il rapporto degli altri con me sono rapporti diversi da quelli fisici, perché implicano diritti e doveri”.
“5) L’evidenza dell’esistenza (non esperibile ma indubitabile) di un Fondamento trascendente di tutta la realtà conosciuta: quella cosmica, quella soggettiva, quella intersoggettiva, quella morale; l’eventuale espressione verbale di questa evidenza potrebbe essere l’asserzione che “all’origine dell’esistenza delle cose e come fondamento dell’ordine che lega con leggi fisiche e morali il mondo, me e gli altri, ci deve essere un’Intelligenza creatrice e ordinatrice, che è anche l’ultimo Fine mio e di tutto”” (pp. 100-101).
Abbiamo detto che tali certezze sono giudizi di mera esistenza — non predicativi, i quali hanno appunto, come presupposto, quelli esistenziali — e che sono i giudizi originari. Ciò significa che essi non hanno premesse in altri giudizi, ma sono premesse per tutti gli altri; quindi il loro contenuto non è propriamente “dimostrabile”, bensì solo “mostrabile” all’assenso. “Dal punto di vista dell’atto cognitivo, questi giudizi sono asserti esistenziali (affermazione dell’esistenza di qualcosa) dotati della più assoluta certezza: ciò che con questi giudizi viene affermato è necessariamente ritenuto vero da tutti: non solo perché in un confronto dialettico la loro verità è innegabile (nessuno può dimostrare il contrario), ma anche perché di fatto nessuno riesce a pensare davvero il contrario di ciò che quei giudizi affermano come assolutamente vero. Se qualcuno, a partire da Descartes [René (1596-1650)], ha ritenuto di poter negare la loro verità, tale negazione è possibile solo a parole, come mero “dire”” (p. 101).
Per focalizzare tale verità, all’apparenza tutt’altro che semplice, propongo un esperimento. Si provi a pensare: 1) un ente senza dare per scontato che esista; 2) qualcosa su di noi senza dare per scontato che tutto quanto diciamo è attribuito a un ente unitario che coincide con noi stessi; 3) qualcosa sugli altri senza avere fatto per essi l’analogo a quanto appena detto per noi stessi; 4) qualcosa delle relazioni interpersonali che non richiami libertà e responsabilità; 5) infine, si provi a esprimere qualsiasi cosa la cui premessa non sia che è “finita” e pertanto fondata su Altro da essa. Alla fine dell’esperimento avremo inteso che il dire, per esempio, che “non esiste un mondo fuori dal mio pensiero” dà per scontato l’accesso a tale mondo, senza il quale accesso non ci si può nemmeno domandare sulla sua reale o presunta esistenza. In definitiva: il semplice domandarsi riguardo all’esistenza del mondo, di noi stessi, degli altri, della legge morale e di Dio, costituisce la prova automatica della loro esistenza; più correttamente, perché il termine “prova” implica dimostrazione: la confutazione automatica della domanda sulla loro esistenza.
Anche di Dio? “Riconosco che includere anche l’esistenza di Dio tra le certezze del senso comune è estremamente impegnativo e problematico”(p. 113); “la certezza di Dio è mediata, ma compresa allo stesso tempo nell’ambito delle certezze derivanti tutte insieme dalla prima apprensione dell’essere nell’esperienza. Insomma, l’intuizione che si ha di Dio attraverso il senso comune, pur essendo un’inferenza, fa un tutt’uno con le intuizioni immediate del mondo e dell’io” (p. 115).
Ma parlare di certezza “mediata” e d’“inferenza” rimane troppo problematico: per questo monsignor Livi precisa il proprio pensiero poco più avanti e parla d’“intuizione di un cammino da percorrere, dagli enti all’Essere” (p. 116), che “[…] non è la stessa cosa del cammino percorso: questo è la dimostrazione filosofica di Dio, quella è l’aspirazione della mente a dimostrare. Dio, comunque, è nell’orizzonte del senso comune, sia pure come esigenza di fondamento” (p. 116). Richiamandomi all’esperimento sopra proposto, si può dire che la problematicità del reale — che non rende ragione della propria esistenza —, ossia la sua finitezza, apre il campo all’unica risposta possibile, cioè l’esistenza di Dio.
A seguire vi è il capitolo III, dove viene svolta la Dimostrazione della mia tesi sull’esistenza e la funzione epistemica del senso comune (pp. 123-154), il cui brano nodale merita anch’esso di essere riportato per esteso.
“Le argomentazioni che costituiscono la dimostrazione della mia tesi possono essere divise in due successivi momenti: il primo momento ha un carattere formale, e fornisce i motivi per i quali occorre riconoscere che il pensiero, in ogni sua forma, fa necessariamente capo ad alcune evidenze originarie; il secondo momento ha invece un carattere materiale, e porta all’individuazione di quali siano tali evidenze originarie.
“Per quanto riguarda il primo momento, i passaggi logici dell’argomentazione possono essere così sintetizzati:
“1) Non c’è pensiero che non sia un qualche tipo di conoscenza: diretta o indiretta, immediata o mediata.
“2) Non c’è conoscenza realizzata — quale che sia il suo oggetto — che non comporti la formulazione di un giudizio (che può eventualmente avere anche una manifestazione linguistica nella forma dell’asserto).
“3) Ogni giudizio è il risultato di una riflessione che il soggetto pensante fa sulle conoscenze acquisite fino ad allora e attualmente presenti alla sua coscienza, per verificare se può affermare con certezza quanto gli è presente alla mente come ipotesi.
“4) La giustificazione epistemica, ossia il motivo che può indurre il soggetto pensante a decidere di affermare con certezza quanto gli è presente alla mente come ipotesi, è la constatazione che tale ipotesi corrisponde ai dati già acquisiti, ossia risulta ad essi perfettamente adeguata (“in questo stesso momento posso affermare che tale cosa esiste ed è così, perché in questo stesso momento so che esiste ed è così”).
“5) I dati già acquisiti che costituiscono gli elementi di giudizio più rilevanti dal punto di vista della giustificazione epistemica sono quelli che riguardano la pensabilità dell’ipotesi come vera.
“6) I giudizi predicativi, ossia quelli che affermano l’essenza di qualcosa, presuppongono i giudizi di esistenza, ossia quelli che affermano l’esistenza di qualcosa; ma tra questi ultimi i primi e più essenziali al pensiero sono quelli indicali, ossia quelli che affermano l’esistenza di qualcosa senza poterne ancora determinare la natura o essenza, mentre gli altri affermano l’essere in atto di enti possibili la cui natura generica è già nota per l’esperienza di altri enti dello stesso genere.
“7) Risalendo nella catena delle presupposizioni, la logica aletica individua dunque i primissimi presupposti (condizioni di possibilità di un asserto pensato come vero) e le primissime premesse (causa prossima della verità della conclusione in un processo inferenziale) nei giudizi predicativi [ma leggi “esistenziali”] di tipo indicale.
“8) Tra questi giudizi predicativi [ma leggi “esistenziali”] di tipo indicale, quelli che costituiscono l’inizio e il fondamento del pensiero debbono essere quei giudizi la cui formulazione non richieda a sua volta il ricorso a dati previamente acquisiti: né di carattere concettuale (essendo giudizi che affermano l’esistenza di qualcosa senza poterne ancora determinare la natura o essenza) né di carattere esistenziale.
“9) Il fondamento ultimo di ogni giustificazione epistemica dovrà essere costituito, pertanto, da siffatti giudizi.
“[…]
“Per quanto riguarda invece il secondo momento della dimostrazione, i passaggi logici possono essere così sintetizzati:
“1) Tra i giudizi indicali privi di presupposti che debbono fungere da verità fondamentali, quello assolutamente primo è la presa d’atto dell’esistenza attuale delle cose percepite nella continua e immediata esperienza della realtà del mondo in cui ogni soggetto si trova a vivere. Esso si può formulare con l’espressione “ci sono gli enti” o altre analoghe, purché si affermi soltanto l’esserci di ciò che appare, che sono cose diverse per il fatto di essere molte e divenienti, ma uguali per il fatto di essere tutte degli enti, ossia delle realtà in atto (analogia dell’essere).
“2) In secondo luogo viene il giudizio con cui il soggetto si rende consapevole di sé proprio come soggetto, in contrapposizione intenzionale all’oggetto, cioè al mondo. Esso si può formulare con l’espressione “ci sono io” o altre analoghe, purché si affermi soltanto l’esserci di chi constata l’esistenza delle cose. Questo è il primo giudizio che implica la negazione, perché il mondo è il “non io”, quindi il soggetto può dire: “lo non mi identifico con le cose del mondo, al quale pure appartengo, perché nel conoscere le cose esse mi sono intenzionalmente davanti”.
“3) Sulla base dell’autocoscienza, il soggetto si rende poi conto che nel mondo ci sono altre realtà in atto che si comportano come lui, cioè come soggetti, anche se per lui che li conosce sono e restano oggetto al pari di tutte le altre cose.
“4) L’evidenza susseguente è quella dei rapporti specifici — di libertà e responsabilità — che legano i soggetti umani tra loro. Di qui nasce la coscienza morale, ossia la percezione del bene e del male (rispetto o violazione dell’ordine dei rapporti umani).
“5) L’ultima e definitiva evidenza è che tutto ciò che è già apparso alla coscienza — il mondo, l’io, gli altri, la legge morale — richiede un fondamento, una prima causa e un ultimo fine: un fondamento che non si vede ma del quale si vede la necessità. Da qusta evidenza nasce la nozione di Dio e la religione naturale” (pp. 142-145).
Il capitolo IV tratta dei Criteri epistemologici conseguenti alla dimostrazione dell’esistenza e della funzione epistemica del senso comune (pp. 155-190), tratteggiando quali sono i possibili sviluppi delle prime verità: oltre a quelle apprese per esperienza diretta, infatti, è possibile non solo fondare quelle inferenziali — filosofia e scienze particolari — ma anche quel particolare sapere che deriva dalla testimonianza altrui e che trova una sua declinazione nel giudizio storico e nell’atto di fede, i cui oggetti sono, per diversi motivi, impossibili da cogliere direttamente. Proprio le verità di senso comune diventano le “premesse epistemiche” (p. 155) di essa, ossia le verità note come “praeambula fidei” (p. 187), che costituiscono le condizioni di possibilità del consenso a Dio che si rivela. “In effetti, nessun soggetto pensante può considerare credibile che Dio abbia parlato agli uomini per salvarli se non presuppone che Egli esiste e che può mettersi in comunicazione con loro” (p. 188).
“Si deve ricordare che è la fiducia nei propri simili (la cui attiva presenza e la cui natura di soggetti razionali costituisce la seconda evidenza del senso comune) ciò che porta a credere a un testimone qualificato. Questa fiducia è una caratteristica strutturale della condotta razionale dell’uomo il quale cerca la verità del suo pensiero in tutti i modi possibili, avvalendosi non solo delle sue risorse individuali ma anche del dialogo con gli altri uomini, soprattutto in quella forma che fin dagli esordi dell’umanità è stata la forma principale della trasmissione del sapere: l’educazione, l’ascolto degli anziani, dei maestri” (pp. 170-171). In queste pagine, implicitamente, monsignor Livi tratteggia la forma mentis del tradizionalista. Al di là di esagerazioni irrazionaliste giustamente condannate che non riguardano i suoi tre padri principali, il conte savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821), il visconte francese Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754-1840) e il marchese spagnolo Juan Donoso Cortés di Valdegamas (1809-1853), il tradizionalismo segnala come l’uomo, razionale e capace di Dio, prima apprende le verità nella società, che è preesistente a ogni uomo — anche al primo —, e solo poi e nel limite del possibile le ricostruisce e le giustifica razionalmente, sapendo che per la gran parte del suo sapere, sia esso naturale o soprannaturale, deve fidarsi degli altri; il vaglio che ha a disposizione è la ragione fondata sulle verità del senso comune. Approcci opposti, i quali negano cioè in modo ingiustificato la possibilità di conoscenza salda fondata sulla testimonianza altrui, sono “riduzionismi epistemici” (p. 178) che “[…] non rispondono nemmeno ai criteri logici effettivamente praticati ai nostri giorni nelle relazioni sociali di ogni tipo. La sociologia della conoscenza mostra infatti come la società di oggi (come la società di ogni tempo) sia basata su forme di comunicazione sociale delle conoscenze (la formazione e l’informazione) il cui meccanismo logico è appunto l’autorevolezza e il credito da una parte, e la fiducia (riconoscimento dell’autorevolezza, concessione di credito) e la fede dall’altra” (ibidem); fino a poter concludere che “ogni civiltà vive ditradizione (la base della propria identità) e di tradizioni: religiose, politiche, artistiche, ludiche” (p. 179).
Chiudono il testo un Epilogo (pp. 191-192), alcuni Riferimenti bibliografici (pp. 193-200) e gl’Indici (pp. 201-210).
Ignazio Cantoni