Massimo Introvigne, Cristianità 326 (2004)
Il 29 novembre 2004 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha inviato alle Nazioni Unite e a numerosi paesi europei un dossier da cui risulta che l’Islamic African Relief Agency, un’organizzazione non governativa sudanese riconosciuta dall’ONU e sostenuta dall’Unione Europea, il cui scopo dichiarato è quello di aiutare i profughi e le vittime dei vari conflitti che insanguinano il Sudan, non ha mai versato un centesimo a questo fine ma ha invece fatto confluire ingenti somme su conti bancari ultimamente controllati da dirigenti di Al Qa‘ida. Si tratta dell’ennesimo episodio della guerra finanziaria fra il terrorismo e i suoi nemici: un versante poco noto, ma non meno decisivo di quello che mette in campo le armi e le bombe, di quella quarta guerra mondiale — la terza, secondo un numero crescente di storici, è la cosiddetta “guerra fredda” combattuta fra il mondo libero e il comunismo — che l’ultra-fondamentalismo islamico ha scatenato sia contro chi ha una visione diversa dell’islam, sia contro l’Occidente e i non musulmani in genere. L’Islamic African Relief Agency non era sfuggita all’acume di Andrea Morigi, giornalista del quotidiano Libero, militante di Alleanza Cattolica e coordinatore dal 1998 della redazione del prezioso Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, pubblicato annualmente dall’associazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che soffre.
La pericolosa organizzazione sudanese è infatti debitamente citata a pagina 122 di Multinazionali del terrore, un saggio — prefazionato dal direttore di Libero, Vittorio Feltri (pp. 5-9) — nel quale Morigi riassume il lavoro da lui svolto in anni di giornalismo investigativo che, sulla base di una solida preparazione in campo economico e finanziario, lo ha portato a indagare su chi, come e dove finanzia il terrorismo ultra-fondamentalista islamico e l’espansione nel mondo di versioni dell’islam tradizionaliste — nel senso di ispirate a proposte anti-moderne, più interessate a una morale puritana che alla politica in senso stretto, di “ritorno alla tradizione originaria”, nate nei secoli XVIII e XIX —, fondamentaliste — sorte invece nel secolo XX e concentrate sulla restaurazione della legge islamica, la shari‘a, per via politica — e ultra-fondamentaliste, separatesi dal fondamentalismo sulla questione della violenza e del terrorismo, che abbracciano senza le riserve che molti gruppi fondamentalisti hanno introdotto.
Dopo un’Introduzione (pp. 10-12), nel primo capitolo, I terroristi non sono poveri (pp. 13-39), e nel secondo, Le tracce sui conti bancari (pp. 30-39) Morigi conferma non solo che nella maggior parte dei casi i terroristi ultra-fondamentalisti non sono disperati ma provengono da solide famiglie borghesi, ma anche che le organizzazioni del terrorismo si finanziano in un modo assai moderno e sofisticato attraverso le speculazioni di borsa — facili per chi conosce in anticipo le date di attentati che esercitano sui mercati effetti abbastanza prevedibili —, il commercio della droga — che ha anche la ragione ideologica di sfibrare il nemico occidentale —, la collaborazione con organizzazioni del terrorismo comunista — come quelle colombiane — coinvolte negli stessi traffici e con la malavita organizzata internazionale.
Nel terzo capitolo, La “catena d’oro” (pp. 40-78), il giornalista italiano affronta un tema assai delicato e al centro di notevoli controversie. Morigi si sforza di ricostruire un elenco dei principali finanziatori di Al Qa‘ida, mostrando il ruolo centrale svolto da personalità e istituzioni saudite, alcune delle quali — per dire il meno — vicine alla famiglia reale di quel paese. L’autore fa però giustamente notare che le informazioni al riguardo vanno trattate con grande cautela con riferimento alla data cui risalgono, dal momento che per alcune persone e istituzioni si può solo affermare con certezza che “[…] appoggiavano la resistenza afghana contro l’invasore sovietico” (p. 53), al cui fianco per un certo periodo ha combattuto Al Qa‘ida, il che evidentemente è cosa ben diversa dal finanziare la stessa Al Qa‘ida dopo la caduta del regime comunista in Afghanistan e il suo inequivoco disvelamento come organizzazione terroristica. Né sfugge a Morigi la complessità della situazione dell’Arabia Saudita, nello stesso tempo luogo dove risiedono numerosi finanziatori di Al Qa‘ida e obiettivo di attentati della stessa organizzazione, così che la sua classe dirigente è invitata a “[…] scegliere e risolvere una volta per tutte le ambiguità” (p. 59). Si può peraltro osservare che il mondo saudita è ancora più complicato di quanto la pure accurata indagine politico-finanziaria dell’autore permette di accertare. Non si tratta solo di fazioni in lotta per il potere, ma di una situazione religiosa dove — dietro una cultura solo apparentemente monolitica — convivono ormai interpretazioni assai diverse dell’islam: tradizionaliste, fondamentaliste e ultra-fondamentaliste. Lo stesso tradizionalismo “wahhabita” — un’espressione che i sauditi non accettano e che il mondo accademico internazionale usa con crescente cautela — si declina oggi in forme diverse secondo specificità generazionali e regionali. Curiosamente, a fare di ogni erba un fascio accusando semplicemente “i sauditi” di essere la fonte di ogni male che viene dal mondo islamico sono insieme negli Stati Uniti d’America i “falchi” più duri del movimento neo-conservatore e le “colombe” più estreme del pacifismo anti-globalista come Michael Moore, il discusso regista di Fahrenheit 9/11.
Un’altra problematica delicatissima è affrontata nel capitolo quarto, Una civiltà in guerra con se stessa (pp. 79-110), in cui Morigi discute un tema su cui esistono intere biblioteche. È un fatto innegabile che i paesi a maggioranza islamica — con alcune eccezioni in Africa — sono detentori di immense ricchezze naturali, a partire dal petrolio. È un altro fatto innegabile che in questi paesi solo una piccola percentuale della popolazione — il 2% nei paesi arabi — può considerarsi benestante, molti sono poveri e poverissimi, i tassi di analfabetismo sono alti, e gl’investimenti in ricerca e sviluppo quasi inesistenti. Da anni gli economisti si interrogano sulle ragioni di questo paradosso. Come rileva Morigi, non vi è più, praticamente, nessun ricercatore serio che attribuisca le colpe di questo sottosviluppo al colonialismo e alla malvagità degli occidentali neo-colonialisti o globalizzatori, ma tesi impresentabili nel mondo accademico circolano ancora ampiamente nella propaganda politica, e non solo in quella araba.
Senza troppo preoccuparsi delle esigenze del “politicamente corretto”, Morigi punta il dito sull’antropologia e sulla visione del mondo dell’islam, radicate nello stesso Corano, che rendono a suo avviso difficile sia la nascita di un’etica del lavoro sul tipo di quella che si è sviluppata in Occidente, sia l’inserimento efficace dei paesi a maggioranza islamica nel mercato globale dell’economia moderna. Nel dibattito accademico sul tema — cui Morigi non fa peraltro esplicito riferimento — questa tesi è spesso bollata come “neo-weberiana”, accusata cioè di applicare all’islam le stesse critiche che il sociologo delle religioni Max Weber (1864-1920) muoveva nei confronti del cattolicesimo, accusato di essere incompatibile, a differenza del protestantesimo, con il capitalismo e lo sviluppo economico moderno, in base a dati che storici ed economisti del secolo XX hanno dimostrato essere inesatti: per esempio, l’economia moderna nasce e prospera nell’Italia cattolica ben prima che nei paesi protestanti. Tuttavia, il fatto che l’ipotesi di Weber si sia rivelata falsa con riferimento alla religione cattolica non significa di per sé che considerazioni analoghe non possano essere svolte nei confronti dell’islam. I critici obiettano che il problema non è religioso ma strutturale e si risolve nella mancanza di una classe media nella maggioranza dei paesi islamici. Ma Morigi osserva, non senza argomenti persuasivi, che la classe media non si forma per ragioni non solo strettamente economiche — fra cui gli effetti perversi di un’economia concentrata eccessivamente sul petrolio — ma anche specificamente religiose. Resta aperto il problema se le considerazioni del giornalista italiano — dal canto suo peraltro ben consapevole che “arabo” e “islamico” non sono sinonimi — siano applicabili a ogni e qualunque possibile interpretazione dell’islam, o soltanto a una gamma di interpretazioni fino a oggi prevalenti nei paesi arabi, così che interpretazioni diverse potrebbero generare sia la nascita di una classe media, sia uno sviluppo economico più soddisfacente, di cui si vedono segni incoraggianti in Turchia — segnalati dallo stesso Morigi — così come in Malaysia e in Indonesia, paesi — certo — non arabi: ma non manca chi vede analoghi processi nascere timidamente anche in Marocco e in Giordania.
Il quinto capitolo, Corano, violenza e carità (pp. 111-135), mette il lettore davanti a un dato già evocato da numerosi studi, ma la cui dimensione complessiva emerge qui con la forza persuasiva delle cifre: un numero strabiliante di organizzazioni caritative e umanitarie musulmane non solo aiutano i musulmani poveri — rarissimo è l’aiuto a bisognosi di altre religioni —, ma dedicano la maggior parte dei loro sforzi a finanziare organizzazioni fondamentaliste e ultra-fondamentaliste, delle quali alcune terroriste, con fondi veramente cospicui che prendono in particolare la direzione sia di Al Qa‘ida sia di Hamas in Palestina. Alcune di queste organizzazioni sedicenti caritative sono finanziate dall’Unione Europea, cioè dai contribuenti dei paesi europei, fra cui l’Italia. E un groviglio creato ad arte rende quasi impossibile distinguere le vere organizzazioni umanitarie dai semplici centri di riciclaggio di somme destinate al terrorismo, così che — anche a causa di un’evidente cattiva volontà politica di alcuni governi occidentali e della stessa Commissione Europea — la pubblicazione di liste di organismi sospetti serve a poco, perché queste cambiano spesso nome o ne nascono altre con gli stessi fini, talora perfino guidate dalle medesime persone fisiche.
Ma — potrebbe obiettare qualcuno — tutto questo non è in contraddizione con quanto affermato nel capitolo quarto, secondo cui in particolare il divieto del prestito a interesse, riba, bollato come usura, rende difficile ai paesi islamici inserirsi nell’economia moderna? All’obiezione risponde il sesto capitolo, La finanza islamica (pp. 136-160), che passa in rassegna le ingegnose giustificazioni elaborate per aggirare il divieto dell’usura — su cui si può vedere ora l’importante studio di Timur Kuran, Islam and Mammon. The Economic Predicaments of Islamism (Princeton University Press, Princeton 2004) —, senza peraltro smentire che i fondi di investimento islamici — a causa delle stesse limitazioni coraniche — non conseguono particolari successi, così che si può sospettare che alcuni di essi siano mantenuti in vita non tanto per la loro efficienza economica quanto per l’utilità come mezzi di riciclaggio di denaro sporco sia proveniente dai terroristi sia destinato alle loro attività.
Il settimo capitolo, infine, intitolato Gli investimenti in Occidente (pp. 161-172), passa in rassegna due ordini di fatti. Il primo riguarda i massicci investimenti di paesi e di singoli miliardari musulmani in Occidente. Il sottosviluppo di certi paesi arabi dipende anche dal fatto che le loro classi dirigenti preferiscono investire negli Stati Uniti d’America e in Europa: non solo — nota Morigi — perché conviene, ma anche perché sono spesso animate da un disegno di colonizzazione economica sospinto ancora una volta da motivazioni religiose. Il secondo fatto innegabile è l’enorme impegno economico, soprattutto saudita, per la costruzione di moschee, il finanziamento di centri islamici e la propaganda religiosa in tutto il mondo. Qui una lettura superficiale del testo potrebbe dare l’impressione che l’autore consideri in qualche modo reprensibile che persone molto ricche decidano di destinare una parte rilevante del loro reddito alla diffusione missionaria della religione che considerano vera. Com’è noto, critiche analoghe sono spesso rivolte al mondo evangelical — cioè protestante conservatore — degli Stati Uniti d’America, che conta nelle sue fila non poche famiglie di grandi imprenditori che ne finanziano le missioni con miliardi di dollari l’anno. Si potrebbe obiettare che nel caso dell’Arabia Saudita i fondi non provengono da privati cittadini, ma dallo Stato: tuttavia, distinguere fra le fortune private delle migliaia di persone imparentate con la casa reale e il patrimonio dello Stato in Arabia Saudita è impresa tutt’altro che facile, e la separazione fra politica e religione in senso occidentale non è comunque applicabile al mondo islamico.
Il problema riguarda allora non solo il sostegno alla religione — di per sé, ovviamente, del tutto legittimo — ma i destinatari dei finanziamenti, che spesso sono gruppi fondamentalisti e ultra-fondamentalisti, anche in virtù di un tacito patto — di cui Morigi ricorda sia la non controversa esistenza, sia l’entrata in crisi dopo l’11 settembre 2001 — secondo cui l’Arabia Saudita finanziava all’estero quelle organizzazioni estremiste che s’impegnavano a tenere le loro attività lontane dalla penisola arabica. Più in generale — ma non è questa, naturalmente, la materia dell’opera di Morigi — si potrebbe, e forse si dovrebbe, aprire un più vasto dibattito sul perché la carità di musulmani, di protestanti evangelical, d’induisti e di buddhisti — per non parlare dei membri dei nuovi movimenti religiosi — finanzi in modo massiccio campagne missionarie che proclamano esplicitamente e senza vergogna il fine di generare conversioni, mentre i protestanti delle denominazioni “storiche” e i cattolici versano più volentieri il loro denaro a organizzazioni che dichiarano che lo useranno per fini di beneficenza e caritativi piuttosto che per scopi specificamente religiosi. Il dato è stato ampiamente documentato da sociologi statunitensi; le interpretazioni — che dovrebbero tener conto della diffusione in ambienti cattolici e protestanti progressisti di una teologia che svaluta la missione e considera relativisticamente le diverse religioni come più o meno equivalenti — sono appena agl’inizi.
Comunque sia, Morigi aiuta a constatare che non vi è nulla di quantitativamente paragonabile nel mondo cattolico all’enorme sforzo finanziario che tutto l’islam mette in campo — e che è cosa diversa dal sostegno di alcuni al terrorismo — per convertire popolazioni africane, asiatiche e oggi anche americane ed europee alla sua religione; e — si potrebbe aggiungere — per sostenere la crescita musulmana, che già avviene comunque per via demografica, attraverso il sostegno sistematico alle famiglie islamiche numerose. Senza falsi pudori, l’opera richiama così alla constatazione che — se per i terroristi vale sempre l’evangelico “filii huius saeculi prudentiores filii lucis […] sunt”, “i figli di questo mondo […] sono più scaltri dei figli della luce” (Lc. 16, 8) — l’islam in genere si espande anche perché il nostro stanco mondo occidentale, in preda al relativismo e a ogni sorta di rispetto umano, mentre attraverso i suoi governi finanzia spesso, con il denaro dei contribuenti, ambigue organizzazioni caritative che dirottano fondi verso l’estremismo islamico, è preso da mille timori quando si tratta di sostenere imprese di carattere esplicitamente missionario cristiano, ed è semplicemente meno generoso dei musulmani quando gli si chiede di mettere mano al portafoglio.
Massimo Introvigne