Valter Maccantelli, Cristianità n. 178 (1990)
“Perché Mikhail Gorbaciov chiede aiuto all’Occidente?”: si tratta di un interrogativo fondamentale che i mass media e gli esperti di politica e di economia dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti d’America sembrano voler relegare in un rilassante dimenticatoio fatto di silenzi veri e di ingenuità certamente meno vere.
A questa domanda si propone di fornire documentati elementi di risposta Judy Shelton, ricercatrice presso la Hoover Institution, nell’opera URSS: l’imminente bancarotta. Perché Gorbaciov chiede aiuto all’Occidente, pubblicato negli Stati Uniti all’inizio del 1989 con il titolo The Coming Soviet Crash: Gorbachev’s Desperate Search for Credit in Western Financial Market (Free Press, New York 1989).
Lo studio della giovane economista americana è particolarmente utile per analizzare le dinamiche che stanno investendo l’impero socialcomunista — Unione Sovietica e Stati satelliti —, richiamando su di esso l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale, per due ragioni: la prima, di natura eminentemente fenomenologica, è costituita dal fatto che nell’opera viene preso in esame, in modo finalmente disincantato, il versante economico — e più specificamente quello finanziario — della perestrojka, della “ristrutturazione”, da più parti, e fondatamente, indicato come l’asse portante di tutte le scelte politiche della dirigenza sovietica dal marzo del 1985 a oggi, cioè da quando è in corso l’era Gorbaciov; la seconda è legata alle risultanze di questa indagine fattuale, dalla quale emerge il quadro di uno Stato sovietico portato sull’orlo della bancarotta dall’applicazione delle teorie economiche socialcomuniste e che ha bisogno dell’aiuto dell’Occidente per salvarsi, mantenendo così inalterato il ritmo di crescita del proprio apparato militare.
La trattazione — preceduta da un cenno sulla sua origine e da ringraziamenti (p. 7) e chiusa dalle Note (pp. 261-274) — si articola in un’introduzione e in tre parti che — in complessivi dieci capitoli — affrontano il problema della politica economico-finanziaria di Mikhail Gorbaciov e delle sue interazioni con le economie degli Stati occidentali a tre diversi livelli.
L’Introduzione (pp. 9-15) è dedicata a porre in evidenza la questione basilare dell’intero problema, cioè “[…] quanto disperata è l’attuale situazione economica sovietica? È vero, come alcuni affermano, che il sistema è sul punto di crollare? Se è così, l’assistenza finanziaria dei paesi occidentali assume un ruolo ancor più importante, fondamentale addirittura” (p.11).
La risposta lapidaria evidenzia il primo dato di fatto che colpisce l’osservatore: “È vero, i sovietici hanno bisogno di soldi. Molto prima che la maggior parte degli esperti occidentali si rendessero conto che l’economia sovietica si stava gravemente deteriorando, Gorbaciov stava già preparando il terreno per ottenere crediti dall’Occidente. Sorprendente è la correlazione tra l’elezione di Gorbaciov al Cremlino e l’escalation delle richieste di prestito sui mercati finanziari occidentali. Nei primi due anni del governo di Gorbaciov […] il debito sovietico è balzato da circa 25 miliardi di dollari a più di 37 miliardi di dollari: un aumento del 50%!” (pp. 11-12).
Nella prima parte viene quindi presa in esame La situazione finanziaria dell’Unione Sovietica (pp. 17-120) così come si è presentata a Mikhail Gorbaciov al momento della sua ascesa al potere. Il dato più significativo emergente dallo studio contenuto in questa sezione dell’opera è che tutti i principali motivi di vanto degli economisti sovietici relativamente alla superiorità della gestione collettivistica e centralizzata dell’economia rispetto a quella di libero mercato sono pure e semplici invenzioni propagandistiche. In particolare l’autrice si sofferma sui due sintomi più evidenti del cataclisma economico che sta investendo il paese-guida del socialcomunismo internazionale, cioè il deficit statale e l’inflazione.
Uno dei princìpi di base dell’economia socialista è che in un sistema a gestione completamente pianificata le entrate e le uscite sono sempre perfettamente bilanciate. E, a guardare le cifre incolonnate nelle pubblicazioni ufficiali, sembra vero: le entrate e le uscite si coprono fino all’ultimo rublo; ma “queste cifre ci colpiscono per la loro esagerata positività. Forse la cosa fastidiosa, in un bilancio nazionale in costante equilibrio e con entrate in continuo aumento, è che questo andamento positivo si adatta troppo bene al paradigma socialista” (p. 24). Infatti, se si strappano alcuni veli e si procede alla lettura critica di queste cifre, si scopre che le uscite superano regolarmente le entrate con un divario che è cresciuto da un 20% nel 1970 fino ad arrivare al 31,4% del 1985.
Quanto all’inflazione, la propaganda sovietica dice che è un effetto perverso del sistema economico del mondo capitalista mentre il sistema dei prezzi fissi praticato nell’Unione Sovietica l’avrebbe completamente eliminata. La realtà sembra presentarsi così diversamente che da più parti si levano le voci dei consiglieri economici del despota sovietico che ritengono indifferibile una radicale riforma dei prezzi. Infatti, “in Unione Sovietica, dove i prezzi sono perennemente bloccati dal governo, l’inflazione [che non può manifestarsi come in Occidente con un aumento dei prezzi stessi] si manifesta automaticamente sotto forma di penuria di beni di consumo” (p. 91).
Fatto stato dei problemi, nella seconda parte Judy Shelton passa a descrivere Come Mosca si procura i finanziamenti stranieri (pp. 121-232), cioè la manovra a tenaglia fatta di offensive propagandistiche e di operazioni finanziarie mediante le quali il capo del Cremlino intende evitare la bancarotta.
Poiché l’elemento comune a tutti questi problemi è che, da qualunque parte li si prenda, sembrano insolubili con le sole, esauste, forze della società sovietica, l’unica via praticabile è quella del reperimento di risorse finanziarie e produttive nell’Occidente capitalista. Le direttrici di marcia dell’avanzata gorbacioviana, descritte nella parte centrale dell’opera, sembrano essere essenzialmente due: anzitutto un’offensiva diplomatica volta ad aprire all’Unione Sovietica le porte dei due templi del capitalismo finanziario, cioè la Banca Mondiale e il FMI, il Fondo Monetario Internazionale; quindi, attraverso queste, le porte di tutte le altre banche occidentali. “Cosa avrebbero da guadagnare i sovietici entrando a far parte del FMI e della Banca Mondiale? Chiaramente sarebbero mutuatari non contribuenti. Anche se dovranno sborsare la quota necessaria (che ancora non é stata stabilita) quale tassa di adesione, il carico sarà presto ammortizzato in quanto i membri possono attingere alle risorse del FMI per una somma pari a sei volte la quota. Nel frattempo, i prestiti della Banca Mondiale, specialmente quelli a breve termine, possono raggiungere cifre molto più elevate rispetto agli aiuti del FMI. L’esperienza ci ha insegnato che un paese può sfruttare il supporto del FMI per ottenere un maggiore accesso ai crediti commerciali: per ogni dollaro mutuato dal FMI un membro può mutuarne altri 6 sui mercati privati. Le percentuali di quota possono essere ritoccate ogni cinque anni” (p. 229).
Parallelamente vi sono però problemi, come la competitività dell’industria e il suo livello tecnologico, che non possono essere risolti con le sole operazioni di accesso al credito. Anche in questo settore il leader del Cremlino sembra aver elaborato un piano d’azione molto preciso, individuato dall’economista americana nel palese tentativo di coinvolgere nel meccanismo produttivo sovietico le industrie occidentali: “L’aspetto più radicalmente innovatore delle nuove iniziative di Gorbaciov per il commercio estero è uno statuto che autorizza la creazione in territorio sovietico di joint ventures con soci stranieri. I sovietici hanno orgogliosamente sottolineato tre obiettivi del programma: 1. attrarre dall’Occidente nuove tecnologie ed esperienza manageriale; 2. incoraggiare la sostituzione delle importazioni; 3. incrementare le esportazioni.
“Tutti e tre gli obiettivi lasciano implicitamente intravedere che i prodotti sovietici sono in genere considerati inferiori a quelli occidentali. Gorbaciov spera che, migliorando la tecnologia dei processi produttivi, nonché facendo ricorso alla capacità manageriale occidentale, le merci di produzione sovietica possano diventare più competitive sui mercati mondiali” (p. 176).
Solo in conclusione — cioè nella terza parte, intitolata Strategia per l’Occidente (pp. 233-259) — vengono evidenziate le finalità ultime di questa manovra, volta al rafforzamento economico del paese guida dell’impero socialcomunista che non intende mutare in nulla la propria strategia ultima sia sul piano interno che su quello internazionale.
Fino a questo punto, infatti, un commentatore particolarmente “neutrale” potrebbe ancora obiettare che — in ultima analisi — non vi è nulla di male se Mikhail Gorbaciov, avendo ereditato un’Unione Sovietica in condizioni disastrose, cerca di risollevarne le sorti mediante operazioni finanziarie ardite ma, tutto sommato, normali nel panorama finanziario mondiale. Questo potrebbe essere verosimile se non vi fosse una voce del bilancio sovietico che nell’opera della ricercatrice dell’Hoover Institution viene citata una sola volta, ma che vi è sempre sottintesa sì da constituirne la chiave interpretativa: “La CIA calcola […] che il 17% della produzione sovietica — alcuni esperti occidentali pensano addirittura più del 25% — venga devoluto nella difesa, contro l’8% circa degli Stati Uniti” (p. 100).
Questa sembra essere l’unica voce del bilancio che non é stata toccata in termini sostanziali dalla ventata di riforme, anzi, il piano quinquennale in vigore attribuisce l’80% delle priorità finanziarie a settori industriali caratterizzati da una fortissima ricaduta tecnologica nel settore degli armamenti. Inoltre, non si deve dimenticare che “ […] per le autorità di pianificazione centrale sovietiche non esiste una vera differenza qualitativa tra una fornitura occidentale di lavatrici e una di mitragliatrici. Se la produzione di un certo numero di lavatrici rientra nel piano economico nazionale di Mosca, il fatto di poterle prendere in Occidente significa che il denaro che sarebbe stato speso per produrle può essere impiegato per produrre mitragliatrici. Anzi, dal punto di vista del vantaggio comparativo, ai sovietici converrebbe importare lavatrici; sono infatti più efficienti nella produzione di mitragliatrici che non in quella di beni durevoli” (p. 251).
Concludendo, è più che lecito chiedersi cosa succederà se l’orso sovietico, ora stanco e malato, una volta rinvigorito dalle robuste iniezioni di capitali e di tecnologie, smetterà di sorridere e tornerà a digrignare i denti. Gli occidentali devono convincersi che “[…]fornire capitali all’Unione Sovietica significa trasferire un patrimonio strategico dell’Occidente. [...] Ma qui gli interessi di sicurezza nazionale dovrebbero avere la priorità sui motivi di lucro dei banchieri e degli uomini d’affari” (p. 255).
Valter Maccantelli