Andrea Morigi, Cristianità n. 203 (1992)
Nascosta tra i grandi eventi che si sono verificati nell’Est europeo, quindi — ma solo per questa ragione? — lasciata in secondo piano dai mezzi di comunicazione sociale, nello stesso periodo si è consumata lentamente e in silenzio, come si addice alle latitudini prossime al Polo Nord, una eclissi non meno significativa, anche se di minor richiamo, di quelle che hanno visto cadere i muri del totalitarismo socialcomunista. Durata in proporzione quanto una notte artica, è tramontata anche la stella della mitologia socialdemocratica svedese, che ha visto esaurite le proprie funzioni “polari” rispetto ai governi degli altri paesi nordici. Nessun movimento di popolo, nessuna realtà operante di tipo religioso ha però determinato il declino delle socialdemocrazie scandinave, ma le stesse coscienze, per oltre due decenni imbottite dalle “droghe leggere della socio-morale stile Olof Palme” (Jean-Francis Held, Henrik Stangerup. Le kierkegaardien qui aurait baisé Régine, in Lettres danoises, Copenaghen 1987, p. 18), hanno gradualmente ritorto la narcotizzazione verso la fonte stessa da cui era originata.
“Nel gran fragore di regimi che cadono o che, dall’Unione Sovietica al Sud Africa, subiscono radicali cambiamenti, sono passate relativamente inosservate le notizie provenienti dalla Svezia.
“Eppure quanto è successo negli ultimi giorni a Stoccolma riveste un’importanza non inferiore, sul piano ideale e su quello politico, alle riforme costituzionali di Mosca o al crepuscolo dell’apartheid di Città del Capo.
“Sia i Paesi socialisti, sia quelli a economia di mercato hanno infatti finora guardato alla Svezia come alla cittadella di una società alternativa, una “terza via” meravigliosamente funzionante, da opporre sia al liberalismo spinto di marca thatcheriana sia alla programmazione rigida e disastrosamente inefficiente dei Paesi del socialismo reale.
“Il modello svedese era considerato l’esempio da manuale di come fosse possibile far convivere uno “Stato del benessere” dalle prestazioni pubbliche ampie ed efficienti, e dai redditi fortemente livellati, con una crescita economica elevata, di come una difesa intransigente della libertà personale fosse compatibile con una direzione accentrata, anche se indiretta, dell’economia.
“A questo “paradiso svedese” si sono riferiti, in maniera più o meno esplicita ma sempre più frequentemente negli ultimi anni, gli orfani del socialismo reale e cioè i riformatori dell’Est europeo e gran parte dei movimenti di sinistra dell’Europa Occidentale […].
“Recentemente, però, questo paradiso ha cominciato ad assumere un’immagine quasi “italiana”” (Mario Deaglio, Svezia mito infranto, in La Stampa, 13-2-1990).
“Le elezioni (15 settembre 1991) hanno portato alla ribalta l’opposizione di Carl Bildt. Il blocco delle sinistre ha perso l’incarico di formare il nuovo governo. Feroci gli attacchi ai socialdemocratici nel corso della campagna elettorale, per il controllo quasi esclusivo e asfissiante, sia statale che locale, di troppi settori, compresa l’assistenza medica, l’istruzione, i centri per l’infanzia e vari altri servizi sociali, gestiti in modo burocratico e pagati con le entrate di tasse pesanti. Inoltre le prospettive economiche in Svezia non sono rosee e la disoccupazione è in forte crescita.
“Il 4 ottobre 1991 Carl Bildt ha presentato al Riksdag (Parlamento unicamerale di 349 membri eletti per tre anni a suffragio universale) il programma governativo, strappando gli applausi di tutti i deputati della coalizione: liberali, centristi, democristiani. Richiamandosi al fallimento delle dittature dell’est, ha dichiarato che il Vietnam non riceverà più denaro e che l’assistenza a Cuba verrà subito interrotta. Ha detto esplicitamente: “È finita l’epoca del collettivismo. Nella nostra Svezia la società sarà sempre al di sopra del potere statale”. […] Condannato il razzismo, il leader conservatore ha richiamato il paese ai principi dell’etica cristiana” (Francesco Strazzari, Svezia: dal benessere all’inquietudine, in Il Regno-Attualità, anno XXXVII, n. 677, 15-2-1992, p. 70).
“Le sinistre d’Europa rischiano così di rimanere orfane una seconda volta. Stoccolma non indica più la via. Non ci sono più modelli di riferimento” (M. Deaglio, art. cit.).
Di un aspetto del “modello svedese”, nella sua variante danese, rende testimonianza il romanzo L’uomo che voleva essere colpevole, scritto nel 1973 — dunque nel periodo di maggior vigore del conformismo sociopsicologico scandinavo — e di cui nel 1990 è apparsa la traduzione italiana, con una pressoché immediata seconda edizione, presso una casa editrice specializzata in letterature nordiche, con un’introduzione di Anthony Burgess (pp. 7-14).
L’autore, Henrik Stangerup, nasce il 1° settembre 1937 in Danimarca, e si viene affermando con i romanzi Slangen i brystet (La serpe in seno, 1969), Løgn over Løgn (Menzogna su menzogna, 1971), Fjenden i forkøbet (Il nemico in anticipo, 1978), Vejen til Lagoa Santa (trad. it. Lagoa Santa, Iperborea, Milano 1989), Det er svært at dø i Dieppe (È difficile morire a Dieppe, 1985) e Broder Jacob (Fratello Jacob, 1991), oltre a essere stato regista dei film Giv Gud en chance om søndagen (Dai una possibilità a Dio la domenica, 1970), Farlige Kys (Baci pericolosi, 1973) e Jorden er flad eller Erasmus Montanus (La terra è piatta o Erasmus Montanus, 1976).
Con L’uomo che voleva essere colpevole — da cui, nel 1990, il regista Ole Roos ha tratto il film The Man Who Wanted to be Guilty — Henrik Stangerup propone una lettura della realtà contemporanea del proprio paese operata con criteri estranei alla “società”, cioè esprimendo giudizi morali dove la morale era stata superata in nome del progresso razionale e asettico. Quanto appartenesse alla finzione e quanto fosse invece specchio dell’esistente si può ricavare dalle polemiche che il libro scatena alla sua uscita in Danimarca e che valgono al suo autore la qualifica di reazionario da parte dei sociopsicologi, disturbati nella loro opera di addomesticamento del popolo.
Il protagonista, Torben, è un intellettuale che, trascorsi oramai i tempi della contestazione sessantottesca, ha messo al servizio dello Stato le sue doti letterarie. Il suo compito consiste nell’addolcire i termini arcigni della burocrazia per trasformarli in parole suadenti, che siano più accettabili e soprattutto non causino disagio sociale. Lo Stato in questione mira, fra l’altro, a rendere gradevole alle coppie il divieto di procreare, imposto per motivi di stabilità sociale a chi non superi un esame di idoneità. Pur impegnato, suo malgrado, nelle grandi mobilitazioni generali contro l’aggressività, Torben, in un accesso d’ira, uccide la moglie e, ricoverato in un ospedale psichiatrico, si trova in breve dimesso, senza aver scontato alcuna pena poiché ha soltanto “occasionato” quella morte e in questo non vi è nessuna colpa. I suoi tentativi di farsi riconoscere colpevole giungeranno a buon fine soltanto in un ritorno al cerchio più interno, “sperimentale”, del manicomio, in cui ognuno può decidere liberamente a quale pazzia dedicarsi.
L’epilogo, annunciato come esito naturale, racchiude in sé la morale del romanzo, per cui le utopie si realizzano in tutta la loro perfezione solamente in un ospedale psichiatrico. Ma non lo comprenderebbe nella sua interezza chi lo vedesse solo come un luogo in cui vengono relegati gli oppositori, poiché un progetto che mira alla felicità può presupporre soltanto il consenso da parte degli “illuminati” e l’adeguamento progressivo da parte degli altri. Il manicomio configura piuttosto, a un diverso livello interpretativo, il più alto risultato dell’evoluzione, la primizia del totalitarismo, elemento provvisoriamente separato della totalità sociale, ma in continuità ideale con essa, quasi la sommità rovesciata di una scala gnostica, che si guadagna obbligatoriamente una volta che si è concluso l’iter che porta a considerare la realtà come illusione e le nostre rappresentazioni come la realtà da costruire.
Simile a un labirinto, il mondo artificiale che circonda tutta la vita di Torben conduce, attraverso un percorso sempre più angosciante, all’incubo della follia gnostica che vuole realizzare il paradiso sulla terra applicandovi un’utopia ed evitando a tutti i costi la realtà della natura umana. Paradossalmente, proprio là dove si gode la massima libertà d’azione ci si trova a sperimentare la più totale mancanza di libertà morale.
I personaggi minori del romanzo appaiono come animati unicamente da una prassi indipendente dal loro essere, sul quale non sembrano farsi domande: come se l’imposizione della socialità scatenasse un espandersi abnorme dell’individualità, conosciamo soltanto il monologo interiore del protagonista, reso in terza persona, che sottolinea l’estraneità e il distacco sofferto nei confronti del proprio prossimo. Per questi uomini, la cui vita è limitata a un meccanismo di stimolo-risposta, tutto è proiettato all’esterno, compresi i conflitti interiori, che vengono risolti socialmente “scaricandoli” su fantocci di gommapiuma o contro avversari immaginari. Sciolti con la psicoterapia i “nodi” che generano l’egocentrismo e l’asocialità, gli uomini hanno organizzato una società secondo le più avanzate teorie della convivenza, ma nello stesso tempo hanno costruito un carcere dove tutti sono prigionieri, compresi i guardiani. Ma all’interno di questo sistema-prigione — a metà strada fra uno scenario di George Orwell in 1984 (Mondadori, Milano 1991) e uno di Aldous Leonard Huxley di Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo (Mondadori, Milano 1991), rimandi suggeriti da Anthony Burgess nell’introduzione (pp. 10-11) — è stato rimosso il concetto di colpa e, conseguentemente, di redenzione, in modo che nessuno provi il desiderio di una libertà al di fuori di quelle mura. Se il male e il bene sono da abolire in quanto scatenano l’aggressività reciproca, ha senso giudicare i fatti solamente dal punto di vista della loro utilità sociale. Si afferma così, al culmine di questo processo di distruzione di ogni verità logica, la dittatura dell’altruismo, inteso nel senso della “concezione di una fratellanza di uomini, che non hanno però un padre comune” (Eric Voegelin, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari dei nostri tempi, trad. it., 2a ed., Rusconi, Milano 1990, p. 6).
Alle radici di questa abominevole filosofia, afferma Henrik Stangerup, sta il pensiero che “[…] l’ambiente giusto crea la gente giusta — allora si è creata la società totalitaria” (Henrik Stangerup, Conversation with the man who writes about guilt, intervista a cura di Tommy Flugt, in The Man Who Wanted to be Guilty — From Novel to Film, Aurora Forlag, Holbæk 1990, p. 21), e ne individua con chiarezza le cause originarie: “L’autentico peggio, ciò che è puro veleno per me è la linea che afferma che il luteranesimo si tramuta in marxismo. […]
“Tutta la filosofia di Lutero si fonda su un uomo che non ha un libero arbitrio. […]
“[…] Proprio da lì partì il comportamentismo scandinavo-tedesco orientale, che poi continua in parti dell’America, in B. F. Skinner, fra gli altri, e si adatta bene all’uomo che è elemento della grande Corporation” (ibid., p. 23).
Versione letteraria della società sognata dal positivismo, dove le scienze risolvono ogni cosa, la Danimarca di Henrik Stangerup offre al lettore l’aspetto oscuro della medaglia, quello dell’uomo che è stato mutilato del senso del soprannaturale al fine di “ricrearlo nel modo giusto”. “Non è facile creare l’Uomo Nuovo!” (p. 127), è la confessione di chi opera disperatamente per il progetto impossibile di costruire un mostro. Si svela in questo modo il disegno ideologico che tenta di giungere, a tappe successive, all’obbiettivo finale che è l’uomo. Da una prima fase in cui si progetta un mondo utopico e se ne applica il modello al corpo sociale, si passa a teorizzare l’Uomo Nuovo e si tenta di spezzare l’unità delle potenze dell’animo degli uomini veri per arrivare alla terza e ultima fase che mira alla loro distruzione definitiva. L’ordine di attuazione di questo piano si pone così come l’esatto contrario di quello della Creazione, non solo nella sua dinamica, ma eminentemente negli scopi.
Il senso di disperazione appagata in cui il protagonista sembra sprofondare nel finale e la vittoria apparente della manipolazione non sembrano chiudere però ogni strada a un ricupero dei valori spirituali, poiché il ricordo della moglie uccisa rappresenta forse l’ultima, anche se inattaccabile, àncora di salvezza durante tutto l’itinerario della mente di Torben verso il suo tragico destino: “Inutilmente avevano eliminato tutto ciò che poteva evocare il suo ricordo e manipolato documenti che gli proibivano di vedere. Edith era molto di più di una di quelle parole che facevano ogni giorno sparire dal vocabolario. Non sarebbe mai finita nell’oblìo finché lui rimaneva libero e poteva fare ciò che voleva, almeno fino al giorno in cui non avrebbe più resistito e sarebbero riusciti a imporgli la loro volontà, qualunque questa fosse…” (p. 105).
Apologo anche della situazione, non sostanzialmente dissimile, dell’uomo contemporaneo, L’uomo che voleva essere colpevole, nella sua ovvia mancanza di indicazioni concrete — il lieto fine ne sopprimerebbe il senso tragico —, fornisce però un riferimento ideale preciso, suggerendo che, a partire da un punto d’appoggio nel passato, si può ricostruire molto per uscire dal labirinto.
Andrea Morigi