Vi sono argomenti che hanno solo l’apparenza della particolarità. Si potrebbe avere, infatti, l’impressione che un tema come il “celibato ecclesiastico” riguardi solamente la figura del sacerdote e del sacerdote della Chiesa latina, posto che in Oriente — anche nell’Oriente cattolico — vige una disciplina diversa.
Sarebbe solo un’impressione superficiale.
Certamente per un cattolico quanto riguarda il sacerdozio non può mai essere qualcosa di secondario. Un cristiano non può correttamente pensare sé stesso senza la Chiesa e di questa Chiesa sacerdozio e clero sono elementi strutturali indispensabili. È stato osservato molto bene che, “fra tutte le “grandi religioni” il cristianesimo dell’Occidente medioevale (come il cattolicesimo moderno che ne è scaturito) ebbe come propria caratteristica uno stretto legame con l’esistenza di una Chiesa, di un clero, di un dogma. Questi tratti principali lo distinguono in modo speciale dalle altre religioni precedenti, contemporanee e successive” (Jean-Claude Schmitt, Medioevo “superstizioso”, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1992, p. 3).
Ma vi è di più: il celibato ecclesiastico è al centro di una discussione che va ben al di là dell’ambito strettamente ecclesiale. La posta in gioco non è solo un problema di disciplina ecclesiastica, ma tutta la concezione dell’amore umano. Attraverso questo problema vengono alla luce modi diversi e antitetici di guardare all’amore umano e alla questione della sessualità. È chiaro che il celibato sacerdotale — assieme al voto religioso di castità — è anche un’importante testimonianza sul senso vero e ultimo dell’amore umano, che non si identifica con la genitalità e, lungi dallo sminuire la vocazione matrimoniale, aiuta a comprenderne il significato più profondo.
Queste considerazioni sono indispensabili premesse per accostare Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, di S. Em. il card. Alfons M. Stickler. La prima cosa da sottolineare è la non comune competenza dell’autore. Alfons Maria Stickler è nato a Neunkirchen, in Austria, il 23 agosto 1910. Entrato nella Congregazione Salesiana fondata da san Giovanni Bosco, ha dedicato la vita alla storia del Diritto Canonico, disciplina nella quale si è affermato come autorità universalmente riconosciuta. È stato rettore magnifico dell’Università Salesiana, ha collaborato come perito ai lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II e alla preparazione del nuovo Codice di Diritto Canonico ed è — fra l’altro — uno dei tre vicepresidenti del Bureau dell’Associazione Internazionale di Storia del Diritto e delle Istituzioni. Nel 1985 Papa Giovanni Paolo II lo ha creato cardinale. I suoi studi sono caratterizzati dalla fedeltà a un principio metodologico fondamentale: non è possibile comprendere le istituzioni della Chiesa senza sforzarsi di penetrare i presupposti teologici che le sorreggono. Ecco perché la sua riflessione accomuna la precisione e l’acribia dello storico con la profondità del teologo speculativo.
La mano sicura dello studioso maturo guida il lettore all’interno di problematiche complesse, anche di natura metodologica, senza indulgere a nessun pressappochismo. Ciononostante — o forse proprio per questo — l’opera è di lettura eccezionalmente piana e scorrevole.
La tesi di fondo è innovativa, almeno per il profano, perché l’autore fa stato di “[…] risultati importanti, maturati proprio in questi ultimi tempi, i quali o non sono ancora entrati nella coscienza generale o vengono taciuti se sono atti a influenzare questa coscienza in una maniera non desiderata” (pp. 5-6). Si può riassumere così: la legge del celibato ecclesiastico consiste nell’obbligo della “continenza da ogni uso del matrimonio dopo l’ordinazione” (p. 8); poiché non siamo a conoscenza di nessuna decisione ecclesiastica che l’abbia introdotta come innovazione, deve essere ricondotta a una tradizione non scritta, forse addirittura di origine divino-apostolica. Questo non sarebbe d’altronde che il caso particolare di una legge generale secondo cui “[…] l’origine di ogni ordinamento giuridico consiste nelle tradizioni orali e nella trasmissione di norme consuetudinarie le quali soltanto lentamente ricevono una forma fissata per iscritto” (p. 11). La tesi corrente, secondo cui si può delineare una storia dell’introduzione della legge del celibato ecclesiastico in Occidente, è dunque assolutamente falsa, come afferma pure, alla voce corrispondente, il noto Wörterbuch der Kirchengeschichte, a cura di Carl Andresen e di Georg Denzler (Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco di Baviera 1982). È vero invece che si può scrivere la storia del processo inverso nella Chiesa Orientale. Capita sempre di leggere, qua e là, che il Concilio di Nicea, celebrato nel 325, respinse la proposta di obbligare i chierici al celibato o, addirittura, che a sancire questa legge fu il Concilio Lateranense II, svoltosi nel 1139. Affermazioni del genere, oggi, possono essere solo frutto di ignoranza.
Il senso del celibato è dunque tutto nella continenza sessuale. Questa, secondo la definizione di Uguccio di Pisa, consiste “nel non contrarre matrimonio e nel non usare di quello contratto” (p. 7). Non è dunque — di per sé — affare di matrimonio o di non matrimonio, quanto piuttosto di uso del matrimonio stesso. Questo chiarimento di apertura è fondamentale per cogliere il nocciolo di tutta la problematica. La prassi di ordinare uomini sposati ha una lunga tradizione nella Chiesa. Essa era ancora vigente ai tempi di Uguccio, nel secolo XII. L’ordinazione però comportava sempre l’obbligo di astenersi dai rapporti coniugali: “In questo obbligo consiste realmente il senso del celibato che oggi è quasi comunemente dimenticato ma che in tutto il primo millennio, e anche oltre, era noto a tutti: la completa continenza da ogni generazione di figli anche da quella permessa, anzi doverosa nel matrimonio.
“[…] il divieto di sposarsi era all’inizio piuttosto di importanza secondaria ed emerse solamente da quando e quanto più la Chiesa preferì, e poi impose i candidati celibi, da cui venivano reclutati quasi o del tutto esclusivamente i candidati agli ordini sacri” (p. 8). Ecco come questa prassi è illustrata, nel 456, da Papa san Leone Magno: “Affinché […] il matrimonio carnale diventasse un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandassero via ma che si avessero come se non le avessero, affinché così rimanesse salvo l’amore coniugale ma cessasse allo stesso tempo anche l’uso del matrimonio” (p. 23).
Risultano così chiari quei passi scritturistici che parrebbero contraddire l’attuale disciplina del celibato: “Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta” (1 Tim 3, 2; cfr. 3, 12; Tt 1, 6). La norma che escludeva dall’ordinazione chi aveva contratto un doppio matrimonio era fondata proprio sul pensiero che una tale persona non dava affidamento riguardo all’obbligo della continenza da osservarsi in futuro.
Qual è il motivo di un tale impegno? In 1 Cor 7, 5 san Paolo mette in relazione l’astensione dall’uso del matrimonio con l’intensità e l’efficacia della preghiera. Si tratta di un consiglio, vincolato al “comune accordo” dei coniugi e alla temporaneità, che non implica nessuna condanna della legittima e doverosa attività sessuale nell’ambito del matrimonio. Pone però un chiaro rapporto fra castità e preghiera che getta luce sul celibato sacerdotale. Così, nel 384, Papa Siricio spiega al vescovo Himerio di Tarragona che “san Paolo ha scritto ai Corinzi di astenersi per dedicarsi alla preghiera. Se ai laici si impone la continenza affinché vengano esauditi nella loro preghiera, quanto più il sacerdote deve essere pronto in ogni momento ad offrire in castità sicura il sacrificio e ad amministrare il battesimo” (p. 21). Anche nell’Antico Testamento si richiedeva dal sacerdote che si mantenesse “mondo” durante il tempo del servizio all’altare. Purità che comportava anche l’astensione da rapporti sessuali (cfr. Lv 22, 1-6; 15, 16-18). Solo che questa astensione era temporanea, perché temporaneo era il servizio. Lo stesso si esige anche dal sacerdote del Nuovo Testamento, con un cambiamento però che testimonia anche la profondità del passaggio dalla vecchia alla nuova economia: l’“[…] immagine del sacerdote del NT modellata sulla volontà di Cristo […] si distingue sostanzialmente da quella dell’AT: quest’ultima è configurata solo come una funzione, per di più limitata nel tempo e puramente esteriore. Quella invece coinvolge la natura e perciò tutto l’uomo in quanto sacerdote, il suo interno ed esterno e perciò il suo servizio. Cristo dal suo sacerdote vuole anima, cuore e corpo e in tutto il suo ministero la purezza e la continenza quale testimonianza che non vive più secondo la carne ma secondo lo spirito (Rm 8, 8). Il sacerdozio levitico funzionale dell’AT non può perciò mai essere un modello di quello ontologico del NT, configurato a Cristo. Questo supera quello in tutta la sua essenza” (p. 63).
Si potrebbe dire in sintesi: il sacerdote del Nuovo Testamento non è un uomo che svolge un servizio — da cui si potrebbe poi in qualche modo distaccare —, ma è una persona intera che si fa servizio. È tutto preso per il servizio. Ecco perché non smette mai di essere prete, anche se dovesse smettere di fare il prete. Il fondamento teologico di questa concezione è la configurazione a Cristo. Dopo l’incarnazione del Verbo e la sua Passione non vi è più che un sacerdote e un sacrificio. Così come la Messa non moltiplica il sacrificio del Calvario offerto “una volta per tutte” (Eb 7, 27), ma ne moltiplica solo la presenza, così il sacerdozio della Nuova Alleanza non moltiplica il sacerdozio di Cristo ma ne moltiplica la presenza. È sacramento del sacerdozio di Cristo e in questo legame ontologico consuma tutta la sua essenza e la sua identità. Di converso una concezione funzionalistica del sacerdozio finisce per instaurare un rapporto contrattuale con Cristo. Mentre il rapporto è totale e totalizzante.
L’autore cita con particolare enfasi l’esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, del 25 marzo 1992, da lui definita la “[…] “Magna Charta” della teologia del sacerdozio che rimarrà norma autorevole per tutto l’avvenire della Chiesa” (p. 65): “È particolarmente importante che il sacerdote comprenda la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato. In quanto legge, esprime la volontà della Chiesa, prima ancora che la volontà del soggetto espressa dalla sua disponibilità. Ma la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l’Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l’ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore” (n. 29 verso la fine).
Certamente si possono addurre altre ragioni di carattere sociologico e pratico che rendono conveniente il celibato sacerdotale, ma fermarsi a esse significherebbe non affrontare la questione. In queste parole di Papa Giovanni Paolo II, che riassumono bene il nucleo teologico di tutto lo studio, è espresso il fondo della questione stessa ed è tratteggiato insieme l’intramontabile fascino di un ideale.
Pietro Cantoni