Oscar Sanguinetti, Cristianità 316 (2003)
La figura del servo di Dio Eugenio Pacelli (1876-1958), Papa Pio XII (1939-1958), è da tempo oggetto di controversie. Gli si addebitano non solo l’atteggiamento fermamente anticomunista nel secondo dopoguerra, ma anche — e forse maggiormente — un troppo cauto, se non addirittura complice, atteggiamento nei confronti del nazionalsocialismo tedesco, diretto responsabile del genocidio degli ebrei europei, perpetrato negli anni fra il 1941 e il 1945, che ormai è uso chiamare Shoah — catastrofe — od Olocausto per antonomasia (cfr. il mio La tragedia dell’Olocausto ebraico e la sue responsabilità morali, in Annali Italiani. Rivista di studi storici, anno I, n. 1, Milano gennaio-giugno 2002, pp. 9-66). Le critiche contro Papa Pio XII, di diversa provenienza e formulate non di rado con toni aspramente polemici, sono culminate nell’aperta richiesta sia da parte di ambienti ebraici che cattolici di bloccarne il processo di beatificazione. In quest’ultima direzione pare situarsi in particolare l’opera dello storico cattolico progressista inglese John Cornwell, intitolato significativamente Il Papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII (trad. it., Garzanti, Milano 2000).
Contro tali argomentazioni hanno preso posizione, in diverse sedi e a più riprese, esponenti cattolici — in particolare il postulatore della causa, padre Peter Gumpel S.J., e padre Pierre Blet, anch’egli gesuita, uno dei maggior esperti di storia della Chiesa in età moderna —, ma anche circoli ebraici moderati.
L’insieme degli argomenti che militano contro le imputazioni di cui Papa Pio XII è fatto oggetto trova un’aggiornata sistematizzazione nell’opera di Andrea Tornielli Pio XII. Il Papa degli Ebrei, il cui intento di replica al saggio di Cornwell traspare fin dal titolo.
Tornielli, vaticanista del quotidiano milanese il Giornale, collaboratore del settimanale Panorama e della rivista il Timone. Bimestrale di formazione e informazione apologetica, nonché delle reti Mediaset, è autore di sette volumi di attualità storico-religiosa.
Pio XII. Il Papa degli Ebrei — dopo una Prefazione di Mario Cervi (pp. 7-12) e un’Introduzione. Qualche ragione per scrivere (pp. 13-24) — si snoda in dodici capitoli, ordinati cronologicamente e conclusi da un “Post Scriptum”. La verità storica fatta a pezzi con un “Amen” (pp. 371-379), da un’Appendice (pp. 381-397), da una Bibliografia (pp. 399-402) e, dopo i Ringraziamenti (p. 403), dall’Indice dei nomi (pp. 405-410).
Tornielli, nel primo capitolo — Da “Pastor angelicus” a vicario dei silenzi (pp. 25-48) — fa stato del profondo mutamento di giudizio in relazione all’operato di Papa Pio XII verificatosi in larghi settori dell’opinione pubblica all’indomani della morte del Pontefice. Se durante il pontificato si erano susseguite manifestazioni di apprezzamento della condotta tenuta da Papa Pacelli nel corso del secondo conflitto mondiale e non erano mancati riconoscimenti da parte dell’ebraismo mondiale, agl’inizi degli anni 1960 il consenso s’incrina. Nel 1963 esplode il “caso” de Il Vicario, il dramma del tedesco Rolf Hochhuth, messo in scena dal regista marxista Erwin Piscator (1893-1966), che pone in questione il comportamento di Pio XII verso l’Olocausto. Si apre così la querelle dei pretesi “silenzi” del Pontefice, e le resistenze iniziali ad accettare la tesi de Il Vicario — persino in Israele — ben presto si affievoliscono e, soprattutto in coincidenza con l’inizio dell’iter della beatificazione, si assisterà a una vera e propria gara nel tentativo di provare la colpevolezza morale di un Pontefice.
La narrazione prosegue nel capitolo secondo — Un treno di palme, il rivoluzionario sporco e l’amico dei sionisti (pp. 49-76) — rievocando il tempo in cui mons. Pacelli, vescovo dal 13 maggio 1917, giorno della prima apparizione della Vergine a Fatima, è nunzio pontificio a Monaco di Baviera e a Berlino, fra il 1917 e il 1929, primo impegno di rilievo del suo cursus ecclesiastico.
Nel narrare la vita della nunziatura nella turbolenta Germania di Weimar, l’autore smonta la tesi di Cornwell secondo cui, come emerge da una lettera — che lo storico inglese presume a torto inedita — mons. Pacelli nel 1917 avrebbe negato alla comunità ebraica di Monaco una fornitura di palme provenienti dall’Italia da utilizzare nella festa dei tabernacoli, il 1° di ottobre. Secondo lo storico il futuro Papa Pio XII sarebbe stato animato da sentimenti antisemiti, alimentati dall’antigiudaismo che allora ancora permeava la teologia e la pastorale cattoliche, pregiudizio che — questo è il Leitmotiv dell’intera argomentazione di Cornwell contro Pio XII, ma è anche presente nelle critiche più recenti contro il Pontefice — farebbe da catalizzatore dell’antisemitismo di molti altri cattolici dell’epoca. In realtà, come dimostra Tornielli, la decisione non fu presa da Pacelli, ma dal governo italiano, perché ancora in guerra con la Baviera.
Nel capitolo terzo — Il Cardinale e il Concordato con il Terzo Reich (pp. 77-98) — l’autore sostiene che il Concordato del 7 luglio 1933 non era l’unico trattato stipulato da Stati europei con la Germania guidata da Adolf Hitler (1889-1945) e che la Santa Sede vi era addivenuta soprattutto per ricavare spazi di libertà per il cattolicesimo tedesco proprio in vista della violenza non solo verbale del nuovo regime. Il Concordato non frenerà affatto l’irruenza anticattolica dei nazionalsocialisti, sì che Papa Pio XI (1922-1939), dopo oltre cinquantacinque note di protesta vaticane e su richiesta della conferenza episcopale tedesca, promulgherà una solenne condanna del neopaganesimo nazionalsocialista nell’enciclica Mit brennender Sorge — “Con ardente preoccupazione” — del 1937, il cui testo ufficiale non a caso è in lingua tedesca.
Fra le reazioni al documento, del quale il segretario di Stato Pacelli fu l’artefice primo — narrate nel capitolo quarto, L’enciclica in tedesco e la Notte dei Cristalli (pp. 99-134) —, Tornielli segnala la collera di Hitler, il boicottaggio del documento e degli altri pronunciamenti vaticani come pure l’atteggiamento di rigore del Papa nei confronti del cardinale arcivescovo di Vienna, Theodor Innitzer (1875-1955), il quale, nel marzo del 1938, subito dopo l’Anschluss, l’”annessione” dell’Austria al Reich, aveva esternato simpatie in chiave nazionalista per il regime hitleriano. Una menzione particolare hanno le proteste cattoliche dopo la Notte dei Cristalli per l’ondata di violenze scatenate dai nazionalsocialisti per vendicare l’assassinio del diplomatico Ernst von Rath (1909-1938), avvenuta a Parigi a opera di un giovane ebreo. Nonostante le ripetute manifestazioni di solidarietà ai perseguitati dal regime, che culminano nello “Spiritualmente siamo tutti semiti” proclamato da Papa Ratti il 6 settembre 1938, la risolutezza vaticana — non sempre accompagnata da un atteggiamento analogamente energico da parte delle comunità religiose evangeliche — si scontra però con la cinica intransigenza del regime totalitario hitleriano, che influenzerà anche gli alleati del Reich tradizionalmente più alieni da sentimenti antisemiti, come dimostrano le leggi razziali promulgate in Italia nello stesso anno.
L’elezione al pontificato di Eugenio Pacelli nel 1939 coincide purtroppo con lo scoppio del conflitto e di un conflitto su scala mondiale. In questo drammatico, e per molti versi inusitato, scenario il nuovo Papa si schiera fin da subito — come esposto nei capitoli quinto, sesto e settimo, L’elezione, l’enciclica “nascosta” e quella palese (pp. 135-157), Ciò che il Papa dei silenzi ha detto e scritto (pp. 159-197) e Le ragioni della prudenza e i fogli bruciati in cucina (pp. 199-236) — in difesa delle vittime innocenti del conflitto: civili, minoranze etniche, vecchi e bambini. In questo ambito non tarda a profilarsi la sorte particolare che attende le comunità ebraiche europee, ancor più bersaglio della violenza del nazionalsocialismo quanto più esso estende il suo dominio su nuovi paesi e su nuovi popoli. Lo Stato nazionalsocialista tedesco, a misura che il conflitto s’inasprisce e s’imbarbarisce, individua sempre più negli ebrei la causa delle proprie difficoltà belliche e ne inasprisce così la persecuzione, fino al punto di “industrializzarla”. Solo a conflitto concluso, però, i contorni dell’Olocausto emergeranno in maniera netta e incontrovertibile — ossia non solo agli occhi degli “addetti ai lavori” — in tutta la loro enorme tragicità.
Il magistero degli anni dal 1940 al 1943 riflette l’angoscia del capo della Chiesa per la sorte di tanti sventurati innocenti e fra le righe dei suoi discorsi e dei suoi scritti non mancano gli accenni e i moniti relativi alla tragedia del popolo ebraico. Ma per il suo ruolo super partes e per difetto d’informazione, Papa Pio XII si deve imporre una condotta rigidamente imparziale fra le parti in lotta, che non esclude il generoso sforzo di lenire indistintamente le sofferenze di tutte le vittime del conflitto: combattenti, feriti, deportati, prigionieri e lavoratori forzati.
Il Papa conosce da vicino i nazionalsocialisti, sa bene chi è Hitler — eloquente è il fatto che non si esime dall’appoggiare i reiterati complotti per rovesciare o uccidere il despota — ed è altresì consapevole che il mondo cattolico tedesco e dei paesi soggetti al Reich è sostanzialmente un ostaggio nelle mani del Führer, perciò agisce con una cautela straordinaria. Tornielli cita al riguardo l’episodio del 1942, quando, all’indomani della tragica deportazione degli ebrei olandesi — causata da una pastorale dei vescovi in loro difesa —, che coinvolge anche la filosofa di origini ebraiche Edith Stein (1891-1942), divenuta suor Teresa Benedetta della Croce e oggi beata, Papa Pacelli stila un documento di dura condanna dell’accaduto, ma finisce poi per gettarlo nella stufa confidando: “[…] se la lettera dei vescovi è costata la vita a quarantamila persone, la mia protesta, che ha un tono anche più forte, potrebbe costare la vita forse a duecentomila Ebrei” (pp. 206-207).
Quest’autentica morsa, che si fa sempre più ferrea negli anni 1944 e 1945, condiziona per tutto il corso del conflitto l’azione magisteriale e diplomatica del Pontefice, mentre sul piano personale — come rivelano le memorie della suora tedesca addetta alla sua persona, Pascalina Maria Lehnert, dell’ordine della Santa Croce di Menzingen (1894-1983) —, egli si dimostra sempre accoratamente partecipe della tragedia in atto e si dichiara più volte disposto a immolare la sua stessa vita pur di far cessare la violenza.
Il capitolo ottavo — Ciò che il Papa ha fatto (pp. 237-276) — descrive i lineamenti della scelta cui il Pontefice si attenne nei giorni più bui della guerra e dello sterminio: quella di agire in concreto e nel silenzio, salvando quante più vite di perseguitati, ebrei e non, fosse possibile. Lo storico Pinchas Lapide (1922-1997), già console israeliano a Milano, calcola il numero delle vite salvate da Papa Pio XII in circa sette-ottocentomila. Oltre a ospitare in aree extraterritoriali vaticane esponenti politici italiani di ogni credo, il Pontefice dette ordine a conventi, case religiose, seminari, scuole cattoliche di tutti i paesi, in cui vi erano dei perseguitati, di dare asilo e di fornire false generalità agli ebrei. Le testimonianze di esponenti ebraici in questo senso riportate da Tornielli sono numerosissime.
L’episodio della deportazione degli ebrei romani, punto particolarmente rovente delle polemiche contro Pio XII, viene affrontato nel capitolo nono, Il ghetto di Roma (pp. 277-305). Il Papa viene sorpreso dall’iniziativa tedesca, ma reagisce immediatamente. Anche se sa che i nazionalsocialisti lo odiano e, se potessero, lo eliminerebbero — Tornielli porta prove dell’esistenza di più di un piano per rapirlo e deportarlo, anche se fortunatamente nessuno di essi fu messo in atto — fa quanto è in suo potere per impedire la retata dei primi mille ebrei che, da Roma, vengono avviati ai campi di sterminio, ma non vi riesce: dopo il suo alto intervento, però, gli ebrei romani non subiranno altre deportazioni.
Nel capitolo decimo — Israel, Eugenio e la genuflessione per i “perfidi Judaei” (pp. 307-315) — Tornielli si sofferma sul rapporto d’amicizia che s’instaura fra Papa Pio XII e Israel Zolli (1881-1956), rabbino capo della comunità romana, proprio grazie agli aiuti prestati dal Pontefice in occasione della tragica — ma, va ribadito, unica — retata del 1943. Nonostante la forte resistenza opposta dai suoi correligionari, Zolli, il 13 febbraio 1945, viene battezzato con il nome di Eugenio, in omaggio a Papa Pacelli: l’anno dopo divengono cristiane la moglie e la figlia. Zolli, nel 1954, domanderà al Papa di riformare le preghiere del Venerdì Santo nelle parti che sembravano più ingiuste verso gl’israeliti. Papa Pio XII non sopprimerà l’espressione “perfidi Judaei” — sarà Papa Giovanni XXIII (1958-1963) a farlo, sei anni dopo —, come chiedeva Zolli, ma si curerà da un lato di far precisare dal Sant’Uffizio il senso di “perfidi” — letteralmente “infedeli” e non “malvagi” — e, dall’altro, di espungere dal rituale la mancata genuflessione dei celebranti al momento della preghiera per i futuri “fratelli maggiori” dei cristiani.
Se, alla luce dei fatti prodotti da Tornielli, resta francamente difficile parlare con onestà di colpevolezza diretta o indiretta del Pontefice nell’Olocausto ebraico, pare ancor più arduo parlare di responsabilità esclusiva. Infatti, il dramma ebraico fu sottovalutato o posposto ad altre esigenze da quanti ne avevano avuto non solo notizia per primi, ma che disponevano anche, loro sì, dei mezzi necessari — benché non necessariamente sufficienti — per arrestare o per limitare la Shoah, ovvero dalle potenze alleate contro il nazionalsocialismo. A questo importante argomento, ancora da sviluppare adeguatamente, Tornielli dedica il capitolo undicesimo, Ciò che gli altri non hanno fatto (pp. 317-344).
La tragedia mondiale si lasciava alle spalle un enorme strascico di sofferenze fra i popoli più colpiti dalla guerra e soprattutto fra gli ebrei, oggetto di un’operazione di sterminio senza uguali e dai tratti barbaramente moderni. E gli ebrei non fecero eccezione al generale coro di voci di gratitudine che saliva verso Papa Pio XII dai popoli più diversi per il soccorso, non solo morale, ricevuto dai cattolici nei tragici anni precedenti.
Nel capitolo dodicesimo, La parola alla “parte civile” del processo (pp. 345-369), Tornielli passa in rassegna le numerose espressioni di riconoscenza manifestate da alti esponenti del mondo ebraico, alcune formulate già durante il conflitto.
Nonostante il rapido evolversi della polemica — è noto il naufragio della commissione ebraico-cristiana d’indagine sugli atti della Chiesa in periodo bellico con relazione all’Olocausto — e la ormai ipertrofica produzione di testi in materia, mentre si fanno sempre più accese e variegate le accuse di parte ebraica verso la nobile figura del servo di Dio, vi è anche chi, come il rabbino americano David Gil Dalin (cfr. Pio XII e gli ebrei. Una difesa, in Cristianità, anno XXIX, n. 304, marzo-aprile 2001, pp. 11-20), vorrebbe che Papa Pacelli, come altri cristiani e altri italiani, fosse dichiarato Giusto fra le Nazioni — un alto titolo onorifico riservato ai non ebrei —, come massimo salvatore degli ebrei di tutta Europa.
In questo contesto sempre più “caldo” l’opera di Tornielli si segnala, oltre che per la qualità dell’indagine e per l’ampiezza della prospettiva, perché costituisce un punto fermo, un’isola nella corrente, nel diluvio ininterrotto d’informazioni e di giudizi, non sempre disinteressati, che si rovescia addosso all’osservatore cristiano e non.
Oscar Sanguinetti