Card. Jean Daniélou S.J., Cristianità 323 (2004)
A molti cristiani d’oggi l’idea stessa di cristianità appare definitivamente superata. Entreremmo in un mondo nel quale il cristianesimo non dovrebbe avere più la stessa presenza all’interno della cultura e della civiltà. Dovremmo rinunciare all’idea di una civiltà cristiana ed anche di un umanesimo cristiano. Per fare degli esempi concreti sul piano della cultura, le istituzioni cristiane, scuole o università, sarebbero oggi superate e l’ideale sarebbe una presenza dei cristiani all’interno delle istituzioni, che non sarebbero più cristiane né potrebbero più esserlo.
Ma bisogna pesare le conseguenze di tale opzione. È troppo evidente che questo è un punto sul quale oggi bisogna insistere: non è possibile agli uomini nel loro insieme — dico a tutti gli uomini — essere cristiani quando si trovano in un ambiente indifferente o ostile al cristianesimo. Ciò deriva da una legge molto semplice della psicologia, radicalmente misconosciuta da un certo numero di teologi contemporanei che sono degli idealisti puri. Essi ragionano come se la libertà non fosse affatto condizionata e come se, per conseguenza, ogni cristiano potesse realizzare il suo cristianesimo anche quando si trova in un ambiente che vi si oppone. Ora, bisogna dire che ciò è normalmente impossibile alla massa degli uomini. È necessario che la civiltà stessa nella quale vivono renda possibile la fede. È troppo evidente che, se ci troviamo in una civiltà ispirata all’ateismo, i cui costumi non hanno più niente a che vedere con la morale cristiana e dove la religione non ha più nessun posto nella cultura, è quasi impossibile alla massa degli uomini diventare cristiani.
Dobbiamo forse pensare che l’avvenire del cristianesimo debba essere quello di una piccola élite di spirituali, che sussisterebbe, a titolo di segno escatologico, come un piccolo “residuo” in un mondo di cui dovremmo osservare la decristianizzazione massiccia come qualcosa di normale? O dobbiamo pensare che tutti gli uomini possono essere cristiani ancora oggi, in seno alla civiltà della tecnica? Quanto a me, questa è la mia scelta: penso che dobbiamo sperare (di una speranza, beninteso, che non è solo umana, ma è una speranza cristiana) che tutti gli uomini possano essere cristiani. La nostra posizione oggi non può essere diversa da quella dei primi apostoli, quando hanno preteso di portare il Vangelo di Gesù Cristo a tutti gli uomini, non solo a qualche élite spirituale, ma ai poveri, agli umili, alle famiglie. Devo dire che un cristianesimo che non fosse più quello dei poveri, un cristianesimo che non fosse più quello di chiunque, un cristianesimo che fosse solo di pochi monaci chiusi nei loro monasteri in un mondo diventato totalmente ateo, mi fa letteralmente orrore, perché ciò significherebbe abbandonare la massa degli uomini all’ateismo, rinunciare a portar loro Gesù Cristo.
Perciò, su questo punto che mi sembra essere di grandissima importanza, penso che sia assolutamente impossibile separare l’annuncio della parola di Dio e la missione propriamente detta dall’azione sulla civiltà e sulla cultura per impregnarle dei valori cristiani, perché solo questo rende possibile a tutti gli uomini d’essere ancora cristiani e impedisce che il cristianesimo diventi nel futuro una conventicola, un piccolo gruppo esoterico. Esso deve restare questo grande popolo di Dio, al quale tutti gli uomini sono chiamati e al quale abbiamo la speranza che possano appartenere coloro che gli sono ancora estranei.
E mi angoscia attualmente il fatto che alcuni teologi sostengano piuttosto l’idea di sbarazzarsi di questo popolo cristiano, perché trovano che esso rappresenti ciò che loro chiamano un “cristianesimo sociologico” che disprezzano e mi angoscia anche che essi mettano l’accento solo su un cristianesimo personale che non può essere che un cristianesimo di élites. Questa mi pare una concezione assolutamente unilaterale delle cose. Certo, dobbiamo tendere a che il cristianesimo di ogni cristiano diventi sempre più un impegno personale, ma dobbiamo considerare che è anche una cosa immensa che un popolo intero sia un popolo di battezzati, che il battesimo faccia parte della tradizione stessa della stirpe: questo io lo difenderò fino alla fine contro tutte le teologie contrarie che si esprimono nel mondo all’interno del quale ci troviamo.
Card. Jean Daniélou S.J.
(1905-1974)
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Voce Cattolicesimo, in Enciclopedia del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, vol. I, Roma 1975, pp. 651-668 (pp. 666-667). Titolo redazionale.