Una Lettera del Papa sull’Europa firmata nel giorno della memoria liturgica di san Giovanni Paolo II
di Antonio Casciano
Quest’anno ricorre il 50° anniversario dall’inizio delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Unione Europea e dall’ingresso, come Osservatore permanente, della medesima Sede Apostolica nel Consiglio d’Europa. Tale anniversario coincide, peraltro, con i 40 anni dalla nascita della COMECE, l’organismo europeo che raccoglie i rappresentanti delle diverse Conferenze Episcopali nazionali, e i 70 anni dalla Dichiarazione di Schuman, l’importante discorso che l’allora ministro degli esteri francese tenne a Parigi il 9 maggio del 1950, da molti considerato il primo passo nel processo di integrazione europea. In vista di tali importanti avvenimenti, Papa Francesco ha indirizzato una lettera al segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin, nella quale ha svolto una serie di riflessioni sull’Europa, il suo passato e, soprattutto, il suo futuro degne di nota.
Il Santo Padre esordisce chiarendo fin da subito come il progetto europeo sia nato dalla «volontà di porre fine alle divisioni del passato» e come, nella difficoltà del momento attuale, segnato dall’epocale minaccia pandemica, si faccia sempre più urgente «operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella “strada della fraternità”, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna».
L’auspicio, sempre attuale per il Vecchio Continente, rimane allora quello di riscoprire le sue millenarie radici culturali e spirituali, ancora capaci di generare vitalità civile e progresso umano, fugando la tentazione di sottrarsi a quell’atavico «bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano», cor-rispondendo all’immutato «bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti», accogliendo, infine, l’inesausto «bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo (dell’Europa ndr) patrimonio di fede, di arte e di cultura».
Ma qual’è l’originalità, insostituibile ed ineguagliabile, del patrimonio ideale e valoriale dell’Europa, capace attraverso i secoli di forgiare popoli e culture? Certamente essa è da rinvenirsi, come ha scritto Papa Francesco, «nella sua concezione dell’uomo e della realtà; nella sua capacità di intraprendenza e nella sua solidarietà operosa», una eredità di pensiero e tradizioni custodita attraverso i secoli e consolidatasi in un novero di assunzioni antropologiche che hanno modellato sistemi giuridici e politici tali da condizionare la storia dell’umanità. È alla luce di questo patrimonio inestimabile che diviene lecito attendersi un’Europa «in cui la dignità di ognuno sia rispettata, in cui la persona sia un valore in sé e non l’oggetto di un calcolo economico o un bene di commercio. Una terra che tutela la vita in ogni suo istante, da quando sorge invisibile nel grembo materno fino alla sua fine naturale, perché nessun essere umano è padrone della vita, propria o altrui».
È per questo che il futuro di questo continente e, soprattutto, della missione che è stato chiamato a svolgere attraverso i secoli dipenderà dalla capacità di mutare in radice la percezione di sé che ha iniziato ad avere da qualche decennio. L’Europa è, oggi come non mai, chiamata a sentirsi comunità, famiglia, vivendo «in unità, facendo tesoro delle differenze, a partire da quella fondamentale tra uomo e donna. In questo senso l’Europa è una vera e propria famiglia di popoli, diversi tra loro eppure legati da una storia e da un destino comune». La solidarietà familiare cui è chiamata implica il «farsi prossimi. Per l’Europa significa particolarmente rendersi disponibile, vicina e volenterosa nel sostenere, attraverso la cooperazione internazionale, gli altri continenti, penso specialmente all’Africa, affinché si compongano i conflitti in corso e si avvii uno sviluppo umano sostenibile».
Infine, l’auspicio del Pontefice è quello di «un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società. Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma – si spera – anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio». Se è vero, infatti, che nella società secolare in cui viviamo la credenza religiosa non è più un dato né incontestato né a-problematico, essendo diventata una mera opzione tra le altre possibili di segno opposto (cfr. Taylor, C., A Secular Age, Harvard University Press, 2007, p. 3; trad. it.,L’età secolare,Feltrinelli, 2009), è anche vero che lo spazio pubblico non può essere pregiudizialmente chiuso al discorso religioso, perché questo aprirebbe la strada avere e proprie forme di a-teismo di Stato, non meno confessionali perché orientante su posizioni negative circa l’esistenza di Dio.
E se la distinzione Dio-Cesare è una sana conquista propria del cristianesimo rispetto alle altre religioni monoteiste, le cui assunzioni postulano invece l’approdo necessitato a stati etici o teocratici, tuttavia essa non può giustificare l’atteggiamento inoperoso di cristiani distanti e distratti dalla questione del governo della cosa pubblica. Essi sono invece gravati di «una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europa, per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società». I Barbari, infatti, quanti, cioè, si dicono pronti a rinnegare il patrimonio di conquiste antropologiche, etiche, politiche e giuridiche gemmate dalla tradizione giudaico-cristiana, «non stanno aspettando oltre le frontiere; ci governano già da un po’ di tempo. Ed è la nostra mancanza di consapevolezza di ciò che costituisce parte della nostra situazione. Stiamo aspettando non Godot, ma un altro – senza dubbio diverso– San Benedetto» (MacIntyre, A., AfterVirtue, South Bend, Notre Dame, 1981, p. 263; trad. it., Dopo la virtù, Armando Editore, 2007).
Giovedì, 29 ottobre 2020