Il mezzo è davvero il messaggio? Il primo prevale sempre sul secondo? Alcuni spunti di riflessione per non lasciarsi sopraffare dai new media.
di Massimo Martinucci
Nel suo libro The game (Einaudi, 2018) Alessandro Baricco ci racconta la evoluzione degli “umani” (non li chiama mai “uomini”) a causa della “rivoluzione digitale” operata non per mezzo di idee o di sommovimenti politici, ma mettendo loro a disposizione degli strumenti nuovi che — semplifico — li hanno “costretti” ad aggiornare talmente le loro abitudini da cambiarne anche la testa. Questi mezzi — gli strumenti informatici sia hardware che software — si sono imposti al punto da superare per importanza le azioni che permettono di compiere.
Con questo atteggiamento l’autore mostra di far sua, pur non citandola, l’affermazione coniata negli anni Sessanta dal sociologo canadese Marshall McLuhan (1911-1980), secondo cui «il mezzo è il messaggio» (The Medium is the Message, 1967). Il contenuto della comunicazione sarebbe cioè talmente condizionato dalla modalità con la quale viene trasmesso da esserne da questa messo in secondo piano o addirittura reso insignificante, oppure identificarsi con il mezzo stesso in modo così stretto da non poter distinguere l’uno dall’altro.
In ambito cattolico il teologo don Pietro Cantoni ha visto esprimere questo assunto nel modo più perfetto nella persona di Gesù, Egli stesso personificazione del messaggio salvifico che ha portato nel mondo (Oralità e Magistero, D’Ettoris, Crotone 2016, pag. 103). In tutti gli ambienti ormai sembra comunque che, in vario modo, l’affermazione di McLuhan non solo sia data per acquisita e scontata, ma che si debba accettare sia il fatto che le sue conseguenze.
Ma “il mezzo” è davvero “il messaggio”? O almeno: è così vero che il mezzo predomina sul messaggio? Qui non si tratta di avanzare la preoccupazione, del tutto ragionevole, di non riuscire ad esprimere il proprio pensiero a causa delle limitazioni dei mezzi a disposizione, ma al contrario di riconoscere che i mezzi sono così potenti e prepotenti da fagocitare il messaggio stesso.
Nel mondo di oggi occorre ammettere che è vero. Questa evidenza balza sgarbatamente alla vista e agli altri sensi nel caotico universo multimediale dei social e in modo forse meno brutale ma all’occhio attento altrettanto vigoroso nei più tradizionali canali di informazione cari alla generazione precedente.
Ma per una persona ragionevole, soprattutto se dotato di una sana mentalità cristiana, non dovrebbe essere così: e quella che dobbiamo riconoscere come una constatazione non è che il risultato di una stortura del mondo moderno. Fa parte della tattica rivoluzionaria il non riconoscere la realtà nascondendone il contenuto e depistarne l’accoglienza dandone interpretazioni fuorvianti. In questo caso si opera una relativizzazione spostando l’attenzione dalla sostanza (il contenuto, il significato) alla forma (lo strumento, il medium).
Per il cattolico uno strumento rimane uno strumento e deve essere tenuto «nella mano e non nel cuore» (François Pollien, Cristianesimo vissuto, Marietti, Torino 1964).
Dunque, innanzitutto dobbiamo stare attenti a non attribuire all’espressione «il mezzo è il messaggio» una portata che vada al di là dell’ambito comunicativo, poi vigilare perché non venga usata in ogni contesto, altrimenti cadiamo nell’esaltazione relativistica della modalità non essendoci più un contenuto condiviso.
Contrapporre mezzo e messaggio con una operazione di tipo dialettico per poi operare una sintesi ha come risultato di stravolgere la verità: è l’apparenza quella che emerge, a dispetto della realtà delle cose.
In conclusione, quello del sociologo canadese non è che un mezzo messaggio, che andrebbe completato con alcune parole iniziali: «Purtroppo, a volte il mezzo è il messaggio».
Sabato, 7 novembre 2020