di Enzo Peserico
1. Il Sessantotto più lungo
Talora una data storica dà il nome non solo al fatto di cui è l’indicatore cronologico ma anche ai suoi protagonisti: è il caso del Sessantotto e dei suoi attori, i sessantottini. Fra quanto accaduto in tutto il mondo nel 1968 e denominato sulla base di tale data, l’analisi è limitata al fenomeno di contestazione più lungo sotto il profilo temporale e più significativo dal punto di vista sociale e politico, il Sessantotto italiano: più lungo perché, mentre l’evento-simbolo del Sessantotto, la rivolta del Maggio francese con gli scontri all’Università della Sorbona, le barricate al Quartiere Latino e il blocco di ogni attività produttiva perde rapidamente consistenza e vitalità, mentre la Primavera di Praga e altri movimenti di rivolta nei paesi del mondo comunista vengono subito stroncati dall’intervento militare dell’URSS, la stagione del Sessantotto italiano dura, con alterne vicende, fino al 1977; più significativo perché la pur imponente contestazione giovanile statunitense – emersa nel 1964 all’Università di Berkeley – manca di un progetto politico definito. In Italia, invece, la contestazione cresce rapidamente e viene presto innervata ed egemonizzata da nuclei e da gruppuscoli animati dall’ideologia socialcomunista, che fonda la lotta violenta al sistema.
2. I prodromi della rivolta
Come ha osservato Eric Voegelin (1901-1985), i fenomeni messianico-rivoluzionari di massa sono preparati da situazioni sociali di profonda inquietudine, che costituiscono il terreno di coltura dell’ideologia, intesa come sistema di miti che promette il raggiungimento della felicità “secolarizzata”, cioè totalmente infraterrena, attraverso l’azione politica.
Il fenomeno del Sessantotto italiano si sviluppa a partire da una diffusa situazione di insoddisfazione, soprattutto giovanile, derivante dalla disgregazione dei valori dominanti, progressivamente erosi da un modello di “società opulenta” incapace a sua volta di rispondere ad attese di profilo diverso dall’innalzamento del livello materiale di vita, peraltro ottenuto attraverso un disordinato processo di industrializzazione e di allargamento artificioso dei consumi, che aveva portato rapidamente a una squilibrata espansione delle periferie urbane dell’Italia Settentrionale e allo sradicamento culturale di ampie fasce della popolazione.
In questo humus sociale carico di insoddisfazione e insieme di attesa di un “mondo nuovo”, liberato da costrizioni e da ingiustizie, cresce il rifiuto della new wave of life vagheggiata dalla cultura liberal-illuminista predominante in Occidente, e accanto alle ribellioni comportamentali comincia a diffondersi, anche grazie alla paziente e spregiudicata opera di molti “cattivi maestri”, l’utopia della Rivoluzione comunista.
3. La rivoluzione “in interiore homine” e quella politica
Il carattere unitario del Sessantotto non va perciò ricercato in fenomeni di superficie, quali le occupazioni universitarie o le manifestazioni studentesche, che continuano a produrre ricostruzioni reducistiche da parte di nostalgici protagonisti – su tutte emblematica per faziosità quella di Mario Capanna nel pamphlet Formidabili quegli anni – bensì in quell’atmosfera di idee e di sentimenti diffusa nel mondo giovanile fino a diventare culturalmente dominante. Si tratta, in altri termini, di una Rivoluzione culturale, che ha espresso due tendenze di fondo. La prima può essere definita rivoluzione “in interiore homine”, che mostra il volto del Sessantotto a livello dei comportamenti individuali e collettivi; il tipo che la incarna è il rivoluzionario d’elezione: “La mia vita come rivoluzione”. Egli fa la rivoluzione rovesciando lo stile di vita dell’uomo naturale e cristiano, in un processo di progressiva distruzione di ogni legame vitale – con Dio, con gli altri uomini e con sé stesso – fino all’esito coerentemente drammatico dell’autodistruzione attraverso la tossicodipendenza o il suicidio. La seconda tendenza si manifesta nella rivoluzione politica, che mostra il volto del Sessantotto a livello macrosociale: il tipo antropologico che la incarna è il rivoluzionario di professione: “La mia vita per la Rivoluzione”. Egli realizza il suo progetto attraverso due vie: la lotta politica – anche violenta – e la lotta politica armata, cioè il terrorismo.
Queste due tendenze percorrono, talvolta intersecandosi e confondendosi, tutta la storia del Sessantotto, per ripresentarsi emblematicamente unite in quel Movimento del ’77 che rappresenta il momento ultimo della contestazione giovanile. Ma l’unione ha vita breve: l’ala “desiderante” – che si esprime, per esempio, negli “indiani metropolitani” – svanisce nell’autodistruzione personale, nella droga e nel nichilismo; l’ala violenta, invece, espressa dall’area di Autonomia, sancisce il proprio fallimento andando a ingrossare le file dei gruppi terroristici, nel frattempo decimate dagli arresti e dalle defezioni.
La tendenza che si manifesta nella ribellione politica assume in Italia un ruolo preponderante. Il momento è favorevole: il desiderio di costruire il mondo nuovo e perfetto, liberato dall’ingiustizia e dalle disuguaglianze, trova nella teoria rivoluzionaria di Karl Marx (1818-1883) e di Vladimir Ilijc’ Uljanov detto Lenin (1870-1924) il modello utopico del futuro e la “tecnica” politica per costruirlo infallibilmente. L’ideologia si arricchisce nel contempo di miti che, sapientemente propagandati, rafforzano la “fede” nella vittoria della Rivoluzione: la Resistenza, i vietcong, i combattenti nella guerra di “liberazione” del Vietnam meridionale (1953-1975), la guerriglia del Che (Ernesto Guevara de la Serna, 1928-1967), la Cina di Mao Zedong (1893-1976).
In questo clima culturale nascono e si moltiplicano i rivoluzionari di professione: nelle scuole e nelle fabbriche si aggregano e si disgregano in continuazione gruppuscoli rivoluzionari. Se l’eclissi dei valori tradizionali aveva progressivamente prodotto, dalla fine degli anni 1950, fenomeni di disgregazione del corpo sociale e quindi un’atmosfera di profonda insoddisfazione e, insieme, di desiderio di un “mondo nuovo”, la nuova aggregazione attorno all’ideologia marxista – seppure ispirata a figure diverse – rifiuta il confronto con la realtà e, secondo un processo che aveva già caratterizzato la Rivoluzione francese, produce teorie e slogan, afferma quanto non può essere dimostrato, esorcizza il dissenso, produce cioè miti da trasporre nella realtà per costringerla ad adeguarsi alle “analisi” distillate nei pensatoi rivoluzionari. Si tratta di un dinamismo artificiale, perché produce esso stesso le affermazioni inverificabili e gli slogan che muovono all’azione gli attivisti; così lo descrive Marco Barbone, ex terrorista pentito, in un’intervista-confessione del 1984: “[…] noi esistevamo e ci rapportavamo in base a discussioni politiche. Era il nostro universo, il microcosmo (cosa che verrà drammaticamente accentuata nelle organizzazioni combattenti), l’orizzonte dell’esistenza”. Il pensiero viene “socializzato”, con il risultato che la politica diventa il mezzo infallibile per fare giustizia. Il sociologo Sabino S. Acquaviva ricorda le parole rivoltegli da uno studente: “Tu non potrai mai capire la sensazione di dominare il mondo, di fare definitivamente giustizia nel mondo, una piccola e specifica ma definitiva giustizia, colpendo chi si è macchiato di tanti delitti”. Identificando etica e politica, il rivoluzionario di professione ha l’obbligo morale di far trionfare i postulati dell’ideologia con qualsiasi mezzo. La mitologia della Resistenza fornisce gli esempi dell'”antifascismo militante” e così, fra la teorizzazione dell’annientamento fisico dell’avversario, l’atto di violenza e, in seguito, l’azione terroristica, non vi è soluzione di continuità: l’ideologia giustifica ogni comportamento e lo eleva ad atto morale. Se qualcuno ha problemi di coscienza, Lenin ha già risposto una volta per tutte nel 1920 ne I compiti delle associazioni giovanili: “Ma esiste una morale comunista? Esiste un’etica comunista? Certo, esiste. […]
“La nostra etica scaturisce dagli interessi della lotta di classe del proletariato”.
4. L'”altro” Sessantotto
Accanto agli attori della contestazione di sinistra il Sessantotto in Italia conosce anche altri protagonisti, dal momento che il fenomeno rivoluzionario, pur diventando preponderante attraverso le sue avanguardie numerose e violente, non esaurisce il mondo giovanile composto altresì, accanto alla larga maggioranza dei passivi, dai contestatori di destra. La destra giovanile, essenzialmente studentesca e aggregata inizialmente attorno alla contestazione al sistema, entra ben presto in antitesi con il progetto egemonico dei movimenti delle sinistre e si caratterizza quindi come reazione anticomunista, individualista e antiegualitaria all’ideologia marxista, venendo così coinvolta, e progressivamente esaurita, in una tragica guerra fra giovani, innescata dalla sistematica demonizzazione del “fascista” e quindi costellata da sanguinosi episodi di violenza. Il comprensibile atteggiamento reazionario del “Sessantotto di destra” ne svela tuttavia l’incapacità di elaborare e di proporre un modello esistenziale e culturale diametralmente opposto al fronte libertario e marxista-leninista, ma anche alternativo a quello offerto dalla cultura dominante, capace quindi di presentarsi come scuola di vita e di nuova civiltà.
Né, d’altra parte, migliore è la sorte del mondo giovanile cattolico coinvolto nel fenomeno. Frastornato dall'”aggiornamento” conciliare e soffocato politicamente dall’egemonia democristiana, esso si lascia sedurre dall’utopia marxista: i suoi quadri dirigenti abbandonano in larga parte la Chiesa e la base finisce in buon numero a ingrossare le file dei rivoluzionari di professione. Pertanto, il movimento cattolico perde nel Sessantotto un’occasione storica: di fronte alla debolezza della cultura liberal-illuminista e all’aggressione intellettuale e politica della rivoluzione socialcomunista rinuncia a prendere l’iniziativa, entra anch’esso “in crisi” e, trascurando la dottrina sociale della Chiesa, accetta l’analisi sociale marxista, assumendo così un atteggiamento di subalternità culturale che continua a produrre effetti desolanti.
5. Il Sessantotto come Rivoluzione culturale
Il Sessantotto si presenta quindi, nel suo aspetto più profondo, come una Rivoluzione culturale, che ha inciso sul costume e sui comportamenti sociali molto più che sulla politica. Certamente il desiderio di un mondo nuovo, ossia l’aspetto utopico della contestazione, è stato sepolto insieme alle numerose vittime degli anni di piombo, e si è capovolto nella tragica disperazione di chi più intensamente ha creduto ai miti dell’ideologia e li ha visti dissolversi fra le “urla dal silenzio” delle vittime dell’esperimento comunista, oppure nel fallimento esistenziale dell’utopia libertaria.
Tuttavia, se l’utopia libertaria e l’ideologia marxista si sono frantumate nel confronto con il reale, la generazione del Sessantotto ha smarrito anche la memoria di quel patrimonio di verità individuali e sociali contenuto nella tradizione cristiana e già sfigurato dai modelli liberali e illuministici della “società opulenta”. In questo modo, la secolarizzazione laicista è avanzata rapidamente anche in Italia e ha potuto tenere il campo indisturbata, saldando in un’unica egemonia culturale progressista tanto le tendenze libertarie che quelle socialcomuniste, orfane del mito messianico-rivoluzionario. D’altra parte, il Sessantotto ha mostrato inequivocabilmente l’incapacità della Modernità, con il suo arsenale ideologico, di fornire risposte significative alla sua deriva nichilista, e ha quindi reso evidente, per contrasto, l’esistenza di un’alternativa reale alla dissoluzione personale e sociale: alternativa culturale e politica, questa, né utopistica né relativista, e percorribile attraverso la riscoperta dei valori che caratterizzano l’uomo naturale e cristiano e che fondano la sua civiltà.
Per approfondire: vedi orientamenti sulla storia del Sessantotto, in Michele Brambilla, Dieci anni di illusioni. Storia del sessantotto, Rizzoli, Milano 1994; in Idem, L’eskimo in Redazione. Quando le Brigate Rosse erano “sedicenti”, Ares, Milano 1991; e in Adalberto Baldoni e Sandro Provvisionato, La notte più lunga della Repubblica. Sinistra e destra. Ideologie, estremismi, lotta armata (1968-1989), Serarcangeli, Roma 1989; sul Sessantotto come rivoluzione culturale, vedi Sabino S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia, Rizzoli, Milano 1979; AA. VV., Dov’è finito il ’68? Un bilancio per gli anni 80, Ares, Milano 1979; vedi una sintesi nel mio Gli “anni del desiderio e del piombo”, in Quaderni di “Cristianità”, anno II, n. 5, estate-inverno 1986, pp. 3-34.