di Giulio Dante Guerra
1. Il problema
Spiegare l’esistenza di tutta la varietà, complessità e bellezza degli esseri viventi nei termini di una pura e semplice concatenazione di cause meccaniche e di fattori materiali: questa è una delle pretese di quello scientismo materialistico che – dopo l’implosione del suo fratello-nemico, il materialismo dialettico – è lo strumento più usato dall’establishment culturale per dare un’apparenza di “scientificità” a una visione materialistica del mondo. E si deve notare che anche la visione in apparenza “alternativa”, quella del vitalismo panteistico proprio dei “verdi” e degli ecologisti in genere – il cui esempio più famoso è l'”ipotesi di Gaia” dello scienziato britannico James Ephraim Lovelock -, si basa anch’essa sulla medesima pretesa. Uno dei “nodi” fondamentali della storia della vita sulla terra è, ovviamente, quello della sua comparsa. Si tratta di un “nodo” così complesso che lo stesso Charles Robert Darwin (1809-1882) preferì lasciarlo insoluto, aggirando più o meno brillantemente il problema; eppure, “sciogliere il nodo” dell’origine della vita era indispensabile per tutta la costruzione darwiniana dell’evoluzionismo: se i primi viventi non si sono “evoluti” dalla materia per cause puramente meccaniche, a che scopo attribuire ai meccanismi delle “piccole variazioni casuali” e della “selezione naturale” la successiva comparsa di tutte le specie animali e vegetali?
La teoria secondo cui la vita sarebbe sorta casualmente dalla materia inorganica non è nuova: è solo la versione moderna della credenza prescientifica nella “generazione spontanea”, in base alla quale le anguille nascerebbero dalla melma dei fiumi, le zanzare dai miasmi delle paludi, le mosche dalla carne putrefatta, e così via. Gli studi di Francesco Redi (1626-1698), dell’abate Lazzaro Spallanzani (1729-1799) e di Louis Pasteur (1822-1895) dimostrarono l’infondatezza di simili credenze; ma ormai l’assenza di differenze qualitative fra vivente e non vivente era diventata una “questione di principio” per il materialismo che dominava la cultura. Ma anche per un certo pseudo-spiritualismo di matrice gnostica: lo scienziato positivista è spesso – si veda, per tutti, il caso dello psichiatra Cesare Lombroso (1835-1909) – frequentatore di sedute spiritiche
2. Le versioni più recenti della “generazione spontanea”
Per restituire dignità scientifica a un concetto così screditato come quello di “generazione spontanea” si ricorre a due accorgimenti.
Primo: quello del “parlar difficile”, introducendo termini altisonanti come “abiogenesi” “fase prebiotica dell’evoluzione”, “evoluzione chimica”, e simili; secondo: retrodatando la presunta “abiogenesi” a ere geologiche lontanissime, in condizioni ambientali non verificate né verificabili, ma “ricostruibili in laboratorio”, in cui – si afferma – sarebbe stato possibile quanto è oggi impossibile. Le “teorie abiogenetiche” sono quasi tutte variazioni di quella proposta negli anni 1930 dal biologo sovietico Aleksandr Ivanovic’ Oparin (1894-1980), che ipotizzava un’atmosfera primitiva a carattere fortemente riducente, composta di idrogeno, vapore acqueo, metano, azoto e ammoniaca. In tale atmosfera, la cui esistenza non è suffragata da dati sperimentali, ma è indispensabile alla teoria, le scariche elettriche dei fulmini e le radiazioni ultraviolette solari avrebbero provocato la sintesi di semplici composti organici, fra cui amminoacidi, purine e pirimidine, che, disperdendosi negli oceani, avrebbero formato il cosiddetto “brodo prebiotico”, nel quale, per reazioni chimiche successive, si sarebbero formate casualmente proteine e acidi nucleici, e, infine, i primi organismi viventi. Le ipotesi di Oparin non ebbero molto seguito, anche perché allora le teorie sulla formazione del sistema solare non prevedevano un’atmosfera diversa da quella attuale per la terra primitiva. Ma all’inizio degli anni 1950 il chimico statunitense Harold Clayton Urey (1893-1981) escogita un’ipotesi sulla formazione del sistema solare in accordo con la teoria di Oparin; e nel 1955 il chimico pure statunitense Stanley Lloyd Miller pubblica i risultati di esperimenti, durante i quali aveva ottenuto una miscela di composti organici, fra cui alcuni amminoacidi, facendo passare scariche elettriche attraverso miscele gassose di metano, ammoniaca, vapore acqueo e idrogeno.
Gli esperimenti di Miller, successivamente confermati ed estesi, sono citati da tutti i libri di chimica come la “prova sperimentale” che la vita può essere sorta spontaneamente dalla materia, dato che gli amminoacidi sono i componenti fondamentali delle proteine, di cui sono costituiti i tessuti biologici. Inoltre, molti degli altri composti organici identificati da Miller nella sua miscela di prodotti si formano nel metabolismo di organismi viventi, e supposti “precursori prebiotici” di altri costituenti fondamentali della cellula, quali gli acidi nucleici, sono sintetizzabili in condizioni che ricordano da vicino quelle dell’ipotetico “brodo prebiotico”. Ma tutti questi risultati sono veramente “prove sperimentali” della nascita spontanea della vita dalla materia? È lecito dubitarne.
3. I limiti delle ipotesi
Anzitutto, i “composti prebiotici”, sintetizzati negli esperimenti di Miller del 1955 e in quelli compiuti da lui e da altri ricercatori nei quarant’anni successivi, sono solo una minima percentuale dei prodotti ottenuti. Per di più, in nessuno di tali esperimenti sono mai stati ottenuti contemporaneamente tutti i venti amminoacidi presenti nelle proteine, mentre sono stati ottenuti anche, e spesso in quantità maggiore dei primi, amminoacidi che non si ritrovano nelle proteine. Senza contare che gli esperimenti di Miller partivano da una particolare ipotesi sulla formazione del sistema solare: ebbene, in quarant’anni, le teorie sulla formazione del sistema solare si sono succedute in gran numero, e già alla fine degli anni 1970 le teorie più accreditate prevedevano un’atmosfera primitiva non molto diversa dall’attuale, salvo forse per la mancanza di ossigeno, formatosi solo dopo la comparsa di organismi provvisti di clorofilla.
Un tentativo per ovviare a questo inconveniente viene fatto nel 1981 dal gruppo del chimico statunitense Allen J. Bard, che ottiene, attraverso reazioni successive in presenza di luce ultravioletta e di vari catalizzatori inorganici, amminoacidi a partire da una miscela di gas simile a quella ipotizzata allora come “atmosfera primitiva”. Peccato che, fra i catalizzatori usati da Bard, vi fosse anche il biossido di titanio ricoperto di platino finemente suddiviso, che non esiste in natura, e si può preparare soltanto artificialmente. In altre parole, ancora nessuna prova della cosiddetta “abiogenesi”.
È da notare poi che tutte queste difficoltà sono state incontrate per sintetizzare soltanto i “mattoni” – i monomeri, per dirla con il termine tecnico – delle macromolecole biologiche. Per passare dagli amminoacidi alle proteine, e dai nucleotidi agli acidi nucleici, le difficoltà salgono alle stelle, e il “caso” si rivela molto intelligente. Anche tralasciando il fatto che, negli anni 1980, le difficoltà esposte hanno portato i ricercatori più seri del settore a dubitare che possa mai essere esistito un “brodo prebiotico”, come da questo “brodo prebiotico” siano potuti nascere per caso organismi viventi non è mai stato spiegato esaurientemente da nessuno.
La prima difficoltà è data dalla chiralità della maggior parte delle molecole di origine biologica. Si dicono chirali – dal greco chéir, “mano” – quelle molecole che, prive di piani di simmetria, possono esistere in due forme distinte, dette enantiomeri, che sono una l’immagine speculare dell’altra, appunto come la mano destra e la sinistra. Ora, tutte le molecole chirali di origine biologica sono enantiomeri puri, e tutti della stessa conformazione: per esempio, tutti gli amminoacidi presenti nelle proteine sono “a forma di mano sinistra”, mentre tutti gli zuccheri presenti negli acidi nucleici, oppure nei tessuti e nelle strutture biologiche, sono “a forma di mano destra”. Invece, tutti i presunti “precursori prebiotici” sono racemi, cioè miscele di eguali quantità dell’enantiomero “destro” e di quello “sinistro”, che non si sa come possano essersi separati da soli, senza l’intervento di un chimico con l’intelligenza e la cultura scientifica, almeno, di un Pasteur. Tale difficoltà era tanto insuperabile che nel 1984 il chimico statunitense James Peter Ferris – un abiogenista il quale, una decina d’anni prima, era addirittura riuscito a farsi finanziare dalla NASA, l’ente nazionale aeronautico e spaziale degli Stati Uniti d’America, una fantascientifica ricerca sulla fotosintesi di composti organici nell’atmosfera di Giove – doveva ammettere che quello della chiralità in natura era un problema insoluto e verosimilmente insolubile, a meno di nuove scoperte del tutto imprevedibili. Poiché le ricerche successive non hanno dato risultati apprezzabili, il problema rimane ancora insoluto.
Un’ulteriore difficoltà è il codice genetico, che consiste nella corrispondenza fra gli amminoacidi delle proteine – la cui sequenza non può essere casuale, dovendo rispondere a specifiche funzioni biologiche – e terne di basi puriniche e pirimidiniche nell’acido desossiribonucleico, o DNA: a ogni terna corrisponde un amminoacido, e soltanto quello, mentre lo stesso amminoacido può essere codificato anche da più terne, cosa che rende perfettamente neutrali gran parte delle mutazioni del DNA, quale che sia l’opinione in proposito dei neo-darwinisti. Si tratta di un codice universale e, dal punto di vista chimico, arbitrario, l'”enigma”, la cui origine fece quasi impazzire Jacques Monod (1910-1976), il biologo francese che, nel 1971, pretese di “divinizzare” il caso con il suo scritto Il caso e la necessità.
4. L’ordine non può nascere dal caos
Tutte le obiezioni alla “teoria abiogenetica” si possono riassumere in un principio semplicissimo: l’ordine non può nascere spontaneamente dal caos. E l’ordine presente in un organismo vivente è una forma organizzatrice, un sistema cibernetico dotato di un grado di informazione superiore a quello delle molecole e delle macromolecole di cui è composto. Lascio a questo proposito la parola a Michael Polanyi (1891-1976), biochimico anglo-ungherese che – pur con qualche carenza di carattere filosofico – aveva un concetto chiaro del problema. In uno scritto del 1967 – in polemica con l’ecologo statunitense Barry Commoner, un biologo “vitalista”, più noto allora per le sue prese di posizione anti-nucleari e pacifiste che per l’importanza delle sue scoperte scientifiche -, Polanyi scriveva: “Quando dico che la vita trascende la fisica e la chimica, intendo dire che la biologia non può spiegare la vita, quale si presenta oggi, in termini di semplice azione di leggi fisiche e chimiche”.
E ancora: “Dobbiamo rifiutarci di considerare lo schema attraverso il quale il DNA diffonde le informazioni come parte delle sue proprietà chimiche. Il suo schema funzionale deve essere riconosciuto come una condizione limite posta all’interno della molecola del DNA. […] Infine, una parola sul modo in cui le condizioni limite che controllano i processi fisico-chimici in un organismo possano aver avuto origine a partire da materia inanimata. Il problema è se la categoria logica delle mutazioni casuali includa o no la formazione di nuovi princìpi non definibili in termini di fisica e di chimica. Sembra molto improbabile che possa includerla”.
Per approfondire: vedi una critica all’evoluzionismo dal punto di vista biologico e paleontologico, in Giuseppe Sermonti e Roberto Fondi, Dopo Darwin. Critica all’evoluzionismo, Rusconi, Milano 1980; dal punto di vista del calcolo delle probabilità, in Luciano Benassi, Mistificazioni evoluzionistiche e matematica, in Cristianità, anno XI, n. 95, marzo 1983, pp. 11-16; dal punto di vista chimico e biochimico, nel mio La vita non è nata per caso, ibid., anno XI, n. 97, maggio 1983, pp. 11-13; un testo classico sulla “chiralità” è Giulio Natta e Mario Farina, Stereochimica, molecole in 3D, Mondadori, Milano 1968; sulla non riducibilità fra organismi biologici e sostanze sintetiche, vedi G. D. Guerra et alii, The biodegradation of poly(ester-ether-ester) block copolymers in a cellular environment “in vitro”, in Journal of Material Science: Materials in Medicine, vol. 5 (1994), pp. 891-895; e di Michael Polanyi vedi La conoscenza inespressa, trad. it., Armando, Roma 1979.