Nella nostra società scristianizzata, dove i cattolici sono diventati una minoranza, capita spesso di incontrare ancora fedeli che frequentano abitualmente la loro parrocchia, o anche una comunità religiosa, senza rendersi conto delle caratteristiche del nostro tempo. È come se fossero diventati una minoranza senza accorgersene e senza essere così in grado di valutare cosa accade nel nostro mondo, che si allontana da Dio ma cerca, astutamente, di non darlo a vedere.
Una delle cose più difficili risulta così essere quella di trasformare in senso missionario queste persone, che assistono ancora abbastanza numerose a incontri e conferenze, ma che spesso non comprendono che cosa dovrebbero fare né hanno nel loro cuore un vero desiderio di aiutare le persone che vivono accanto a loro a riconoscere in Cristo il Salvatore del mondo.
La vocazione del cristiano è infatti essenzialmente missionaria, ma questa verità stenta ancora a penetrare nel vissuto delle comunità cristiane che sono in Italia. Da una parte, infatti, rimane un cristianesimo vissuto in modo abitudinario da un numero sempre minore di persone, per lo più anziane, mentre dall’altra vi sono persone che hanno abbracciato, nei decenni scorsi, un cristianesimo ideologico ansioso di entrare in sintonia con le ideologie dominanti, che ha diviso e rovinato molte comunità.
La prospettiva missionaria sembra anche faticare a entrare nella mentalità di chi ha avuto il grande merito di difendere l’integrità della dottrina in anni in cui quest’ultima veniva messa costantemente in discussione. Costoro oggi stentano a rendersi conto che la priorità della nuova evangelizzazione consiste proprio nel cercare i lontani, frequentando le periferie esistenziali di cui parla il Magistero pontificio, invitando la Chiesa a piegarsi sulla povertà spirituale e materiale degli uomini del nostro tempo, come un “ospedale da campo“. Naturalmente, per alleviare la povertà spirituale bisogna conoscere e amare la dottrina da trasmettere, perché soltanto la verità conduce alla salvezza.
Papa Francesco ha trattato della splendida vocazione del cristiano nell’Angelus di domenica 3 luglio, ricordandoci che dobbiamo “portare a tutti un messaggio di speranza e di consolazione, di pace e di carità“. Poi ha ricordato una verità importante, che distingue il cristiano da colui che vuole distruggere, dal rivoluzionario che per secoli ha operato per fare scomparire la Cristianitá storica edificata dalla Prima evangelizzazione. Bisogna “costruire giorno per giorno questo Regno di Dio che si va facendo. Non distruggere, costruire!“, ha ripetuto il Santo Padre.
Nello svolgere questa fatica missionaria, il cattolico sa che incontrerà l’opposizione del male. Il Demonio esiste e opera anche nella società, in quel modo che la scuola controrivoluzionaria chiama Rivoluzione, la quale appunto distrugge o cerca di distruggere tutto ciò che può ostacolare la sua penetrazione nel corpo sociale. E la Rivoluzione cerca sempre di perseguitare i cristiani. “L’ostilità è sempre all’inizio delle persecuzioni dei cristiani” ha detto Francesco e “Gesù sa che la missione è ostacolata dall’opera del maligno“. Per questo gli operai di Cristo devono contare sulla potenza della Croce, liberandosi da quei possibili condizionamenti umani ( la borsa, la sacca e i sandali di cui parla il Vangelo) e devono soprattutto tentare di diventare come il loro Signore, lasciando “ogni motivo di vanto personale, di carrierismo o fame di potere, e farsi umilmente strumenti della salvezza operata dal sacrificio di Cristo“.
Questa missione è stupenda e però richiede la gioia da parte di chi cerca di incarnarla. Il Vangelo ci ricorda che “i discepoli, inviati da Gesù, tornarono pieni di gioia” e, “quando noi facciamo questo, il cuore si riempie di gioia“.
Come ricorda Benedetto XVI parlando ai giovani nella Giornata mondiale della gioventù del 2012,
“La Chiesa ha la vocazione di portare al mondo la gioia, una gioia autentica e duratura, quella che gli angeli hanno annunciato ai pastori di Betlemme nella notte della nascita di Gesù (cfr Lc 2,10)”.
Ma la Chiesa siamo anche noi, ognuno di noi, e dobbiamo ricordarci che la nostra fecondità apostolica, la nostra capacità di portare un piccolo contributo alla costruzione di un mondo migliore, dipende anche dalla nostra capacità di mostrare questa virtù piccola ma contagiosa:
“La gioia è una rete d’amore per catturare le anime. Dio ama chi dona con gioia. E chi dona con gioia dona di più“, diceva la beata Madre Teresa di Calcutta.
Marco Invernizzi