Lorenzo Cantoni, Cristianità n. 373 (2014)
Il testo è apparso nella sua prima versione in lingua inglese nel volume a cura di Elisa Grimi, Philosophical News. Rivista di filosofia, n. 6, Milano marzo 2013, pp. 62-66.
Nessun cittadino, famiglia od organizzazione può evitare di occuparsi della questione del bene comune ― della sua definizione, o definizioni, e dei modi di promuoverlo. Essa costituisce una sfida, e molto alta, anche per il mondo accademico. Un’università, infatti, è chiamata a servire il bene comune della società, che si attende da essa che quelle conoscenze necessarie o altamente rilevanti per la sua vita presente e futura siano approfondite e ampliate (lo scopo della ricerca), comunicate (insegnamento), procurando anche, alla fine, un impatto benefico sulla comunità che la ospita e la finanzia (servizio). Una facoltà di Scienze della Comunicazione, in particolare, dovrebbe rispondere con prontezza a questo appello e assumersi la piena responsabilità di darvi risposta.
In quest’articolo presenterò lo stretto rapporto fra bene comune e comunicazione, specialmente quella verbale, esplorando quattro percorsi convergenti: (a) le loro comuni radici linguistiche; (b) il linguaggio come condizione stessa perché si discuta del bene comune; (c) il linguaggio come una parte importante del bene comune; (d) infine, il linguaggio come immagine efficace di ciò che è il bene comune. Proporrò un quinto approccio, esplorando lo stesso rapporto negli affreschi che Ambrogio Lorenzetti (1280 ca.-1348) dipinse a Siena per rappresentare il Buon Governo.
Primo percorso: bene comune e comunicazione condividono le radici linguistiche
Innanzitutto, entrambe le espressioni condividono parte delle loro radici linguistiche, che provengono con tutta probabilità dalle parole latine cum e munus. Mentre cum significa insieme, munus significa un bene, che è anche un compito, come succede nell’italiano caro: qualcosa che ci piace, ma anche qualcosa che costa.
Communicare significa dunque condividere con qualcun altro un bene importante, allo stesso tempo amato e impegnativo: significa renderlocomune. Qual è quel munus? È la nostra stessa identità spirituale, chi siamo, i nostri pensieri, ciò che crediamo, speriamo, temiamo e amiamo… qualcosa che, come uomini, non potremmo altrimenti condividere con la stessa forza.
Secondo percorso: il linguaggio è la condizione stessa perché il bene comune venga a parola e sia condiviso
Proprio all’inizio della Politica, Aristotele (384/383-322 a.C.) argomenta che gli esseri umani sono naturalmente socievoli, e lo prova utilizzando i seguenti argomenti: «Infatti, secondo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano, e l’uomo è l’unico animale che abbia la favella: la voce è segno del piacere e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del piacere e del dolore. Invece la parola serve a indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l’ingiusto. E questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali: essere l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e così via: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo stato» (1).
Non è casuale che per molti secoli la stessa base dell’istruzione e della formazione umane sia stato il Trivium: dialettica, grammatica e retorica (2). Riguardano tutte la comunicazione: come pensare correttamente e fornire solidi argomenti (dialettica/logica), come comunicare ciò che è stato pensato usando un linguaggio condiviso (grammatica) e come comunicare in un modo ottimale perché coloro a cui ci si rivolge comprendano e si persuadano (retorica). Contemporaneamente e a causa di ciò, il modello del buon cittadino era quello del vir bonus dicendi peritus (3): un uomo virtuoso esperto nella comunicazione…
La lingua umana, allora, non è semplicemente studiata per condividere informazioni utilitaristiche, ma soprattutto ciò che abbiamo precedentemente visto essere il munus specifico dell’uomo: bene e male, giusto e ingiusto, e gli altri valori; in altre parole, la lingua è necessaria alla società per indicare ogni bene comune da ricercare.
Terzo percorso: il linguaggio è parte del bene comune di una società
Come suggerito dal percorso precedente, la lingua è richiesta da una società per esistere: ciò è vero sia a livello sociale ― ogni comunità deve condividere e in qualche modo convenire su ciò che è giusto e ingiusto, buono e cattivo ― che a livello personale, come ritrae in modo molto vivido un racconto riportata da Salimbene da Parma (1221-1288) riguardo all’imperatore Federico II (1194-1250). L’imperatore voleva sapere quale fosse la prima lingua originaria dell’umanità: ordinò così che un gruppo di neonati fosse allevato senza parlare loro, e senza neppure sorridere o cantare canzoni. Ma stava lavorando invano, nota Salimbene, perché nessuno riuscì a sopravvivere in quelle condizioni.
Essendo la lingua stessa un bene comune, le società organizzate definiscono una o più lingue ufficiali, da proteggere e da promuovere. Sotto questo riguardo, ci si consenta di accennare qui al caso assai paradigmatico della Costituzione federale svizzera, che proprio all’inizio definisce: «Le lingue nazionali sono il tedesco, il francese, l’italiano e il romancio» (art. 4); essa assicura che nessuno possa essere discriminato a causa della lingua (art. 8) e che «La libertà di lingua è garantita» (art. 18). In caso di privazione della libertà,«[ciascuno] ha il diritto di essere informato immediatamente, in una lingua a lui comprensibile, sui motivi di tale privazione e sui diritti che gli spettano» (art. 31,2). Dedica poi alle lingue l’intero articolo 70, dove la questione è ulteriormente chiarita e sviluppata.
Oltre a essere in sé un importante bene comune, la lingua può essere considerata anche un esempio molto interessante di ciò che è «bene comune». Questa prospettiva sarà considerata nel percorso che segue.
Quarto percorso: la lingua è un esempio paradigmatico del bene comune
Una delle principali sfide da affrontare nel definire il bene comune è dovuta alla tensione che in esso è insita. Il bene comune, infatti, da un lato deve essere condiviso da tutti, dall’altro deve essere per ciascuno, senza esclusione: altrimenti non sarebbe né abbastanza comune né abbastanza bene... Prospettive differenti nel corso della storia hanno sottolineato maggiormente una sola polarità, fino al punto di perdere l’altra: preferire tutti contro ciascuno o viceversa.
Credo che in questo caso la lingua possa aiutare a far luce su come sia possibile raggiungere il giusto equilibrio fra tutti e ciascuno.
Da un lato la lingua è, in sé, qualcosa che usiamo per esprimere la nostra identità profonda e per definire chi siamo; qualunque possa essere la nostra posizione sul rapporto fra pensiero e linguaggio, dobbiamo ammettere che il pensiero è profondamente connesso con il linguaggio. Dall’altro lato, la lingua è, per definizione, qualcosa che abbiamo in comune con molti altri, altrimenti perderebbe la propria natura e diventerebbe completamente inutile. Il caso dei pronomi personali è paradigmatico, sotto questo aspetto: io sono io e tu sei tu, ma io devo accettare, perché la comunicazione possa aver luogo, che tu ti riferisca a te stesso come «io», e a me come «tu» (4). Il che significa che gli stessi strumenti che uso per riferirmi a me stesso e per esprimere e comunicare i miei pensieri sono allo stesso tempo autenticamente miei, e appartengono necessariamente anche a molti altri.
Quinto percorso: la comunicazione e gli affreschi del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti
Come suggerito da Alois Riklin (5), l’epoca medioevale non ci ha lasciato solo la Summa filosofica di Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) e la Summa poetica di Dante Alighieri (1265-1321), ma anche unaSumma politica: gli affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti nella Sala della Pace a Siena.
Il pittore comunica in modo assai vivido che cosa significa una ricerca del bene comune, rappresentata dal (Bonum) Commune della città di Siena. La rappresentazione racchiude, su tre muri di circa 35 metri, sia l’allegoria del Buon Governo e dei suoi effetti positivi sulla città e sul contado circostante, sia l’allegoria del Malgoverno e dei suoi effetti negativi. Se ci focalizziamo proprio sull’allegoria del Buon Governo, che occupa il centro esatto della composizione, non solo la comunicazione pittorica, ma anche la comunicazione linguistica gioca un ruolo principale. Consideriamo dunque tre aspetti particolarmente rilevanti.
In primo luogo, vi sono alcuni testi, sia in lingua comune, per assicurarsi che la maggior parte dei cittadini potesse comprenderli, sia in latino; essi presentano una breve canzone sul Bonum Commune, danno un nome alle figure allegoriche e propongono citazioni dalla Bibbia.
In secondo luogo, proprio alla base degli affreschi sono rappresentate le tre discipline del Trivium, per suggerire che esse forniscono un importante contributo al benessere della comunità.
In terzo luogo, i ventiquattro cittadini rappresentati nell’affresco sono occupati a conversare amabilmente: la loro armonia nell’ascoltarsi e nel parlarsi è rappresentata dal fatto che, anche se differiscono chiaramente quanto ai loro indumenti, nessuno è più alto degli altri, e tutti portano insieme una fune ― che combina due corde, provenienti dalla persona che rappresenta la Giustizia e riunite dalla Concordia ― che finisce al polso di un austero saggio, che incarna appunto il Comune/Bene Comune. Proprio quella comunicazione armoniosa riguardo ― come suggerito da Aristotele ― a ciò che è bene e a ciò che è male, a ciò che è giusto e a ciò che è ingiusto, rende possibile alla Pace di risplendere nel baricentro esatto dell’affresco.
Quelle corde, tirate nella stessa direzione da tutti i cittadini, non rappresentano solo l’effetto della Concordia, presentata attraverso l’etimologia popolare cum+chorda. Esse suggeriscono anche, nella chiarezza espressiva dell’affresco, l’armonia di differenti corde musicali e vocali, che intonano lo stesso canto al Bonum Commune.
Lorenzo Cantoni
Note:
(1) Aristotele, La politica, I, 2, 1253a, in Idem, Politica e Costituzione di Atene, a cura di Carlo Augusto Viano, Utet, Torino 1992, pp. 51-342 (pp. 66-67).
(2) Per una moderna proposta del Trivium cfr. L. Cantoni, Nicoletta Di Blas, Sara Rubinelli e Stefano Tardini, Pensare e comunicare, Apogeo, Milano 2008; per una discussione del rapporto fra comunicazione e istruzione, cfr. anche il mio Educational Communication and The Case for ICTs. A two ways route, in Studies in Communication Sciences, vol. 6, n. 2, Lugano (Svizzera) dicembre 2006, pp. 9-22.
(3) Marco Fabio Quintiliano (35/40-96), Institutio oratoria, 1. XII, 1, 25.
(4) Cfr. Émile Benveniste (1902-1976), Structure des relations de personne dans le verbe, in Idem, Problèmes de linguistique générale I, Gallimard, Parigi 1966, pp. 225-236; trad. it. in Problemi di linguistica generale, il Saggiatore, Milano 2010, pp. 269-282.
(5) Cfr. Alois Riklin, La Summa Politica di Ambrogio Lorenzetti, trad. it., Betti Editrice-Armando Dadò editore, Siena e Locarno (Svizzera) 2000; cfr. anche il mio Il «Buon Governo». Una lettura, in Cristianità, anno XXXVI, n. 345, gennaio-febbraio 2008, pp. 16-18.