Massimo Introvigne, Cristianità n. 375 (2015)
1. Il 25 novembre 2014 Papa Francesco ha visitato a Strasburgo, in Francia, il Parlamento Europeo — cui ha rivolto il più lungo discorso del suo pontificato — e il Consiglio d’Europa, un’istituzione che non fa parte dell’Unione Europea e cui partecipano tutti i Paesi situati nello spazio geografico del continente. In due testi molto impegnativi il Pontefice ha ricondotto l’attuale grave crisi dell’Europa e delle sue istituzioni al rifiuto di riconoscere le radici cristiane e di aprirsi al trascendente, abbandonando la nozione di verità e degenerando nel relativismo e nel soggettivismo, promossi dagli «imperi invisibili» (1) dei poteri forti, nemici della vita, della famiglia e della libertà religiosa.
Papa Francesco ha ricordato ai deputati europei la visita di san Giovanni Paolo II (1978-2005) nel 1988 e il suo appello perché le istituzioni europee riconoscessero le radici cristiane del continente. Molte cose sono cambiate da allora, ha detto il Pontefice: «A un’Unione[Europea] più estesa, più influente, sembra però affiancarsi l’immagine di un’Europa un po’ invecchiata e compressa, che tende a sentirsi meno protagonista in un contesto che la guarda spesso con distacco, diffidenza e talvolta con sospetto».
Da dove viene questa crisi dell’Europa? I «Padri fondatori dell’Unione europea», che erano cristiani, volevano fondare una nuova Europa sulla «[…] fiducia nell’uomo, non tanto in quanto cittadino, né in quanto soggetto economico, ma nell’uomo in quanto persona dotata di una dignità trascendente». Il cittadino non basta. Il soggetto economico non basta. Occorre riconoscere nell’uomo «[…] lo stretto legame che esiste fra queste due parole: “dignità” e “trascendente”». Ma questo che cosa significa? Francesco ha ricordato il ricco magistero di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI (2005-2013) sull’Europa. Nel nostro continente è nata l’autentica nozione dei diritti della persona, che trova il suo fondamento «[…] nel pensiero europeo, contraddistinto da un ricco incontro, le cui numerose fonti lontane provengono “dalla Grecia e da Roma, da substrati celtici, germanici e slavi, e dal cristianesimo che li ha plasmati profondamente” dando luogo proprio al concetto di “persona”».
L’Unione Europea, ha affermato Papa Francesco, oggi dedica molte risor-se alla promozione dei diritti umani, e ciò è un bene «[…] poiché persistono fin troppe situazioni in cui gli esseri umani sono trattati come oggetti, dei quali si può programmare la concezione, la configurazione e l’utilità, e che poi possono essere buttati via quando non servono più, perché diventati deboli, malati o vecchi». Né va mai dimenticata, accanto al diritto al lavoro, la libertà religiosa:«Effettivamente quale dignità esiste quando manca la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero o di professare senza costrizione la propria fede religiosa?».
La storia recente dell’Unione Europea, ha ammonito il Pontefice, mostra però pure «[…] alcuni equivoci che possono nascere da un fraintendimento del concetto di diritti umani e da un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la ten-denza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali, sono tentato di dire “individualistici”, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” (μονάς), sempre più insensibile alle altre “monadi” intorno a sé». Riprendendo un pensiero di Benedetto XVI, Papa Francesco ha aggiunto che «al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere», così separando impropriamente la dimensione individuale dei diritti dal bene comune. «Infatti, se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze».
Nel concetto naturale e cristiano dei diritti e dei doveri vi è molto di più. «Parlare della dignità trascendente dell’uomo, significa fare appello alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato», che ha fatto dell’uomo un «essere relazionale» che vive dei legami con gli altri e con Dio. Al contrario, ha detto il Papa, «una delle malattie che vedo più diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi è privo di legami».
«Tale solitudine è stata poi acuita dalla crisi economica, i cui effetti perdurano ancora con conseguenze drammatiche dal punto di vista sociale». Insieme, «è andata crescendo la sfiducia da parte dei cittadini nei confronti di istituzioni ritenute distanti, impegnate a stabilire regole percepite come lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addirittura dannose. Da più parti si ricava un’impressione generale di stanchezza, e d’invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vivace. Per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni». Gli europei non si fidano delle istituzioni europee perché vi vedono «[…] un prevalere delle questioni tecniche ed economiche […] a scapito di un autentico orientamento antropologico. L’essere umano rischia di essere ridotto a semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare, così che — lo notiamo purtroppo spesso — quando la vita non è funzionale a tale meccanismo viene scartata senza troppe remore, come nel caso dei malati, dei malati terminali, degli anziani abbandonati e senza cura, o dei bambini uccisi prima di nascere».
I parlamentari europei dovrebbero al contrario «prendersi cura della fragilità delle persone e dei popoli», il che «[…] significa custodire la memoria e la speranza». Belle parole, si dirà, ma come renderle concrete? «Per rispondere a questa domanda — ha affermato Papa Francesco —, permettetemi di ricorrere a un’immagine. Uno dei più celebri affreschi di Raffaello [Sanzio, 1483-1520] che si trovano in Vaticano raffigura la cosiddetta Scuola di Atene. Al suo centro vi sono Platone [427-347 a.C.] e Aristotele [384-322 a.C.]. Il primo con il dito che punta verso l’alto, verso il mondo delle idee, potremmo dire verso il cielo; il secondo tende la mano in avanti, verso chi guarda, verso la terra, la realtà concreta. Mi pare un’immagine che ben descrive l’Europa e la sua storia, fatta del continuo incontro tra cielo e terra, dove il cielo indica l’apertura al trascendente, a Dio, che ha da sempre contraddistinto l’uomo europeo, e la terra rappresenta la sua capacità pratica e concreta di affrontare le situazioni e i problemi».
Lo insegnava Benedetto XVI: l’Europa nasce dalla cultura greca e dal cristianesimo, e nasce aperta alla trascendenza. «Un’Europa che non è più capace di aprirsi alla dimensione trascendente della vita — ha detto Papa Francesco — è un’Europa che lentamente rischia di perdere la propria anima». «Proprio a partire dalla necessità di un’apertura al trascendente» si può veramente «[…] affermare la centralità della persona umana, altrimenti in balia delle mode e dei poteri del momento». L’Europa non deve avere paura del cristianesimo e del contributo della Chiesa. «Tale contributo non costituisce un pericolo per la laicità degli Stati e per l’indipendenza delle istituzioni dell’Unione, bensì un arricchimento». Il Papa è convinto che solo «[…] un’Europa che sia in grado di fare tesoro delle proprie radici religiose, sapendone cogliere la ricchezza e le potenzialità, possa essere anche più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, anche per il grande vuoto ideale a cui assistiamo nel cosiddetto Occidente, perché è proprio l’oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare la violenza». Il Pontefice ha ricordato anche, a un’Europa che troppo spesso tace sulle persecuzioni dei cristiani, «le numerose ingiustizie e persecuzioni che colpiscono quotidianamente le minoranze religiose, e particolarmente cristiane, in diverse parti del mondo. Comunità e persone che si trovano ad essere oggetto di barbare violenze: cacciate dalle proprie case e patrie; vendute come schiave; uccise, decapitate, crocefisse e bruciate vive, sotto il silenzio vergognoso e complice di tanti».
Unità nelle sue diversità, l’Unione Europea potrà anche chiedersi quale malattia ha colpito le sue istituzioni e notare come una «[…]concezione omologante della globalità colpisce la vitalità del sistema democratico depotenziando il ricco contrasto, fecondo e costruttivo, delle organizzazioni e dei partiti politici tra di loro. Così si corre il rischio di vivere nel regno dell’idea, della sola parola, dell’immagine, del sofisma… e di finire per confondere la realtà della democrazia con un nuovo nominalismo politico. Mantenere viva la democrazia in Europa richiede di evitare tante “maniere globalizzanti” di diluire la realtà: i purismi angelici, i totalitarismi del relativo, i fondamentalismi astorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza sapienza». Questa non è libertà ma cedimento alla «pressione di interessi multinazionali non universali», «sistemi uniformanti di potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti». Sconosciuti sì, ma di cui sappiamo che non amano la «[…] famiglia, cellula fondamentale ed elemento prezioso di ogni società. La famiglia unita, fertile e indissolubile porta con sé gli elementi fondamentali per dare speranza al futuro. Senza tale solidità si finisce per costruire sulla sabbia, con gravi conseguenze sociali».
Senza attenzione per la famiglia, il pur lodevole impegno europeo per l’ecologia ambientale rimane monco, perché trascura l’«ecologia umana», e lo sforzo per il lavoro dimentica che il suo scopo ultimo dovrebbe essere «garantire, attraverso il lavoro, la possibilità di costruire una famiglia e di educare i figli». Questo, ha detto il Pontefice, va garantito anche ai migranti. «Non si può tollerare che il Mar Mediterraneo diventi un grande cimitero! Sui barconi che giungono quotidianamente sulle coste europee ci sono uomini e donne che necessitano di accoglienza e di aiuto». Ma le tragedie avvengono perché la gestione dell’emergenza è lasciata a singoli Paesi. «L’assenza di un sostegno reciproco all’interno dell’Unione Europea rischia di incentivare soluzioni particolaristiche al problema». D’altro canto, rispetto ai migranti l’Europa ha il dovere di «[…] proporre con chiarezza la propria identità culturale e mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l’accoglienza dei migranti». Nessuna vera accoglienza è possibile senza una chiara affermazione dell’identità, e ai parlamentari di Strasburgo «[…] spetta il compito di custodire e far crescere l’identità europea». «Un anonimo autore del II secolo — ha concluso Papa Francesco — scrisse che “i cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo”. Il compito dell’anima è quello di sostenere il corpo, di esserne la coscienza e la memoria storica. E una storia bimillenaria lega l’Europa e il cristianesimo». Questa storia non è solo il nostro passato: «Essa è il nostro presente e anche il nostro futuro. Essa è la nostra identità. E l’Europa ha fortemente bisogno di riscoprire il suo volto».
Sono concetti che il Pontefice ha ribadito nel più breve, ma denso, discorso al Consiglio d’Europa, aperto citando una poesia di Clemente Rebora I.C. (1885-1967) che descrive «un pioppo, con i suoi rami protesi al cielo» (2), con il suo tronco «[…] solido e fermo e le profonde radici che s’inabissano nella terra». La poesia insegna che «se si perdono le radici, il tronco lentamente si svuota e muore. Qui sta forse uno dei paradossi più incomprensibili a una mentalità scientifica isolata: per camminare verso il futuro serve il passato».
Rebora scriveva che «il tronco s’inabissa ov’è più vero». Vi è un rapporto ineludibile, ha detto il Papa, fra radici e verità. «Le radici si alimentano della verità, che costituisce il nutrimento, la linfa vitale di qualunque società che voglia essere davvero libera, umana e solidale. D’altra parte, la verità fa appello alla coscienza, che è irriducibile ai condizionamenti, ed è perciò capace di conoscere la propria dignità e di aprirsi all’assoluto, divenendo fonte delle scelte fondamentali guidate dalla ricerca del bene per gli altri e per sé e luogo di unalibertà responsabile». Al contrario, «[…] senza questa ricerca della verità, ciascuno diventa misura di sé stesso e del proprio agire, aprendo la strada dell’affermazione soggettivistica dei diritti, così che al concetto di diritto umano, che ha di per sé valenza universale, si sostituisce l’idea di diritto individualista. […] Un tale individualismo rende umanamente poveri e culturalmente sterili, poiché recide di fatto quelle feconde radici su cui si innesta l’albero», e determina la stanchezza e le malattie dell’Europa di oggi. «All’Europa possiamo domandare: dov’è il tuo vigore? Dov’è quella tensione ideale che ha animato e reso grande la tua storia? Dov’è il tuo spirito di intraprendenza curiosa? Dov’è la tua sete di verità, che hai finora comunicato al mondo con passione?».
Le radici non sono un «retaggio museale», ma garanzia di sviluppo e di pace in un mondo minacciato dal terrorismo, dalla violenza, dalle guerre —spesso sostenute, ha detto il Pontefice, dal traffico internazionale di armi —, da un dialogo che si rinchiude nelle istituzioni e non si apre ad altri soggetti, in particolare alle religioni. Fede e ragione sono chiamate a «[…] illuminarsi reciprocamente sostenendosi a vicenda», per fare fronte sia a un «[…] fondamentalismo religioso che è soprattutto nemico di Dio», sia a un rifiuto di aprirsi alla trascendenza che oggi fra l’altro nega la «tutela della vita umana» e affronta le questioni della bioetica in modo puramente tecnico e riduttivo.
«Il mio augurio — ha concluso Papa Francesco — è che l’Europa, riscoprendo il suo patrimonio storico e la profondità delle sue radici, assumendo la sua viva multipolarità e il fenomeno della trasversalità dialogante, ritrovi quella giovinezza dello spirito che l’ha resa feconda e grande».
2. A differenza del viaggio di Benedetto XVI del 2006, che veniva dopo il discorso di Ratisbona (2), in Germania, e intendeva riannodare i fili di un dialogo con l’islam non ultra-fondamentalista, la visita in Turchia di Papa Francesco non aveva al centro il rapporto con il mondo islamico ma il dialogo ecumenico con gli ortodossi, una delle grandi priorità del pontificato. In continuità con il Concilio Ecumenico Vaticano II, con l’enciclica di san Giovanni Paolo II Ut unum sint e con gli sforzi di Benedetto XVI — ma nello stesso tempo avanzando ancora, sulla stessa strada — Papa Francesco ha offerto agli ortodossi una riconciliazione alla sola condizione di riconoscere il primato «nella carità» (3) della Chiesa e del vescovo di Roma con le stesse formule usate nel primo millennio cristiano, mantenendo le loro specificità amministrative, liturgiche «[…] ma anche le discipline canoniche, sancite dai santi padri e dai concili, che regolano la vita di tali Chiese»(4). Come ha mostrato nello scorso settembre la tredicesima sessione del dialogo teologico fra cattolici e ortodossi, svoltasi ad Amman, in Giordania, il problema ormai non è più a Roma ma è fra gli ortodossi stessi, che litigano fra loro, non di rado perché dietro alle questioni teologiche si nascondono questioni politiche come quella dell’Ucraina, cui non a caso la dichiarazione congiunta sottoscritta da Papa Francesco e dal Patriarca Bartolomeo dedica un cenno conciliante e dialogico. L’ecumenismo dei gesti — come quello del Papa che si è chinato a ricevere la benedizione del Patriarca —, inaugurato dal beato Paolo VI (1963-1978) nel suo abbraccio di cinquant’anni fa con il Patriarca Atenagora (1886-1972), è importante ma affianca e non sostituisce, come Francesco ha ricordato, il dialogo teologico, che non può che proseguire e dove appunto i maggiori problemi nascono oggi dalle controversie che dividono gli ortodossi fra loro.
Il Papa ha parlato anche — non è la prima volta — di un ecumenismo del sangue e della sofferenza, e dell’urgenza della riconciliazione fra cattolici e ortodossi per una testimonianza comune di fronte alle persecuzioni e un atteggiamento condiviso nel dialogo con l’islam, specie in Medio Oriente. Francesco ogni mese, spesso ogni settimana, ricorda i cristiani perseguitati e spiega che il tempo delle maggiori persecuzioni non è quello degli imperatori romani ma il nostro. Le statistiche sui cristiani perseguitati sono esse stesse un tema di controversia politica. Se includiamo tutti i cristiani uccisi per ragioni di coscienza — compresi quelli che si rifiutano in nome della loro fede di farsi arruolare da milizie tribali in Paesi come il Congo — la cifra, sulla media degli ultimi dieci anni, rimane quella di circa 105.000 vittime all’anno, un morto ogni cinque minuti. Vi sono fortissimi interessi per nascondere queste cifre e la BBC, la televisione di Stato britannica, è stata e rimane in prima linea nell’attacco agli studiosi che le propongono. Ma gli studiosi sono solo il barometro e, come diceva Antonio Gramsci (1891-1937), prendendosela con il barometro non si risolve il problema del cattivo tempo.
Altri attacchi ridicoli vengono da quei cattolici che hanno sviluppato untic anti-Papa Francesco, i quali ripetono, come un disco rotto, che il Pontefice non fa abbastanza per la libertà religiosa e per denunciare le persecuzioni dei cristiani. In realtà nessun Pontefice ha parlato delle persecuzioni dei cristiani tanto spesso quanto Papa Francesco. In Turchia ha ripetuto con grande chiarezza l’invito ai capi religiosi islamici — anzi, ha parlato di un vero e proprio dovere — a isolare il fondamentalismo, condannare il terrorismo e socializzare un’interpretazione del Corano che non incoraggi la violenza. Certamente questo si accompagna a gesti di riconciliazione come la preghiera nella Moschea Blu. Come vi è un ecumenismo dei gesti, vi è un dialogo interreligioso dei gesti, che non sostituisce ma affianca e aiuta altre forme di dialogo.
Il 28 novembre Papa Francesco ha iniziato il suo viaggio apostolico in Turchia, dedicando la prima giornata agl’incontri con le autorità. La Turchia attende una nuova Costituzione, che dovrebbe essere varata nel 2015 e tener conto del fatto che il Paese non è più quello laicista di Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), che si rivolse alla massoneria francese e italiana per essere aiutato a redigere le leggi fondamentali di un nuovo Stato totalmente laico, ma quello del presidente Recep Tayyip Erdoğan, il cui Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) dal 2002 vince tutte le elezioni, politiche e amministrative, promettendo ai turchi più islam e meno laicità. Come la nuova Costituzione — che sarà certamente più islamica, perché questo è il mandato che l’AKP ha ricevuto dagli elettori — riuscirà a includere la libertà religiosa e la tutela della minoranza cristiana è una questione la cui portata va al di là della sola Turchia. La partita, che fa da sfondo al viaggio del Papa, riguarda la possibilità di superare il teorema per cui le dittature militari, invise alla maggioranza dei cittadini, garantiscono nel mondo islamico maggiore libertà ai cristiani, mentre quando s’instaura la democrazia e l’islam politico vince le elezioni i cristiani si sentono in pericolo. La Turchia vorrebbe appunto dimostrare che coniugare islam politico e tutela delle minoranze religiose è possibile. È una sfida molto difficile, che la Santa Sede segue da oltre un decennio con attenzione e senza pregiudizi ideologici.
Simbolicamente, Papa Francesco ha voluto iniziare la sua visita ad Ankara proprio dal mausoleo di Kemal Atatürk — lo aveva fatto, pure lui portando fiori, anche Benedetto XVI —, quasi a significare che il futuro pacifico della Turchia passa da una riconciliazione, non da uno scontro, fra le sue due eredità laica e islamica, e che — per quanto si possa criticare il laicismo del padre dell’attuale Repubblica Turca — il fondamentalismo islamico non è un pericolo meno grave. La critica del fondamentalismo è ritornata nell’incontro del Pontefice con il presidente Erdoğan, durante il quale Papa Francesco ha voluto sottolineare che la Turchia ha pure un’eredità cristiana, più antica dell’islam. La Turchia, ha detto il Pontefice, «[…] è cara ad ogni cristiano per aver dato i natali a san Paolo, che qui fondò diverse comunità cristiane; per aver ospitato i primi sette Concili della Chiesa e per la presenza, vicino ad Efeso, di quella che una venerata tradizione considera la “casa di Maria”, il luogo dove la Madre di Gesù visse per alcuni anni» (5).
Il Papa ha riconosciuto il ruolo della Turchia come potenza regionale«nel concerto delle nazioni» e ha ricordato l’attenzione per la situazione del Paese e il dialogo con i suoi vari dirigenti da parte del beato Paolo VI, di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, «dialogo preparato e favorito a sua volta dall’azione dell’allora Delegato Apostolico [in Turchia] Mons. Angelo Giuseppe Roncalli, poi san Giovanni XXIII [1958-1963]». Il vero dialogo, ha ricordato Francesco, dev’essere un confronto «[…] che approfondisca la conoscenza e valorizzi con discernimento le tante cose che ci accomunano, e al tempo stesso ci permetta di considerare con animo saggio e sereno le differenze, per poter anche da esse trarre insegnamento». Con un accenno implicito alla questione costituzionale il Pontefice ha aggiunto che «è fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani — tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione —, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri. […] La libertà religiosa e la libertà di espressione, efficacemente garantite a tutti, stimoleranno il fiorire dell’amicizia, diventando un eloquente segno di pace». Il riferimento alla «effettiva attuazione» delle leggi non è casuale, perché troppo spesso in Turchia leggi teoricamente avanzate in materia di libertà religiosa non hanno poi trovato concreta applicazione.
Quello che succederà in Turchia sarà cruciale per l’intero Medio Oriente. «La Turchia, per la sua storia, in ragione della sua posizione geografica e a motivo dell’importanza che riveste nella regione, ha una grande responsabilità: le sue scelte e il suo esempio possiedono una speciale valenza». Tutto il Medio Oriente oggi è «[…] teatro di guerre fratricide, che sembrano nascere l’una dal-l’altra, come se l’unica risposta possibile alla guerra e alla violenza dovesse essere sempre nuova guerra e altra violenza». Questa spirale perversa sembra ormai quasi naturale. Ma, ha detto il Papa, «non possiamo rassegnarci alla continuazione dei conflitti come se non fosse possibile un cambiamento in meglio della situazione! Con l’aiuto di Dio, possiamo e dobbiamo sempre rinnovare il coraggio della pace!». Ma, se davvero si vuole la pace, «[…] un contributo importante può venire dal dialogo interreligioso e interculturale, così da bandire ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo, che umilia gravemente la dignità di tutti gli uomini e strumentalizza la religione».
Consapevole della storia di Erdoğan e del suo partito, che nel 2002 hanno cercato di sostituire alla loro matrice ideologica originaria, il fondamentalismo islamico, una nuova forma di islam politico almeno in teoria più «moderata», il Pontefice ha affermato che «occorre contrapporre al fanatismo e al fondamentalismo, alle fobie irrazionali che incoraggiano incomprensioni e discriminazioni, la solidarietà di tutti i credenti, che abbia come pilastri il rispetto della vita umana, della libertà religiosa, che è libertà del culto e libertà di vivere secondo l’etica religiosa, lo sforzo di garantire a tutti il necessario per una vita dignitosa, e la cura dell’ambiente naturale». Attendono questa critica interna dell’islam al fondamentalismo in particolare la Siria e l’Iraq, dove «[…] la violenza terroristica non accenna a placarsi. Si registra la violazione delle più elementari leggi umanitarie nei confronti dei prigionieri e di interi gruppi etnici; si sono verificate e ancora avvengono gravi persecuzioni ai danni di gruppi minoritari, specialmente — ma non solo — i cristiani e gli yazidi: centinaia di migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case e la loro patria per poter salvare la propria vita e rimanere fedeli al proprio credo».
Certo, la Turchia fa la sua parte accogliendo decine di migliaia di profughi, un’opera per cui merita il sostegno della comunità internazionale. Ma nello stesso tempo «[…] non si può rimanere indifferenti di fronte a ciò che ha provocato queste tragedie». Entrando più direttamente nella questione del conflitto con il cosiddetto Califfato, il Pontefice ha voluto «[…] ribadire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto, sempre però nel rispetto del diritto internazionale» e tenendo conto che «[…] non si può affidare la risoluzione del problema alla sola risposta militare». Il riferimento alla «sola» risposta militare lascia intendere che essa è parte della soluzione del problema, che richiede però anche una risposta sul terreno delle idee, atteso che il Califfato recluta miliziani in tutto il mondo, Europa compresa, con il sapiente uso della propaganda, cui si deve trovare modo di rispondere culturalmente e non solo con iniziative di polizia.
Questa prospettiva realistica comprende il dialogo con l’islam non fondamentalista, che va invitato a denunciare con chiarezza e senza ambiguità il Califfato e il terrorismo. È quanto il Papa ha detto al Diyanet, il ministero degli Affari religiosi turco, che già Benedetto XVI aveva visitato nel 2006 e dove ha incontrato numerosi leadermusulmani. A loro ha ribadito che «veramente tragica è la situazione in Medio Oriente, specialmente in Iraq e Siria. Tutti soffrono le conseguenze dei conflitti e la situazione umanitaria è angosciante. Penso a tanti bambini, alle sofferenze di tante mamme, agli anziani, agli sfollati e ai rifugiati, alle violenze di ogni tipo. […] soprattutto a causa di un gruppo estremista e fondamentalista, intere comunità, specialmente — ma non solo — i cristiani e gli yazidi, hanno patito e tuttora soffrono violenze disumane» (6), che hanno aggredito «anche edifici sacri, monumenti, simboli religiosi e il patrimonio culturale, quasi a voler cancellare ogni traccia, ogni memoria dell’altro» (7).
Nel passaggio più forte del discorso Francesco ha affermato che «in qualità di capi religiosi, abbiamo l’obbligo di denunciare tutte le violazioni della dignità e dei diritti umani. La vita umana, dono di Dio Creatore, possiede un carattere sacro. Pertanto, la violenza che cerca una giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l’Onnipotente è Dio della vita e della pace. Da tutti coloro che sostengono di adorarlo, il mondo attende che siano uomini e donne di pace, capaci di vivere come fratelli e sorelle, nonostante le differenze etniche, religiose, culturali o ideologiche» (8).
La denuncia è dunque obbligatoria, anche da parte delle autorità islamiche. Ma non basta. «Alla denuncia occorre far seguire il comune lavoro per trovare adeguate soluzioni» (9). Il dialogo interreligioso non può essere solo teologico ma deve comportare «il comune riconoscimento della sacralità della persona umana» (10), che non può mai essere violata per nessuna ragione. E tradursi in gesti concreti di difesa delle vite umane innocenti, ovunque siano messe in pericolo.
A tale riguardo, Papa Francesco è stato criticato perché avrebbe detto nell’intervista sull’aereo che lo riportava a Roma che «il Corano è un libro di pace» (11). Se però anziché i titoli dei giornali leggiamo la trascrizione dell’intervista scopriamo che non ha detto proprio così, ma che i musulmani dicono che il Corano è un libro di pace e dovrebbero dunque promuoverne l’interpretazione come tale, il che è ovviamente molto diverso: «E tanti islamici sono offesi, tanti, tanti islamici. Dicono: “No, noi non siamo questo. Il Corano è un libro di pace, è un libro profetico di pace. Questo non è islam”» (12).
Dopo la giornata dedicata alle autorità turche, il 29 novembre Papa Francesco ha consacrato il secondo giorno del suo viaggio al dialogo: fra cattolici di diversi riti, fra cattolici e ortodossi, fra cristiani e musulmani. Al di là dei discorsi, di questa giornata restano due immagini forti: il Papa che si raccoglie in preghiera nella Moschea Blu d’Istanbul e che più tardi s’inchina di fronte al Patriarca ortodosso Bartolomeo per ricevere la sua benedizione. Il primo gesto ha un parallelo esatto nella visita di Papa Benedetto XVI alla stessa moschea, il 30 novembre 2006: anch’egli si era fermato a pregare — qualcuno ha voluto distinguere fra pregare e meditare, ma si tratta di peli nell’uovo — per due minuti nello stesso posto, suscitando commenti ammirati e stupiti nella stampa turca e anche qualche controversia fra i cattolici. Quella di Papa Francesco nella Moschea Blu non è dunque una novità, ma s’inserisce in una tradizione di gesti fortemente simbolici di una volontà di dialogo con l’islam — che certo non esclude la fermezza con cui nella giornata precedente il Pontefice aveva condannato le persecuzioni dei cristiani e il terrorismo — che ha numerosi precedenti anche nel pontificato di san Giovanni Paolo II. Quanto al Patriarca, la disponibilità a percorrere strade nuove, anche ardite, per arrivare a una piena riconciliazione con gli ortodossi era stata annunciata da Papa Francesco fin dai primi discorsi del suo ministero petrino.
Se ai musulmani aveva domandato di non avere paura nell’isolare i fondamentalisti e denunciare i terroristi, ai cristiani il Papa chiede di non «[…] fare resistenza allo Spirito Santo» (13) riconciliandosi anzitutto fra loro e intraprendendo la strada del dialogo senza«meccanismi difensivi». La comunità cattolica in Turchia è piccola, ma divisa in tanti riti e patriarcati che non sempre riescono a collaborare pienamente fra loro superando le rispettive particolarità. Nella Messa celebrata nella cattedrale cattolica di Istanbul, dedicata allo Spirito Santo, Francesco è partito proprio dallo Spirito che «è l’anima della Chiesa. Egli dà la vita, suscita i differenti carismi che arricchiscono il popolo di Dio e, soprattutto, crea l’unità tra i credenti: di molti fa un corpo solo, il corpo di Cristo». San Paolo ricorda che «nessuno può dire: “Gesù è Signore!”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo (1 Cor12,3b). Quando noi preghiamo, è perché lo Spirito Santo suscita in noi la preghiera nel cuore. Quando spezziamo il cerchio del nostro egoismo, usciamo da noi stessi e ci accostiamo agli altri per incontrarli, ascoltarli, aiutarli, è lo Spirito di Dio che ci ha spinti. Quando scopriamo in noi una sconosciuta capacità di perdonare, di amare chi non ci vuole bene, è lo Spirito che ci ha afferrati. Quando andiamo oltre le parole di convenienza e ci rivolgiamo ai fratelli con quella tenerezza che riscalda il cuore, siamo stati certamente toccati dallo Spirito Santo».
Lo Spirito Santo non crea una Chiesa uniforme. Il Papa lo ricorda nel Medio Oriente dove, nella stessa Chiesa Cattolica, una storia millenaria ha creato tante giurisdizioni e riti diversi. È lo Spirito Santo che ha suscitato una feconda varietà: «apparentemente, questo sembra creare disordine, ma in realtà, sotto la sua guida, costituisce un’immensa ricchezza, perché lo Spirito Santo è lo Spirito di unità, che non significa uniformità. Solo lo Spirito Santo può suscitare la diversità, la molteplicità e, nello stesso tempo, operare l’unità». Non tutte le diversità sono buone: «quando siamo noi a voler fare la diversità e ci chiudiamo nei nostri particolarismi ed esclusivismi, portiamo la divisione». Né sono buoni tutti i tentativi di creare unità: «[…] quando siamo noi a voler fare l’unità secondo i nostri disegni umani, finiamo per portare l’uniformità e l’omologazione». Lo Spirito invece crea armonia e «[…] ci spinge a vivere la varietà nella comunione della Chiesa». «Lo Spirito Santo fa l’unità della Chiesa: unità nella fede, unità nella carità, unità nella coesione interiore. La Chiesa e le Chiese sono chiamate a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, ponendosi in un atteggiamento di apertura, di docilità e di obbedienza».
Ciò, ha riconosciuto Papa Francesco, è faticoso «[…] in quanto è sempre presente in noi la tentazione di fare resistenza allo Spirito Santo, perché scombussola, perché smuove, fa camminare, spinge la Chiesa ad andare avanti. Ed è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate». La resistenza allo Spirito da una parte si manifesta «[…] con l’arroccamento eccessivo sulle nostre idee, sulle nostre forze — ma così scivoliamo nel pelagianesimo, oppure con un atteggiamento di ambizione e di vanità» che ci spinge a cercare l’unità intorno a ideologie o a progetti umani. Alla fine, entrambi gli atteggiamenti derivano da una mancanza di quell’umiltà che s’impara guardando all’esempio della Vergine Maria.
Non è la prima volta che Papa Francesco usa l’espressione «pelagianesimo», che è stata criticata sul piano storico quanto alla precisione del riferimento a Pelagio (354-420), un monaco irlandese vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo e combattuto da sant’Agostino (354-430) per le sue idee secondo cui l’uomo potrebbe maturare un «diritto» alla salvezza con le sole forze umane, così che la grazia almeno per alcuni diventerebbe superflua. Del resto, su che cosa veramente insegnasse Pelagio non mancano le controversie fra gli storici. Al di là del contesto storico, Papa Francesco usa il termine in un senso che viene da testi del cardinale Joseph Ratzinger, il quale — sulla scia di osservazioni del filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997) — distingueva in suoi scritti degli anni 1980 fra i «pelagiani borghesi-liberali» (14), cioè in sostanza i «progressisti» postconciliari che riducevano il cristianesimo a un umanesimo, e i «pelagiani […] pii»(15), che al contrario pensavano di salvarsi con una rigida adesione alle regole e una ossessiva «ricerca di sicurezza» (16) chiusa a ogni novità.
Sono i «pelagiani pii» l’oggetto delle critiche di Francesco. Si può certo discutere sul riferimento storico, cercando però anzitutto di comprendere quale insegnamento il Papa intenda trasmetterci attraverso il riferimento, più o meno storicamente accurato. La critica — simmetrica rispetto a quella rivolta a chi cerca di costruire la Chiesa intorno a progetti umani e ideologici — si riferisce a chi, di fronte agli inviti del Magistero a percorrere la strada di un dialogo coraggioso e difficile, preferisce la sicurezza di un «arroccamento» su «posizioni statiche». Papa Francesco parlava nel contesto di un dialogo fra Chiese orientali e con gli ortodossi e, come ha poi spiegato nell’intervista in aereo, parlava di atteggiamenti anche degli ortodossi e non solo dei cattolici; ma l’insegnamento vale certo anche in altri contesti. Il Patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo, era presente alla Messa nella cattedrale cattolica e il Papa gli ha reso visita in serata nella sua sede, il Fanar, affermando che «[…] la sera porta sempre con sé un sentimento misto di gratitudine per il giorno vissuto e di trepidante affidamento di fronte alla notte che scende» (17). La speranza di una riconciliazione fra cattolici e ortodossi «[…] è oltre, non è in noi, non è nel nostro impegno e nei nostri sforzi, che pure doverosamente ci sono, ma è nel comune affidamento alla fedeltà di Dio, che pone il fondamento per la ricostruzione del suo tempio che è la Chiesa» (18).
La visita è caduta nella vigilia della festa di sant’Andrea, che il Patriarcato ortodosso di Costantinopoli considera suo fondatore. Andrea e Pietro, ha detto il Papa, «erano fratelli di sangue, ma l’incontro con Cristo li ha trasformati in fratelli nella fede e nella carità. E in questa sera gioiosa, in questa preghiera vigiliare vorrei dire soprattutto: fratelli nella speranza — e la speranza non delude!» (19). Non delude«[…] perché è fondata non su di noi e sulle nostre povere forze, ma sulla fedeltà di Dio» (20). Di qui la «trepidante attesa» (21), come il Pontefice l’ha chiamata, di sviluppi finora considerati impossibili nel cammino di riconciliazione con una parte almeno della Chiesa Ortodossa. Ma nulla è impossibile a Dio.
Domenica 30 novembre Papa Francesco ha messo al centro il motivo principale della visita pastorale: fare un passo in avanti, auspicabilmente decisivo, nel cammino della piena riconciliazione con le Chiese ortodosse, o almeno — e più realisticamente — con una parte di esse. Partecipando alla Divina Liturgia nella chiesa patriarcale di San Giorgio, ha indicato senza mezzi termini l’obiettivo: «il ristabilimento della piena comunione» (22) fra cattolici e ortodossi. Ma come procedere, perché il sogno diventi realtà? Il Pontefice ha indicato quattro dimensioni dell’ecumenismo: i gesti, la teologia, la cultura e il martirio.
Papa Francesco ha rivendicato anzitutto l’importanza dei gesti, perché il dialogo è «sempre un incontro tra persone con un nome, un volto, una storia, e non soltanto un confronto di idee» (23). Sant’Andrea, così importante per gli ortodossi, ne fornisce un esempio eloquente. «Egli, dopo avere seguito Gesù là dove abitava ed essersi intrattenuto con Lui, “incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: ‘Abbiamo trovato il Messia’ — che si traduce Cristo — e lo condusse da Gesù”»(24). L’ecumenismo dei gesti è legittimo e utile, ma non basta. Come insegna il decreto Unitatis redintegratio del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), di cui pure ricorre il cinquantenario, per condurre a risultati il dialogo deve procedere anche sul piano teologico. L’ecumenismo dei gesti favorisce l’ecumenismo teologico, ma non lo sostituisce. Il decreto Unitatis redintegratio ricordava quello che per i cattolici è ovvio, cioè che le Chiese ortodosse «[…] hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli» (25).
Ma il Pontefice ha voluto sottolineare un altro aspetto, pure presente nel decreto conciliare: «[…] per condurre a termine la riconciliazione dei cristiani di oriente e occidente è di somma importanza conservare e sostenere il ricchissimo patrimonio delle Chiese d’Oriente, non solo per quello che riguarda le tradizioni liturgiche e spirituali, ma anche le discipline canoniche, sancite dai santi padri e dai concili, che regolano la vita di tali Chiese» (26). Dunque «ristabilimento della piena comunione» (27) non significa negazione dell’identità specifica delle Chiese ortodosse orientali, «[…] non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno per manifestare al mondo intero il grande mistero della salvezza realizzato da Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo» (28). Il Papa assicura che «[…] per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e della esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze: l’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma, “la Chiesa che presiede nella carità”, è la comunione con le Chiese ortodosse» (29).
Si tratta di un passaggio importante. Roma non vuole assorbire le Chiese ortodosse né uniformarle a sé, ma nello stesso tempo richiede agli ortodossi di riconoscere che la Chiesa di Roma e il suo vescovo per mandato divino «presiedono nella carità» rispetto a tutte le altre Chiese. Le parole di Papa Francesco sono molto forti, ma hanno una storia. Dopo il decreto Unitatis redintegratio è venuta l’enciclica di san Giovanni Paolo II Ut unum sint dove Papa Wojtyla dichiarava di sentirsi impegnato a «[…] trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» (30). Sono parole ricordate più volte da Papa Francesco, il quale nel discorso di Istanbul ha parafrasato anche una formula cara a Benedetto XVI, secondo cui in tema di primato del vescovo di Roma agli ortodossi non si deve chiedere nulla di più — e anche nulla di meno — di quanto le Chiese orientali accettavano nel primo millennio, prima della separazione.
Papa Francesco ha voluto ricordare altre due dimensioni del cammino di riconciliazione, quella culturale e quella del sangue. «Nel mondo d’oggi — ha detto — si levano con forza voci che non possiamo non sentire» (31) e che chiedono alle Chiese cristiane di essere unite. La prima voce è quella dei poveri, che soffrono per «[…] l’aumento dell’esclusione sociale, che può indurre ad attività criminali e perfino al reclutamento dei terroristi» e nei confronti dei quali il solo «aiuto materiale», per quanto necessario, non è sufficiente. «Una seconda voce che grida forte è quella delle vittime dei conflitti in tante parti del mondo. Questa voce la sentiamo risuonare molto bene da qui, perché alcune nazioni vicine sono segnate da una guerra atroce e disumana». Ricordando il brutale attentato del 28 novembre 2014 che ha colpito una moschea a Kano, in Nigeria, il Pontefice ha affermato che «turbare la pace di un popolo, commettere o consentire ogni genere di violenza, specialmente su persone deboli e indifese, è un peccato gravissimo contro Dio, perché significa non rispettare l’immagine di Dio che è nell’uomo». Dunque, anche «la voce delle vittime dei conflitti ci spinge a procedere speditamente nel cammino di riconciliazione e di comunione tra i cattolici ed ortodossi. Del resto, come possiamo annunciare credibilmente il Vangelo di pace che viene dal Cristo, se tra noi continuano ad esistere rivalità e contese?». La terza voce è quella dei giovani «[…] che vivono senza speranza, vinti dalla sfiducia e dalla rassegnazione. Molti giovani, poi, influenzati dalla cultura dominante, cercano la gioia soltanto nel possedere beni materiali e nel soddisfare le emozioni del momento». Nello stesso tempo, vi sono molti giovani cattolici e ortodossi «[…] che oggi ci sollecitano a fare passi in avanti verso la piena comunione».
La quarta dimensione dell’ecumenismo, che Papa Francesco ha più volte ricordato, è quella della sofferenza del sangue e della comune«testimonianza del martirio» (32), che cattolici e ortodossi offrono insieme in molte parti del mondo e particolarmente in Medio Oriente. Nella dichiarazione congiunta che ha concluso il loro incontro, il Pontefice e il Patriarca si appellano «[…] a tutti coloro che hanno la responsabilità del destino dei popoli affinché intensifichino il loro impegno per le comunità che soffrono e consentano loro, comprese quelle cristiane, di rimanere nella loro terra natia. Non possiamo rassegnarci a un Medio Oriente senza i cristiani, che lì hanno professato il nome di Gesù per duemila anni. Molti nostri fratelli e sorelle — constata la dichiarazione — sono perseguitati e sono stati costretti con la violenza a lasciare le loro case. Sembra addirittura che si sia perduto il valore della vita umana e che la persona umana non abbia più importanza e possa essere sacrificata ad altri interessi. E tutto questo, tragicamente, incontra l’indifferenza di molti» (33). All’indifferenza il Pontefice ha voluto rispondere anche incontrando, prima di lasciare la Turchia, un centinaio di bambini e giovani profughi dall’Iraq e dalla Siria, cristiani e musulmani, assistiti dai salesiani e dalla Caritas, di fronte ai quali ha chiesto maggiore «convergenza internazionale» (34) rispetto a situazioni «intollerabili» (35) dal punto di vista umanitario e dei diritti umani.
In Medio Oriente e altrove, continua la dichiarazione congiunta del Papa e del Patriarca, «c’è anche un ecumenismo della sofferenza. Come il sangue dei martiri è stato seme di forza e di fertilità per la Chiesa, così anche la condivisione delle sofferenze quotidiane può essere uno strumento efficace di unità» (36). Anche la proposta di un«dialogo costruttivo con l’islam» (37) e l’appello rivolto in Ucraina «alle parti coinvolte nel conflitto a ricercare il cammino del dialogo e del rispetto del diritto internazionale» (38) appariranno più credibili se saranno accompagnati da segni di progresso nel cammino dell’unità fra cattolici e ortodossi.
Il Papa sa bene che, proprio ora che la meta della riconciliazione fra cattolici e ortodossi appare più vicina, si manifestano ostacoli e resistenze. Nonostante gli sforzi di Papa Francesco — e l’uso più frequente, fin dall’inizio del pontificato, dell’espressione «vescovo di Roma», più gradita alle Chiese ortodosse, rispetto a «Papa» o «Pontefice» — la riconciliazione con tutti gli ortodossi sembra ancora un obiettivo lontano e difficile. Ma la riconciliazione con alcuni ortodossi è possibile. E il Papa spera che questo viaggio in Turchia sarà in futuro ricordato come un momento decisivo del cammino.
3. Il 13 gennaio 2015 Papa Francesco ha iniziato la sua visita apostolica nello Sri Lanka: una visita, ha detto durante la cerimonia di benvenuto all’aero-porto della capitale Colombo, «anzitutto pastorale» (39), di cui ha indicato tre scopi: «[…] incontrare ed incoraggiare i cattolici di quest’Isola»; celebrare solennemente la canonizzazione del padre oratoriano Joseph Vaz (1651-1711), che ricostruì la Chiesa Cattolica nel Paese resistendo alle persecuzioni degli olandesi calvinisti; e testimoniare il messaggio di riconciliazione della Chiesa Cattolica annunciandolo in un Paese dove comunità religiose sono state «in guerra tra di loro» per molti anni.
Per comprendere il messaggio di Papa Francesco è necessario un rapido cenno storico. Per ben ventisei anni, dal 1983 al 2009, il Paese è stato teatro di quelli che il Pontefice ha chiamato «gli orrori dello scontro civile», dovuti a «tensioni etniche e religiose» e a una persistente «incapacità di riconciliare le diversità e le discordie». Lo Sri Lanka, in effetti, è un esempio quasi da manuale di conflitto religioso. Certo, non esistono guerre religiose «pure» e occorre sempre tener conto di fattori etnici, economici e politici, ma gli studi accademici più autorevoli della guerra civile sono d’accordo nel ritenere centrale il fattore religioso.
Il buddhismo è una religione nata in India, ma musulmani e induisti l’hanno perseguitata e quasi totalmente spazzata via dalla penisola indiana. All’inizio del secolo XX gli studiosi inglesi potevano descrivere il buddhismo come pressoché estinto in India. Un’attività missionaria da parte di organizzazioni buddhiste, che negli anni 1950 hanno convertito soprattutto un certo numero di «fuori casta» con una predicazione incentrata sulla critica dell’induismo come fonte delle ingiustizie legate al sistema delle caste, ha ricostruito una presenza della religione del Buddha in India. Tuttavia, i buddhisti non superano oggi lo 0,7 per cento della popolazione indiana. Cacciati dall’India, i buddhisti si sono rifugiati a Ceylon, l’attuale Sri Lanka, che è diventato nel secolo XIX un baluardo e un simbolo del buddhismo mondiale, grazie anche agli sforzi di occidentali filo-buddhisti, fra cui il colonnello americano Henry Steel Olcott (1832-1907), uno dei fondatori della Società Teosofica. Nello stesso tempo, l’immigrazione dall’India per ragioni economiche rafforzava la presenza di induisti di etnia Tamil, da sempre maggioritari nel Nord e nell’Est dell’isola.
Con l’indipendenza del 1948 la maggioranza buddhista ha percepito come prima minaccia per il nuovo Stato le mire annessionistiche dell’India, un Paese molto più grande dove fra l’altro vivono quarantacinque milioni di Tamil, affini per lingua e religione alla minoranza induista Tamil che costituisce il 12 per cento della popolazione dell’isola. Di qui diverse misure intese a rafforzare l’identità buddhista dello Sri Lanka, con conseguente risentimento della minoranza induista che si percepiva come discriminata. Una serie d’incidenti ha fatto scoppiare nel 1983 una delle più lunghe e sanguinose guerre civili asiatiche, scatenata dalle cosiddette Tigri Tamil. Le Tigri chiedevano la secessione e la nascita di uno Stato induista indipendente nel Nord dell’isola. Il conflitto ha fatto secondo alcuni studi circa centomila morti, prima di concludersi con la vittoria delle truppe del governo centrale ampiamente controllato dai buddhisti.
Nello Sri Lanka, peraltro, non vi sono soltanto buddhisti e induisti. Com-mercio ed emigrazione hanno portato dall’India poco meno di due milioni di musulmani. In gran parte residenti nella zona controllata dalle Tigri Tamil, sono stati spesso uccisi o cacciati dalle loro case in nome di una feroce pulizia religiosa che avrebbe dovuto lasciare soltanto induisti nella zona destinata a diventare l’ipotetico Stato Tamil. Lo stesso è capitato ai cristiani — un milione e due-centomila cattolici e poco meno di trecentomila protestanti —, che sono stati attaccati e discriminati, in varie fasi della guerra civile, sia dagli induisti sia dai buddhisti, tanto più che denunciavano con coraggio le violazioni dei diritti uma-ni e le atrocità perpetrate dagli uni e dagli altri.
Un caso da manuale, si diceva, di conflitto religioso, che smentisce facili buonismi secondo cui quelle dell’Estremo Oriente sarebbero sempre e solo «religioni di pace». Il Papa ha chiesto di non nascondere le persecuzioni e le atrocità: uscire davvero dalla guerra civile implica«[…] il perseguimento della verità, non con lo scopo di aprire vecchie ferite, ma piuttosto quale mezzo necessario per promuovere la loro guarigione». La Chiesa, come in tanti altri conflitti, non si limita a celebrare i suoi martiri e a rivendicare la libertà religiosa per i cattolici: la chiede per tutti, ha spiegato il Papa, e a tutti chiede dopo la fine della guerra civile «[…] di consolidare la pace e di curare le ferite di quegli anni. Non è un compito facile quello di superare l’amara eredità di ingiustizie, ostilità e diffidenze lasciata dal conflitto. Si può realizzare soltanto superando il male con il bene». La tragedia dello Sri Lanka mostra che il dialogo interreligioso è l’unica strada per la pace. I seguaci delle varie religioni «[…] devono essere pronti ad accettarsi l’un l’altro, a rispettare le legittime diversità ed imparare a vivere come un’unica famiglia».
Al Centro Congressi Bandaranaike Memorial Papa Francesco ha riunito i rappresentati delle quattro religioni dell’isola: buddhisti, induisti, cristiani e musulmani, in un incontro dal significato storico considerando il tormentato passato dello Sri Lanka. «Nel Concilio Vaticano II — ha ricordato — la Chiesa Cattolica ha dichiarato il proprio rispetto profondo e duraturo per le altre religioni. Ha dichiarato che “nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto [quei] modi di agire e di vivere, [quei] precetti e [quelle] dottrine” (Nostra aetate, 2)» (40). La parola«rispetto», ha spiegato il Pontefice, è fondamentale per capire il vero atteggiamento della Chiesa nei confronti del dialogo con le altre religioni. Sarebbe sbagliato pensare che il rispetto implichi una sorta di confusione fra le diverse posizioni e religioni. Al contrario, perché il«[…] dialogo ed incontro sia efficace, deve fondarsi su una presentazione piena e schietta delle nostre rispettive convinzioni. Certamente tale dialogo farà risaltare quanto siano diverse le nostre credenze, tradizioni e pratiche». Proprio e solo «[…] se siamo onesti nel presentare le nostre convinzioni, saremo in grado di vedere più chiaramente quanto abbiamo in comune».
Occorre pure che ogni religione condanni le violenze che sono state e continuano a essere commesse nel suo nome. Papa Francesco lo ha detto ai musulmani in Turchia, lo ripete agli induisti e ai buddhisti nello Sri Lanka. «Per il bene della pace, non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra. Dobbiamo essere chiari e non equivoci nell’invitare le nostre comunità a vivere pienamente i precetti di pace e convivenza presenti in ciascuna religione e denunciare gli atti di violenza quando vengono commessi».
La storia recente dello Sri Lanka mostra come il dialogo interreligioso, rettamente inteso, abbia «un significato particolare ed urgente», perché senza di esso restano solo la lotta civile e la violenza. Ma, ha detto il Pontefice, curate che il dialogo non vi faccia perdere l’identità. Le persone che veramente dialogano «[…] non devono dimenticare la propria identità, sia essa etnica o religiosa». Solo così una nazione distrutta dalla guerra civile potrà «[…] ricostruire le fondamenta morali dell’intera società».
La seconda giornata nello Sri Lanka, il 14 gennaio, ha avuto al suo centro la canonizzazione di san Giuseppe Vaz, della Congregazione dell’Oratorio. La cerimonia è stata occasione di un forte invito a riscoprire la dimensione missionaria della Chiesa e a difendere la libertà religiosa, diritto fondamentale e inalienabile e oggi minacciato non meno che ai tempi del santo. Il Papa ha voluto testimoniarlo anche recandosi al remoto santuario di Nostra Signora di Madhu, simbolo della resistenza cattolica alle persecuzioni. Vaz decise di recarsi missionario dall’India nello Sri Lanka, allora sotto il dominio calvinista olandese e dove chi predicava la fede cattolica rischiava la pena di morte. Inseguito dai calvinisti, si rifugiò presso il re di Kandy, un territorio che aveva resistito alla conquista olandese. Il re era buddhista, ma onorò e offrì la sua protezione al grande missionario oratoriano. Buddhisti che proteggono un santo cattolico dalla persecuzione protestante: una storia che mostra davvero che le vie del dialogo interreligioso, come quelle del conflitto e della persecuzione, sono infinite.
Nell’omelia per la canonizzazione a Colombo, la capitale dello Sri Lanka, Papa Francesco ha anzitutto rivendicato il carattere essenziale della missione ad gentes nella Chiesa, che oggi qualcuno mette in dubbio. La Chiesa, ha detto il Pontefice, ha ricevuto il «[…] comando del Signore risorto di fare discepoli tutti i popoli» (41) e san Giuseppe Vaz ha fatto quello che un missionario deve fare: «[…] ha condotto il popolo di questo Paese alla fede che ci concede “l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati” (At 20,32)». Nell’instancabile operosità missionaria del nuovo santo tutti dovremmo trovare «uno stimolo» alla missione.
«Lasciandosi dietro la sua casa, la sua famiglia, il conforto dei suoi luoghi familiari», il santo oratoriano «[…] rispose alla chiamata di partire, di parlare di Cristo dovunque si recasse. San Giuseppe sapeva come offrire la verità e la bellezza del Vangelo in un contesto multi-religioso, con rispetto, dedizione, perseveranza e umiltà». È la strada anche per noi, che ormai viviamo ovunque in un contesto multi-religioso. Una strada che chiede da una parte «sensibilità» e «rispetto»per gli altri, dall’altra «coraggio» per proclamare la verità del Vangelo anche quando il mondo non vuole sentirla. Quando il mondo non vuole ascoltare il Vangelo, non risponde solo con l’indifferenza. Spesso la risposta è la violenza. Il Pontefice ha ricordato gli sforzi di san Giuseppe Vaz nella tempesta della persecuzione. «A causa della persecuzione religiosa in atto, si vestiva come un mendicante, adempiva ai suoi doveri sacerdotali incontrando in segreto i fedeli, spesso di notte. I suoi sforzi hanno dato forza spirituale e morale alla popolazione cattolica assediata». E fu soprattutto il suo zelo per i malati durante l’epidemia di vaiolo a impressionare il re di Kandy.
Le avventure del santo, che talora si leggono come un romanzo, non devono farci dimenticare che egli voleva essere anzitutto sacerdote, e«sacerdote esemplare». I suoi tempi ci sembrano lontani, eppure hanno tanto in comune con i nostri. «Come noi, egli è vissuto in un periodo di rapida e profonda trasformazione; i cattolici erano una minoranza e spesso divisa all’interno; si verificavano ostilità, perfino persecuzioni, all’esterno». Ma proprio perché viveva integralmente il suo sacerdozio, «[…] costantemente unito nella preghiera al Signore crocifisso, fu in grado di diventare per tutta la popolazione un’icona vivente dell’amore misericordioso e riconciliante di Dio».
San Giuseppe Vaz ha affrontato il conflitto e la persecuzione, realtà che vi sono ancora oggi. Lo ha affrontato da cattolico, offrendo — in particolare durante la terribile epidemia di vaiolo — «[…] il suo ministero ai bisognosi, chiunque e dovunque essi fossero. Il suo esempio continua oggi ad ispirare la Chiesa in Sri Lanka. Essa volentieri e generosamente serve tutti i membri della società. Non fa distinzione di razza, credo, appartenenza tribale, condizione sociale o religione nel servizio che provvede attraverso le sue scuole, ospedali, cliniche e molte altre opere di carità».
Ma questo servizio presuppone che alla Chiesa sia riconosciuta «[…] la libertà di portare avanti la sua missione. La libertà religiosa è un diritto umano fondamentale. Ogni individuo dev’essere libero, da solo o associato ad altri, di cercare la verità, di esprimere apertamente le sue convinzioni religiose, libero da intimidazioni e da costrizioni esterne». La vita di san Giuseppe Vaz ci insegna che la libertà religiosa è un diritto inalienabile, e anche — il tema è di attualità — che «[…]l’autentica adorazione di Dio porta non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà degli altri e all’amorevole impegno per il benessere di tutti».
4. Dopo lo Sri Lanka, il 16 gennaio Papa Francesco ha iniziato la sua visita apostolica nelle Filippine. La sua prima giornata è stata dedicata alle famiglie, chiamate alla solidarietà verso i poveri, cuore del Vangelo, ma anche a difendersi contro l’attacco «sempre più» (42) aggressivo di «[…] forze potenti che minacciano di sfigurare il piano creativo di Dio e di tradire i veri valori» (43), ispirandosi a«colonizzazioni ideologiche che cercano di distruggere la famiglia» (44) e di «ridefinire la stessa istituzione del matrimonio» (45).
Nella cerimonia di benvenuto il Pontefice ha ricordato che le Filippine si preparano a festeggiare il quinto centenario della loro evangelizzazione e che «il messaggio cristiano ha avuto un immenso influsso sulla cultura filippina» (46). La Chiesa — era un tema caro a Papa Benedetto XVI — forma le nazioni e continua a costituire la loro coscienza morale. Di questa «ricca eredità culturale e religiosa» una nazione non deve scusarsi: ne deve, al contrario, andare «fiera». In occasione del tifone Yolanda, il più violento tifone dell’intera storia umana, il mondo ha potuto vedere come le tradizionali capacità di mobilitazione comunitaria del popolo filippino, «[…] radicate non da ultimo nella speranza e nella solidarietà istillate dalla fede cristiana, hanno dato origine ad una profusione di bontà e generosità, specialmente da parte di tanti giovani. In quel momento di crisi nazionale, innumerevoli persone sono venute in aiuto dei loro vicini bisognosi. Con grande sacrificio hanno offerto il loro tempo e le loro risorse, creando una rete di mutuo soccorso e di impegno per il bene comune». È stata «[…] una lezione importante. Come una famiglia, ogni società attinge dalle sue più profonde risorse per far fronte a nuove sfide». Nelle Filippine si parla molto di modernizzazione e di diritti umani: ma questi diritti sono«fondati su Dio» e ogni rinnovamento non può prescindere dall’identità cattolica del Paese.
Ed è solo sulla base di una «conversione della mente e del cuore» che sarà possibile obbedire all’«[…] imperativo morale di assicurare la giustizia sociale e il rispetto della dignità umana», di «[…] ascoltare la voce dei poveri e di spezzare le catene dell’ingiustizia e dell’oppressione, che danno origine a palesi e scandalose disuguaglianze sociali». I vescovi filippini hanno proclamato un Anno dei Poveri. Il Papa ricorda, fra le cause della povertà, la corruzione politica e il disprezzo del ruolo della famiglia. «Le famiglie hanno un’indispensabile missione nella società. È nella famiglia che i bambini vengono cresciuti nei valori sani, negli alti ideali e nella sincera attenzione agli altri. Ma come tutti i doni di Dio, la famiglia può anche essere sfigurata e distrutta. Essa ha bisogno del nostro appoggio». Non ci sarà vero «sviluppo umano integrale» senza «il rispetto per l’inviolabile dignità di ogni persona umana, il rispetto dei diritti di libertà di coscienza e di religione, il rispetto per l’inalienabile diritto alla vita, a partire da quella dei bimbi non ancora nati fino quella degli anziani e dei malati».
Nella Messa nella cattedrale di Manila con vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, il Pontefice ha ricordato che ogni persona consacrata, ogni sacerdote è chiamato, «[…] in qualche modo, ad essere l’amore nel cuore della Chiesa» (47), secondo l’espressione della carmelitana santa Teresa di Gesù Bambino (1873-1897), «l’amore di Cristo infatti ci possiede» (2 Cor. 5,14). Sappiamo che «il Vangelo può ispirare la costruzione di un ordine sociale veramente giusto e redento». Ma questo avverrà solo a partire da tanti incontri personali, solo se ogni sacerdote o persona consacrata, come «ambasciatore di Cristo» saprà davvero «[…] invitare ogni persona ad un rinnovato incontro con il Signore Gesù». Senza mai dimenticare che il Vangelo è «anche un appello alla conversione, ad un esame della nostra coscienza, come individui e come popolo». Il Pontefice è tornato sui temi della corruzione politica e dell’ingiustizia sociale, ricordando che «i poveri sono al centro del Vangelo, sono al cuore del Vangelo; se togliamo i poveri dal Vangelo non possiamo capire pienamente il messaggio di Gesù Cristo».
Papa Francesco è ritornato anche sul tema a lui caro della mondanità spirituale, cioè dell’agire in una prospettiva meramente umana e non spirituale e cristiana, che contagia anche il clero e i religiosi. «Come possiamo proclamare la novità e il potere liberante della Croce agli altri, se proprio noi non permettiamo alla Parola di Dio di scuotere il nostro orgoglio, la nostra paura di cambiare, i nostri meschini compromessi con la mentalità di questo mondo, la nostra mondanità spirituale?». Combattere la mondanità spirituale non esclude combattere anche la mondanità materiale, cioè l’attaccamento ai beni di questo mondo. È vero anche per i religiosi e i sacerdoti che «[…] un certo materialismo […] può insinuarsi nella nostra vita e compromettere la testimonianza che offriamo. Solo diventando noi stessi poveri, eliminando il nostro autocompiacimento, potremo identificarci con gli ultimi tra i nostri fratelli e sorelle».
Soprattutto i giovani sacerdoti devono essere vicini ai loro coetanei, che spesso, «[…] vivendo in mezzo ad una società appesantita dalla povertà e dalla corruzione, sono scoraggiati, tentati di mollare tutto, di lasciare la scuola e di vivere per la strada». Ma il Papa chiede anche di essere consapevoli e reattivi di fronte agli attacchi in corso contro la famiglia: «Proclamate la bellezza e la verità del matrimonio cristiano ad una società che è tentata da modi confusi di vedere la sessualità, il matrimonio e la famiglia. Come sapete queste realtà sono sempre più sotto l’attacco di forze potenti che minacciano di sfigurare il piano creativo di Dio e di tradire i veri valori che hanno ispirato e dato forma a quanto di bello c’è nella vostra cultura». E la prima arma che il Pontefice indica per reagire è la fedeltà, tradizionale nelle Filippine, alla «Madonna e al suo Rosario».
Sono concetti ribaditi nell’incontro con le famiglie al Palazzo dello Sport di Manila. Qui il Papa è partito dal sogno di san Giuseppe, dove il santo incontra un angelo, confidando: «Amo molto San Giuseppe, perché è un uomo forte e silenzioso. Nel mio tavolo ho un’immagine di San Giuseppe che dorme. E mentre dorme si prende cura della Chiesa. Sì! Può farlo. Lo sappiamo. Quando ho un problema, una difficoltà io scrivo un foglietto e lo metto sotto San Giuseppe, perché lo sogni!». Papa Francesco ha ricordato che «tutte le mamme e tutti i papà sognarono il loro figlio per nove mesi. È vero o no? Sognare come sarà il figlio. Non è possibile una famiglia senza un sogno. Quando in una famiglia si perde la capacità di sognare, i bambini non crescono e l’amore non cresce, la vita si affievolisce e si spegne».
«Non perdete questa capacità di sognare!
«E quante difficoltà nella vita dei coniugi si risolvono se noi conserviamo uno spazio per il sogno, se ci fermiamo a pensare al coniuge, e sogniamo la bontà che hanno le cose buone».
Nella frenesia che oggi caratterizza il nostro rapporto con il tempo, il sogno e il sonno corrispondono anche a un necessario momento di«riposo nel Signore». «Il riposo è necessario per la salute della nostra mente e del nostro corpo, eppure è spesso così difficile da raggiungere, a causa alle numerose esigenze che pesano su di noi. Il riposo è anche essenziale per la nostra salute spirituale, affinché possiamo ascoltare la voce di Dio e comprendere quello che ci chiede».Bisogna anche «[…] trovare il tempo ogni giorno […] per pregare». È vero, abbiamo sempre da fare «[…] ma se noi non preghiamo non conosceremo mai la cosa più importante di tutte: la volontà di Dio per noi. Inoltre, pur con tutta la nostra attività, con le nostre mille occupazioni, senza la preghiera concluderemo davvero poco».
La preghiera è il centro della famiglia: «Quando la famiglia prega insieme, rimane insieme». «Proprio come il dono della Santa Famiglia fu affidato a san Giuseppe, così il dono della famiglia e il suo posto nel piano di Dio viene affidato a noi». A san Giuseppe l’angelo rivelò in sogno la minaccia di Erode. Oggi «[…] Dio ci chiama a riconoscere i pericoli che minacciano le nostre famiglie e a proteggerle dal male.
«Stiamo attenti alle nuove colonizzazioni ideologiche. Esistono colonizzazioni ideologiche che cercano di distruggere la famiglia». Non vengono da Dio, «[…] vengono da fuori e per questo dico che sono colonizzazioni». Così, «[…] come famiglie dobbiamo essere molto molto sagaci, molto abili, molto forti, per dire “no” a qualsiasi tentativo di colonizzazione ideologica della famiglia».
I nemici della famiglia sono molti. La povertà spesso aumenta i rischi di essere «[…] catturati dal materialismo e da stili di vita che annullano la vita familiare e le più fondamentali esigenze della morale cristiana. Queste sono le ideologie colonizzatrici. La famiglia è anche minacciata dai crescenti tentativi da parte di alcuni per ridefinire la stessa istituzione del matrimonio mediante il relativismo, la cultura dell’effimero, una mancanza di apertura alla vita». Papa Francesco ha evocato il beato Paolo VI che nella sua enciclica Humanae vitae — pure tanto «misericordiosa» nelle raccomandazioni ai confessori per i «casi particolari» — da buon pastore «[…] mise in guardia le sue pecore sui lupi in arrivo» ed «[…] ebbe il coraggio di difendere l’apertura alla vita della famiglia». Ha evocato san Giovanni Paolo II e la sua esortazione apostolica Familiaris consortio, che ci hanno insegnato che «ogni minaccia alla famiglia è una minaccia alla società stessa» e che la famiglia si difende anche «[…] proclamando la sacralità di ogni vita umana dal concepimento fino alla morte naturale».
«Quando le famiglie mettono al mondo i bambini, li educano alla fede e ai sani valori e insegnano loro a contribuire al bene della società, diventano una benedizione per il mondo». Nell’Anno dei Poveri proclamato nelle Filippine il Papa ha esortato le famiglie a portare ai bisognosi non solo il pane ma anche la fede, senza nasconderla.«Potreste essere voi stessi poveri in senso materiale, ma avete un’abbondanza di doni da offrire quando offrite Cristo e la comunità della sua Chiesa. Non nascondete la vostra fede, non nascondete Gesù, ma portatelo nel mondo e offrite la testimonianza della vostra vita familiare!».
Nei primi giorni del mese di novembre 2013 sulle Filippine si è abbattuto il tifone Yolanda. I morti «ufficiali» sono stati 6.300 — per un paragone, più delle vittime dell’11 settembre 2001 —, ma a distanza di oltre un anno si continuano a trovare corpi. Il 17 gennaio il Papa ha visitato due delle località più colpite: Tacloban, dove ha celebrato la Messa, e Palo, nell’isola di Leyte, dove ha incontrato il clero e i religiosi.
Dopo le parole forti che hanno fatto il giro del mondo sugli attentati di Parigi e sulla famiglia, la giornata dedicata al tifone ha portato una meditazione di carattere più propriamente spirituale sul significato delle catastrofi e delle tragedie. Si tratta di un tema su cui si era già interrogato Benedetto XVI, che il 22 aprile 2011 aveva risposto in televisione alla domanda di una bambina giapponese sul significato del terremoto dove erano morte diverse sue compagne. E aveva detto:«Cara Elena, […]. Anche a me vengono le stesse domande: perché è così? Perché voi dovete soffrire tanto, mentre altri vivono in comodità? E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte. […] Ed essere consapevoli che, un giorno, io capirò che questa sofferenza non era vuota, non era invano, ma che dietro di essa c’è un progetto buono, un progetto di amore» (48). Mantenendo la linea di Benedetto XVI, Papa Francesco non ha offerto risposte sul perché della tragedia che ha colpito le Filippine, ma si è soffermato su un suo effetto: di fronte alla tragedia si svelano i segreti dei cuori, emergono il bene e il male che sono nel cuore dell’uomo. E forse questo è parte del suo misterioso significato.
I filippini comuni, i cattolici, la Chiesa hanno risposto al tifone con tanta solidarietà e talora con eroismo. «Qui — ha detto il Papa nell’omelia a Tacloban — la tempesta più forte mai registrata sul pianeta è stata vinta dalla forza più potente dell’universo: l’amore di Dio. Siamo qui questa mattina per dare testimonianza di quell’amore, del suo potere di trasformare morte e distruzione in vita e comunione»(49). L’aveva detto Benedetto XVI: non capiamo molte cose, ma capiamo l’essenziale guardando al Signore. «La risurrezione di Cristo — ripete Francesco — […] è la nostra speranza, è una realtà di cui facciamo esperienza anche ora. E sappiamo che la risurrezione avviene soltanto dopo la croce».
Il Pontefice ha richiamato l’importanza nella Chiesa della preghiera di suffragio per i defunti, che contiene tante verità della nostra fede e che nello stesso tempo consola. «Il nostro dolore è un seme che un giorno sboccerà nella gioia che il Signore ha promesso a quanti hanno creduto alle sue parole: “Beati voi afflitti, perché sarete consolati”». Chi prega anche dopo una tragedia non si ribella a Dio, ma — con una logica che il mondo non comprende — lo ringrazia. «Si sono perdute tante vite, c’è stata tanta sofferenza e distruzione. E tuttavia siamo ancora in grado di radunarci e di ringraziarlo. Sappiamo che Egli si prende cura di noi; sappiamo che in Gesù, Figlio suo, abbiamo un sommo sacerdote in grado di compatire il nostro dolore». La fede ce lo rivela: «La com-passione di Dio, il suo soffrire insieme con noi, offre un significato e un valore eterni ai nostri sforzi. Il vostro desiderio di ringraziarlo per ogni grazia e benedizione, anche quando avete perso così tanto, non è soltanto un trionfo della capacità di ripresa e della forza del popolo filippino; è anche un segno della bontà di Dio, della sua vicinanza, della sua tenerezza, del suo potere salvifico».
Questo potere salvifico suscita, nella tragedia, gli eroi che si sacrificano — e talora danno anche la vita — per aiutare gli altri.«Siete un onore per la Chiesa, siete l’orgoglio della vostra nazione — ha detto il Papa —. Io ringrazio personalmente ognuno di voi, poiché qualunque cosa voi avete fatto per l’ultimo dei fratelli e delle sorelle di Cristo, lo avete fatto a Lui». Per aiutare i filippini sono venuti volontari da tutto il mondo. Devono continuare a venire. «Anche se le prime pagine dei giornali sono cambiate, le necessità rimangono». Sì, il tifone svela i segreti dei cuori. Voi che credete nell’amore di Dio, ha insistito Francesco, «avete visto la potenza di quell’amore rivelata nella generosità di moltissime persone, nei tanti piccoli miracoli della bontà». Ma «avete constatato anche, nello “sciacallaggio”, nelle ruberie e nelle mancate risposte a questo grande dramma umano, altrettanti tragici segni del male dal quale Cristo è venuto a salvarci». Sempre nelle tragedie emergono anche «il peccato e l’egoismo» che, «[…]derubando i poveri, avvelenano le radici stesse della società».
I sacerdoti, i religiosi e il popolo di Palo hanno voluto ricostruire anzitutto la cattedrale. Non è mancato chi ha criticato questa priorità, affermando che quanto si è speso per la cattedrale poteva essere speso diversamente o distribuito ai poveri vittime del tifone. Il Papa a Palo ha detto che chi ha ricostruito la cattedrale ha avuto ragione: è un segno, «[…] un memoriale per tutti noi del fatto che, anche nei disastri e nelle sofferenze, il nostro Dio opera continuamente, facendo nuove tutte le cose» (50). E la cattedrale ricorda pure i sacerdoti, i religiosi, le religiose che hanno dato la vita nei giorni del tifone per stare vicino al loro popolo. «Le molte storie di bontà e di sacrificio personale emerse da quei giorni oscuri devono essere ricordate e trasmesse alle future generazioni». Ai giovani, la cattedrale ricorda che «[…] la vera felicità viene dall’aiutare gli altri, offrendo loro noi stessi con sacrificio di sé, misericordia e compassione». Dedicata alla Trasfigurazione del Signore, la cattedrale di Palo proclama che la vita, anche nelle circostanze più difficili, può essere «sostenuta e trasfigurata dalla potenza della sua risurrezione». Una cattedrale è tutto questo e non è mai inutile o superflua.
Mentre costruisce cattedrali, la Chiesa non dimentica i poveri. Prima di visitare la cattedrale di Palo, il Papa ha benedetto il Centro per i Poveri, anch’esso ricostruito dopo il tifone, «[…] che si erge quale ulteriore segno della cura e del-l’attenzione della Chiesa per i nostri fratelli e sorelle bisognosi. Sono molti! E quanto Dio li ama!». Dalla città che è stata l’occhio del tifone Francesco ha rin-novato l’appello perché «[…] si faccia di più per i poveri. Soprattutto, chiedo che i poveri dell’intero Paese vengano trattati in maniera equa, che la loro dignità sia rispettata, che le scelte politiche ed economiche siano giuste ed inclusive, che le opportunità di lavoro e di educazione vengano accresciute e che siano rimossi gli ostacoli all’attuazione dei servizi sociali. Il criterio con cui trattiamo i poveri sarà quello con il quale verremo giudicati».
La Chiesa ricorda a tutti che occorre impegnarsi «non solo nell’opera di ricostruzione degli edifici», dalle cattedrali ai centri per i poveri senza dimenticare né le une né gli altri, «ma, soprattutto, nell’edificare il Regno di Dio, Regno di santità, di giustizia e di pace». Se il tifone ha rivelato i segreti dei cuori, è nei cuori che la cattedrale più grande deve essere ricostruita.
La giornata del 18 gennaio, terza del viaggio nelle Filippine, è stata dedicata all’incontro con trentamila giovani nel campus dell’Università Santo Tomas di Manila e alla Messa celebrata sul palco permanente Quirino Grandstand dell’immenso Parco Rizal di fronte a oltre sette milioni di persone. Il Papa entra così nel Guinness dei primati per avere raccolto la più grande folla mai radunata da un leader vivente — folle maggiori si sono infatti radunate in occasioni dei funerali dell’ayatollah Ruhollah Mosavi Kohmeini (1902-1989) in Iran e dell’uomo politico indiano Conjeevaram Natarajan Annadurai (1909-1969) — superando il precedente record stabilito da san Giovanni Paolo II nel 1995 sempre a Manila, quando erano affluiti per la Giornata Mondiale della Gioventù cinque milioni e mezzo di fedeli.
Nell’ultimo giorno di incontri il Papa è tornato su diversi temi a lui cari: il mistero della sofferenza, l’uso corretto delle nuove tecnologie, il significato del-l’amore — due temi al centro dell’esperienza e delle preoccupazioni dei giovani — e l’azione del diavolo, che oggi suscita anche «attacchi insidiosi» (51) alla famiglia, che va dunque «protetta»(52) con ogni mezzo. Ai giovani il Papa ha parlato a braccio in spagnolo, rispondendo alle loro domande, di cui una sola veniva da una ragazza, June; «troppo poco» (53), ha detto Francesco, date più spazio alla presenza femminile. La ragazza «[…] ha posto l’unica domanda che non ha una risposta», tornando sul tema affrontato il giorno precedente dal Pontefice commemorando le vittime del tifone del 2013: «perché i bambini soffrono?». Come aveva fatto Benedetto XVI rispondendo in televisione a una bambina giapponese dopo il terremoto che aveva colpito il suo Paese nel 2011, anche Papa Francesco ha ribadito che la domanda non ha una vera risposta e che «proprio quando il cuore riesce a porsi la domanda e a piangere, possiamo capire qualcosa». Ma non basta la «[…] compassione mondana che non serve a niente!»: «[…] al mondo di oggi manca il pianto!», mentre«certe realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime». La vera risposta alla domanda di June è: «impariamo a piangere». «Se voi non imparate a piangere non siete buoni cristiani». Piangere non significa essere pavidi, ma «coraggiosi».
Il Papa ha poi affrontato il tema del continuo collegamento di tanti giovani, tramite i computer e gli smartphone, con canali che trasmettono informazioni: fin troppe, e «[…] siamo superinformati: questo è un male? No. Questo è bene e aiuta, però corriamo il pericolo di vivere accumulando informazioni. E abbiamo tante informazioni, ma forse non sappiamo che farcene. Corriamo il rischio di diventare “giovani-museo”, che hanno tutto ma non sanno che farsene. Non abbiamo bisogno di “giovani-museo”, ma di giovani sapienti!».
Ma come si diventa sapienti? «Qual è la materia più importante che imparate all’università?», ha chiesto il Papa. «Qual è la più importante da imparare nella vita? Imparare ad amare! E questa è la sfida che la vita pone a voi oggi. Imparare ad amare! Non solo accumulare informazioni e non sapere che farsene. È un museo. Ma attraverso l’amore far sì che questa informazione sia feconda». Il Vangelo ce lo insegna attraverso una pedagogia in tre linguaggi: della mente, del cuore e delle mani. «[…] fare ciò che penso e che sento»: pensare, sentire, fare. Né si tratta solo di amare gli altri. «Il vero amore è amare e lasciarmi amare. È più difficile lasciarsi amare che amare. Per questo è tanto difficile arrivare all’amore perfetto di Dio». Anche qui, avere tante informazioni non basta: «Se voi avete solo tutta l’informazione siete chiusi alle sorprese; l’amore ti apre alle sorprese».«Lasciamoci sorprendere da Dio! E non abbiamo la psicologia delcomputer di credere di sapere tutto. Com’è questa cosa? Un attimo e ilcomputer ti dà tutte le risposte, nessuna sorpresa». Per contrasto, il Papa ha evocato il quadro della chiamata di san Matteo dipinto dal Caravaggio (1571-1610): Matteo è un pubblicano, un peccatore ma quando passa Gesù «[…] la sorpresa di essere amato lo vince». E il Caravaggio coglie il momento preciso di questa sorpresa.
Molti giovani, ha detto il Pontefice, pensano che amore significhi dare e darsi agli altri — alla persona amata o ai poveri — e questo è certamente vero. Ma non basta, e come Gesù al giovane ricco a ognuno di questi giovani si può dire: «ti manca solo una cosa». Ti manca la capacità non solo di dare, ma di ricevere. «I sadducei, i dottori della legge dell’epoca di Gesù, davano molto al popolo, davano la legge, insegnavano, ma non hanno mai lasciato che il popolo desse loro qualcosa. È dovuto venire Gesù per lasciarsi commuovere dal popolo». «Quanti giovani come voi che sono qui sanno dare, però non sono altrettanto capaci di ricevere!», ha detto Francesco. «Voi che vivete dando sempre e credete che non avete bisogno di niente, sapete che siete veramente poveri? Sapete che avete una grande povertà e bisogno di ricevere? Ti lasci aiutare dai poveri, dai malati e da quelli che aiuti?».
Il Papa ha anche consegnato ai giovani un discorso scritto, dove aggiunge altri due temi: la cura dell’ambiente e l’integrità morale. Quest’ultima, tanto più in un Paese segnato da tante forme di corruzione, è un’autentica sfida, ma «il termine “sfida” può essere inteso in due modi. Il primo in senso negativo, come un tentativo di agire contro le vostre convinzioni morali, contro quanto voi professate circa il vero, il buono e il giusto. La nostra integrità morale può essere “sfidata” da interessi egoistici, dall’avidità, dalla disonestà, o dall’intenzione di strumentalizzare gli altri». Ma vi è anche un significato positivo: la sfida è «[…] un invito ad essere coraggiosi, a dare una testimonianza profetica della propria fede e a quanto viene ritenuto sacro», anche se prendere sul serio le cose sacre oggi espone a «opposizioni e critiche, lo scoraggiamento e persino la derisione». Rispondendo a questa sfida i giovani faranno memoria anche di san Giovanni Paolo II che in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Manila del 1995 chiedeva «[…] “un nuovo tipo di giovane” — uno che sia impegnato con i più alti ideali e desideroso di costruire la civiltà dell’amore».
Nelle Filippine il 18 gennaio si celebra con grande devozione la festa del Santo Niño, il Bambino Gesù, quasi un secondo Natale. Nella Messa dei record Papa Francesco ha ricordato ai sette milioni di fedeli che questo Bambino ci porta la «liberazione dalla schiavitù» (54) e ci ricorda la nostra identità: siamo figli di Dio, fratelli e sorelle di Gesù Cristo. «Queste parole hanno una speciale risonanza nelle Filippine, perché è il primo Paese cattolico in Asia; questo è già uno speciale dono di Dio, una benedizione. Ma è anche una vocazione. I Filippini sono chiamati ad essere eccellenti missionari della fede in Asia».
Anche agli adulti, come già ai giovani, il Papa ha ricordato che siamo tutti chiamati alla santità, a realizzare il piano originario di Dio che voleva gli uomini santi. Ma «mediante il peccato, l’uomo ha anche distrutto l’unità e la bellezza della nostra famiglia umana, creando strutture sociali che hanno reso permanente la povertà, l’ignoranza e la corruzione». Qualche volta pensiamo che sia solo un bel sogno, «ma la Bibbia ci dice che la grande minaccia al piano di Dio per noi è ed è sempre stata la menzogna. Il diavolo è il padre della menzogna». È importante capire come opera oggi il diavolo: «Spesso egli nasconde le sue insidie dietro l’apparenza della sofisticazione, il fascino di essere “moderni”, di essere “come tutti gli altri”. Egli ci distrae con il miraggio di piaceri effimeri e di passatempi superficiali. In tal modo noi sprechiamo i doni ricevuti da Dio, giocherellando con congegni futili». Il Papa ha citato ad esempio due piaghe filippine, il gioco d’azzardo e l’alcolismo: ma questi sono sintomi di un male più grande, di un’azione del diavolo più ampia. «Trascuriamo di rimanere centrati sulle cose che realmente contano. Trascuriamo di rimanere interiormente come bambini. I bambini infatti, come ci insegna il Signore, hanno la loro propria saggezza, che non è la saggezza del mondo».
Il Santo Niño è un segno dell’identità cattolica delle Filippine e «[…] ci ricorda anche che questa identità va protetta». Ingannandoci con il falso invito a «essere “moderni”» il diavolo oggi se la prende specialmente con la famiglia. Il Bambino Gesù «ha avuto una famiglia qui sulla terra: la Santa Famiglia di Nazaret. In tal modo Egli ci ricorda l’importanza di proteggere le nostre famiglie e quella più grande famiglia che è la Chiesa, la famiglia di Dio, e il mondo, la nostra famiglia umana. Oggi purtroppo la famiglia ha bisogno di essere protetta da attacchi insidiosi e da programmi contrari a tutto quanto noi riteniamo vero e sacro, a tutto ciò che nella nostra cultura è più nobile e bello». Papa Francesco ci ricorda che gli attacchi a quanto è vero e sacro vengono dal diavolo: e richiedono che, diventando santi, diventiamo capaci di resistergli.
Nel viaggio di ritorno dalle Filippine Papa Francesco ha concesso un’ampia intervista ai giornalisti, annunciando fra l’altro che andrà presto a scoprire l’Africa, in Centrafrica e in Uganda, e dopo gli Stati Uniti visiterà ancora diversi Paesi dell’America Latina.
Delle Filippine al Pontefice è rimasto nel cuore soprattutto «quel gesto dei papà, quando alzavano i bambini, perché il Papa li benedicesse. Il gesto di un papà… ce n’erano tanti. Alzavano i bambini, lì, quando passavo per la strada. Un gesto che da altre parti non si vede» (55). E le mamme presentavano al Papa i loro figli con gioia, anche nel caso dei disabili. «Il gesto della paternità, della maternità, dell’entusiasmo, della gioia». Il Pontefice ha ripetuto anche il suo elogio del pianto. Infatti, «una delle cose che si perde quando vi è troppo benessere, o i valori non si capiscono bene, o siamo abituati all’ingiustizia, a questa cultura dello scarto, è la capacità di piangere. È una grazia che dobbiamo chiedere». E ha ricordato la ragazza di Manila che nel dialogo con i giovani «è stata l’unica a fare quella domanda alla quale non si può rispondere: “perché soffrono i bambini?” Il grande Dostoevskij se la faceva e non è riuscito a rispondere». L’unica risposta adeguata è piangere e affidarsi al Signore.
La domanda forse più importante è venuta quando un giornalista tedesco ha chiesto che cosa il Papa avesse inteso parlando di«colonizzazione ideologica» che minaccia oggi la famiglia. Usando un esempio, il Pontefice ha spiegato che intendeva far proprio riferimento all’ideologia del gender. «La colonizzazione ideologica: dirò soltanto un esempio, che ho visto io. Venti anni fa, nel 1995, una Ministro dell’Istruzione Pubblica aveva chiesto un prestito forte per fare la costruzione di scuole per i poveri. Le hanno dato il prestito a condizione che nelle scuole ci fosse un libro per i bambini di un certo livello. Era un libro di scuola, un libro preparato bene didatticamente, dove si insegnava la teoria del gender. Questa donna aveva bisogno dei soldi del prestito, ma quella era la condizione».
Parole chiare: «Perché dico “colonizzazione ideologica”? Perché prendono, prendono proprio il bisogno di un popolo o l’opportunità di entrare e farsi forti, per mezzo dei bambini. Ma non è una novità questa. Lo stesso hanno fatto le dittature del secolo scorso. Sono entrate con la loro dottrina. Pensate ai Balilla, pensate alla Gioventù Hitleriana. Hanno colonizzato il popolo, volevano farlo». Il paragone fra«colonizzazione» del gender e totalitarismi del secolo XX non è nuovo. Già l’11 aprile 2014, parlando all’Ufficio Internazionale Cattolico per l’Infanzia, Papa Francesco aveva ricordato che «[…] occorre ribadire il diritto dei bambini a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva. Continuando a maturare in relazione alla mascolinità e alla femminilità di un padre e di una madre» (56). E aveva aggiunto: «Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale del “pensiero unico”» (57).
Ancora una volta il Pontefice ha messo in relazione l’attacco alla famiglia con una strategia più ampia di poteri forti, di «imperi colonizzatori, [che] cercano di far perdere ai popoli la loro identità»(58) e insieme creano forme di dominio economico e finanziario che scartano i poveri. Un giornalista ha messo in relazione le parole del Papa sui poveri che sono «scartati» con la sua espressione «terrorismo di Stato». Francesco ha risposto che non aveva mai collegato i due concetti, ma certo scartare ed escludere hanno qualcosa a che fare con il terrorismo. «È un terrorismo questo? Mah… sì, si può pensare che sia… Si può pensare, lo penserò bene, grazie!».
E ha nuovamente invitato a leggere Il padrone del mondo di don Robert Hugh Benson (1871-1914), un romanzo sul potere dell’Anticristo che impone a tutti un pensiero unico totalitario, già citato in diverse prediche di Casa Santa Marta. «C’è un libro […], forse lo stile è un po’ pesante all’inizio, perché è scritto nel 1907 a Londra. A quel tempo lo scrittore ha visto questo dramma della colonizzazione ideologica e lo descrive in quel libro. Si chiama The Lord of the World. L’autore è Benson, scritto nel 1907, vi consiglio di leggerlo. Leggendo quello capirete bene quello che voglio dire con “colonizzazione ideologica”».
Negli Stati Uniti ha destato qualche stupore e critica l’elogio che il Papa ha proposto nelle Filippine dell’enciclica Humanae vitae del beato Paolo VI, un testo avversato da tutta una cultura antinatalista e progressista. Nell’intervista Francesco ribadisce che «[…] l’apertura alla vita è condizione del Sacramento del matrimonio. Un uomo non può dare il sacramento alla donna e la donna darlo all’uomo se non sono in questo punto d’accordo, di essere aperti alla vita. A tal punto che, se si può provare che questo o questa si è sposato con l’intenzione di non essere aperto alla vita, quel matrimonio è nullo, è causa di nullità matrimoniale». Ma Francesco elogia anche il beato Paolo VI perché«[…] è stato un profeta, che con questo ci ha detto: guardatevi dal neo-Malthusianismo che è in arrivo». «Guardava al neo-Malthusianismo universale che era in corso. E come si chiama questo neo-Malthusianismo? Eh, è il meno dell’1% del livello delle nascite in Italia, lo stesso in Spagna. Quel neo-Malthusianismo che cercava un controllo dell’umanità da parte delle potenze».
Ciò «[…] non significa che il cristiano deve fare figli in serie. Io ho rimproverato alcuni mesi fa una donna in una parrocchia perché era incinta dell’ottavo dopo sette cesarei. “Ma lei vuole lasciare orfani sette?”. Questo è tentare Dio. Si parla di paternità responsabile».«Alcuni credono che — scusatemi la parola, eh — per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli, no? No, paternitàresponsabile». Quando si parla di famiglie con troppi figli in Paesi come le Filippine il Papa però invita sempre a guardare anche «l’altro estremo, come ad esempio in Italia, dove ho sentito — non so se è vero — che nel 2024 non ci saranno i soldi per pagare i pensionati. Il calo della popolazione». E insegnare la paternità responsabile non significa rinnegare l’Humanae vitae ma proporre vie «lecite». Senza mai disprezzare le famiglie che liberamente e responsabilmente, valutate le loro circostanze, scelgono di diventare famiglie numerose.«Per la gente più povera un figlio è un tesoro. È vero, si deve essere anche qui prudente. Ma per loro un figlio è un tesoro. Dio sa come aiutarli. Forse alcuni non sono prudenti in questo, è vero. Paternità responsabile, ma guardare anche la generosità di quel papà e di quella mamma che vede in ogni figlio un tesoro».
Papa Francesco non ha fatto marcia indietro neppure quando una giornalista spagnola gli ha ricordato le critiche per l’immagine — utilizzata in tema di offese alla religione — del pugno che darebbe a chi offendesse sua madre. «In teoria — ha spiegato il Pontefice —possiamo dire che una reazione violenta davanti a un’offesa, a una provocazione, in teoria sì, non è una cosa buona, non si deve fare. In teoria, possiamo dire quello che il Vangelo dice, che dobbiamo dare l’altra guancia. In teoria, possiamo dire che noi abbiamo la libertà di esprimere e questa è importante. Nella teoria siamo tutti d’accordo». In pratica però «[…] non posso insultare, provocare una persona continuamente», dunque «la libertà di espressione deve tenere conto della realtà umana e perciò dico deve essere prudente». La virtù della prudenza non è paura, «[…] è la virtù umana che regola i nostri rapporti» e li rende propriamente umani.
A una domanda sulla corruzione nel mondo e nella Chiesa, il Papa ha risposto che «la corruzione oggi nel mondo è all’ordine del giorno e l’atteggiamento corrotto trova subito facilmente nido nelle istituzioni». Questo clima malsano penetra anche nella Chiesa. Il Pontefice ha ricordato che nel 1994 gli fu offerta una grossa donazione per i poveri purché poi ne restituisse metà, in nero, al donatore. «In quel momento io ho pensato cosa fare, o li insulto e do loro un calcio dove non batte il sole o faccio lo scemo. E ho fatto lo scemo. Ho detto, ma con la verità, ho detto: “Lei sa che nelle vicarie noi non abbiamo conto; lei deve fare il deposito in Arcivescovado con la ricevuta. E lì è tutto”. “Ah, non sapevamo, piacere” e se ne sono andati». Ma poi gli era venuto in mente che se offrivano di corrompere un ecclesiastico forse era perché ne avevano già corrotti altri. «È una piaga nella Chiesa, ma ci sono tanti santi, e santi peccatori, ma non corrotti. Guardiamo all’altra parte, anche nella Chiesa santa».
A proposito del mancato invito al Dalai Lama quando questi è passato da Roma, Francesco ha risposto che la prassi diplomatica vaticana è di non ricevere le personalità che vengono a Roma per vertici internazionali e non in visita singola: «è per questo che non è stato ricevuto. Ho visto che qualche giornale ha detto che non l’ho ricevuto per paura della Cina. Quello non è vero». Tanto che al Dalai Lama è stata proposta una data per un’udienza. Nello stesso tempo, al governo cinese si continua a fare sapere che il Papa amerebbe visitare la Cina.
Marco Ansaldo, de La Stampa, ha osservato che gli appelli del Papa aileader dell’islam perché condannino il terrorismo e le persecuzioni dei cristiani sono rimasti in buona parte del mondo lettera morta. «Anche quell’appello — ha risposto Francesco — l’ho ripetuto il giorno stesso della partenza per lo Sri Lanka, al Corpo Diplomatico, alla mattina. Al discorso al Corpo Diplomatico — non ricordo le parole — ho detto che auguro che i leader religiosi, politici, accademici e intellettuali, si esprimano. Anche il popolo moderato islamico chiede quello dai suoi leader». Il Papa ha assicurato che non si stancherà di ripetere la richiesta.
Note:
(1) Francesco, Discorso al Parlamento Europeo, del 25-11-2014, inL’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 26-11-2014. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(2) Idem, Discorso al Consiglio d’Europa, del 25-11-2014, ibid. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(3) Idem, Parole in occasione della Divina Liturgia nella chiesa patriarcale di San Giorgio, del 30-11-2014, ibid. 1/2-12-2014.
(4) Ibidem.
(5) Idem, Incontro con le autorità, del 28-11-2014, ibid. 30-11-2014. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(6) Idem, Visita al Presidente degli Affari Religiosi al Diyanet, del 28-11-2014, ibid.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) Idem, Conferenza stampa durante il volo di ritorno dalla Turchia, del 30-11-2014, ibid. 1/2-12-2014.
(12) Ibidem.
(13) Idem, Omelia nella Santa Messa nella cattedrale cattolica dello Spirito Santo, del 29-11-2014, ibidem. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(14) Joseph Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, trad. it., Jaca Book, Milano 1989, p. 65.
(15) Ibid., p. 66.
(16) Ibid., p. 67.
(17) Francesco, Preghiera Ecumenica nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio, del 29-11-2014, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 1/2-12-2014.
(18) Ibidem.
(19) Ibidem.
(20) Ibidem.
(21) Ibidem.
(22) Idem, Divina Liturgia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio, del 30-11-2014, ibidem.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem.
(25) Concilio Vaticano II, Decreto «Unitatis redintegratio» sull’ecumenismo, del 21-11-1964, n. 15.
(26) Francesco, Divina Liturgia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio, cit.
(27) Ibidem.
(28) Ibidem.
(29) Ibidem.
(30) Giovanni Paolo II, Enciclica «Ut unum sint» sull’impegno ecumenico, del 25-5-1995, n. 95.
(31) Francesco, Divina Liturgia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio, cit. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(32) Idem, Benedizione ecumenica e firma della Dichiarazione congiunta, del 30-11-2014, ibid.
(33) Ibidem.
(34) Idem, Saluto ai giovani profughi assistiti dai salesiani, nella cattedrale dello Spirito Santo, del 30-11-2014, ibid.
(35) Ibidem.
(36) Ibidem.
(37) Idem, Benedizione ecumenica e firma della Dichiarazione congiunta, cit.
(38) Ibidem.
(39) Idem, Cerimonia di benvenuto all’aeroporto internazionale di Colombo, del 13-1-2015, ibid. 14-1-2015. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(40) Idem, Incontro interreligioso nel Bandaranaike Memorial International Conference Hall, del 13-1-2015, ibidem. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(41) Idem, Omelia nella Santa Messa di canonizzazione del beato Giuseppe Vaz, del 14-1-2015, ibid. 15-1-2015. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(42) Idem, Omelia nella Santa Messa con vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi nella Cattedrale dell’Immacolata Concezione a Manila, del 16-1-2015, ibid. 17-1-2015.
(43) Ibidem.
(44) Idem, Incontro con le famiglie nel Mall of Asia Arena a Manila, del 16-1-2015, ibidem.
(45) Ibidem.
(46) Idem, Incontro con le autorità e con il Corpo Diplomatico nella Rizal Ceremonial Hall del Palazzo Presidenziale a Manila, del 16-1-2015, ibidem. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(47) Idem, Omelia nella Santa Messa con vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi nella Cattedrale dell’Immacolata Concezione a Manila, cit. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(48) Benedetto XVI, Intervista nel programma di Rai Uno «A sua immagine», in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. VII, 1. 2012. (Gennaio-Giugno), Libreria Editrice Vaticana, s.l. 2012, pp. 503-509 (pp. 503-504).
(49) Francesco, Omelia nella Santa Messa a Tacloban, del 17-1-2015,ibid. 18-1-2015. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(50) Idem, Incontro con sacerdoti, religiose, religiosi, seminaristi e famiglie dei superstiti nella Cattedrale di Palo, del 17-1-2015, ibidem. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(51) Idem, Omelia nella Santa Messa nel Rizal Park, del 18-1-2015,ibid. 19/20-1-2015.
(52) Ibidem.
(53) Idem, Incontro con i Giovani nel campo sportivo dell’Università, del 18-1-2015, ibidem. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(54) Idem, Omelia nella Santa Messa nel Rizal Park a Manila, cit. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(55) Conferenza stampa del Santo Padre durante il volo di ritorno dalle Filippine, del 19-1-2015, ibid. 21-1-2015. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.
(56) Idem, Discorso alla Delegazione dell’Ufficio Internazionale Cattolico dell’Infanzia, dell’11-4-2014, ibid. 12-4-2014.
(57) Ibidem.
(58) Conferenza stampa del Santo Padre durante il volo di ritorno dalle Filippine, cit. Fino a diversa segnalazione tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo testo.