Andrea Morigi, Cristianità n. 376 (2015)
La figura del brigante è da tempo oggetto della ricerca e della riflessione storiografica di Francesco Pappalardo, socio benemerito di Alleanza Cattolica, del cui organo ufficiale Cristianità è direttore editoriale, presidente dell’IDIS, l’Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, di Roma e autore di diverse opere storiche, fra cuiIl Risorgimento (Quaderni del Timone, Art, Novara 2010), Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia (con unaPresentazione di Alfredo Mantovano, Sugarco, Milano 2010; cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXX, n. 360, aprile-giugno 2011, pp. 71-76) e Il brigantaggio postunitario. Il Mezzogiorno fra resistenza e reazione (D’Ettoris, Crotone 2014).
Approfondendo gli studi sul brigantaggio, di cui ha esaminato l’aspetto di opposizione popolare allo Stato unitario, lo studioso ha riunito in un’unica trattazione — Dal banditismo al brigantaggio. La resistenza allo Stato moderno nel Mezzogiorno d’Italia — i banditi, gl’insorgenti e i briganti, accomunati non dall’aspetto eversivo che comunemente evocano nell’immaginario collettivo ma dalla resistenza, più o meno consapevole, da essi opposta in tempi diversi allo Stato moderno nascente o in via di affermazione.
L’opera è ospitata nella collana Magna Europa. Panorami e voci, diretta da Giovanni Cantoni, che propone strumenti di approfondimento storico e geo-culturale indispensabili a una corretta comprensione dell’eredità disseminata nel mondo dalla cultura cristiana nata in Europa.
La tesi centrale dello studio, illustrata nell’Introduzione (pp. 7-13), è che la nascita dello Stato «moderno» — inteso non semplicemente come l’organizzazione della società nel mondo contemporaneo, ma come «sistema politico» della modernità — ha incontrato resistenze molto articolate da parte di tutti gli strati della popolazione, che vedevano limitate le proprie prerogative e libertà dall’inusuale concentrazione del potere e dalla pretesa della nuova realtà politica di porsi come ordinamento giuridico esclusivo e come unica fonte del diritto.
Le tre categorie — I Banditi (pp. 15-62), Gli Insorgenti (pp. 63-118) e I Briganti (pp. 119-199) — sono state prese in esame separatamente per verificare l’esistenza di un filo unificante riconducibile appunto all’opposizione al nascente Stato moderno. I capitoli sono suddivisi a loro volta in tre parti, relative rispettivamente al contesto storico, alle interpretazioni e alla storia del singolo fenomeno.
«Non più opposizione passiva e non ancora sollevazione popolare, il banditismo rappresenta un genus ibrido, in cui confluiscono fra i secoli XVI e XVII soldati disoccupati, disobbedienti fiscali, fuorusciti, protagonisti di conflitti tra fazioni e nobili impoveriti o preoccupati per l’invadenza statale» (pp. 12-13). Il termine «bandito», dunque, indicava sia il delinquente incallito sia il fuoruscito e con il tempo è andato designando anche chi si opponeva, in qualsiasi modo, alla concentrazione del potere, difendendo — spesso con dei «moti primi primi» — il proprio spazio vitale e le autonomie e le libertà dei corpi intermedi, cioè di quelle realtà che mettevano in collegamento la società con la sua organizzazione politica, lo Stato.
Il contesto storico in cui si manifesta il fenomeno del banditismo è quello dell’Antico Regime, cioè il periodo che va dalla fine del Medioevo alla Rivoluzione francese ed è contraddistinto da ordinamenti a «bassa statualità» e caratterizzati da uno spiccato pluralismo: i numerosi centri di potere — corpi, ceti, feudi, comunità e città — erano dotati di diritti propri, la società era fondata su una fitta rete di solidarietà profonde e di legami personali, e al pluralismo politico corrispondeva il pluralismo delle giurisdizioni, garantito dalla coesistenza di ordinamenti giuridici differenti nello stesso spazio sociale. «Neanche nel Regno di Francia, il Paese considerato campione dell’assolutismo europeo, la monarchia era in grado di annullare i privilegi tradizionali della società o di sopprimere gli estesi diritti di signoria locale, per quanto si perseguisse il tentativo di rendere il sovrano «sciolto»,absolutus, dalla subordinazione nei confronti della legge e da ogni obbligazione nei confronti di altri soggetti istituzionali, discostandosi in ciò dalla monarchia medioevale, che non conosceva l’idea di sovranità nel senso di pienezza, unicità ed esclusività del potere statuale» (pp. 18-19).
Il perfezionamento dello Stato moderno, nei secoli XVIII e XIX, consiste appunto nell’affermazione su tutti i sudditi di un solo potere a scapito di altri, fino ad allora autonomi, in quanto non conferiti dal sovrano. È un’evoluzione non solo di natura istituzionale, legata alla costruzione di un apparato, ma anche di tipo culturale e comportamentale, perché il nuovo organismo si legittima da sé e tende al disciplinamento dei sudditi. Ad opporsi a questa deriva sono tutti gli strati sociali: non mancano né aristocratici, che si opponevano alla progressiva affermazione di un potere centralistico, né ceti popolari urbani, che resistevano all’incremento della pressione fiscale regia o signorile oppure aspiravano all’ampliamento della rappresentanza politica. Il fenomeno va inquadrato, pertanto, in una più generale opposizione, spesso disorganica, della società allo Stato moderno:«Abbiamo visto così le fazioni anche dei centri urbani — osserva lo storico Giuseppe Galasso — darsi alla campagna per risolvere armata manu e in via privata le loro aspre vertenze; i baroni proteggere i banditi e farsene arma e scudo contro lo Stato, che ne ha fiaccato la potenza politica e ne rode lentamente ma inesorabilmente le pretese giurisdizionali; il velo dell’omertà stendersi impenetrabile su quanto si ritiene concernere unicamente la vita e le relazioni private, e dinanzi ad esso girare a vuoto l’autorità pubblica nel suo sforzo di affermare integralmente e concretamente il suo potere sovrano» (p. 33). Sono manifestazioni d’insofferenza di un corpo sociale nei confronti d’ingiustizie e sono intese non a modificare strutture ma a correggerne le distorsioni; si distinguono, dunque, dalle rivoluzioni, che perseguono un cambiamento violento delle strutture e la costruzione di un nuovo ordine sulla base di un programma ideologico.
«Vera sollevazione popolare è, invece, l’Insorgenza (1792-1814), cioè l’insieme delle resistenze contro la Rivoluzione e contro il regime di Napoleone Bonaparte (1769-1821) in Italia e in Europa. Fenomeno composito, coinvolge intere comunità, che imbracciano le armi per difendere la religione e il proprio sovrano, per tutelare diritti conculcati e sfuggire ai saccheggi dell’invasore, nonché per prender parte a violenti conflitti municipali e a scontri per il controllo delle risorse locali, conseguenti alla crisi indotta dell’Antico Regime» (p. 13).
Il fenomeno dell’Insorgenza si colloca appunto nella fase più drammatica del passaggio dall’Antico Regime allo Stato moderno, quando questo rivendica apertamente il diritto di esercitare la propria autorità in modo uniforme su tutti i sudditi, di ridisegnare liberamente il proprio territorio e di ridimensionare ogni altro soggetto politico e giuridico. A ciò si aggiungono, durante l’occupazione rivoluzionaria, le brutalità compiute contro le popolazioni, nonché le sistematiche spoliazioni del patrimonio artistico e devozionale della Penisola. Inizialmente rimossa dalla storia patria e, quindi, dalla memoria storica degli italiani, l’Insorgenza è stata «riscoperta» negli anni 1930 dagli storici nazionalisti e negli anni 1960 da quelli marxisti, che però ne hanno offerto spiegazioni insufficienti, finché i bicentenari prima della Rivoluzione francese e poi del cosiddetto Triennio Giacobino (1796-1799) hanno favorito una rinascita degli studi, fino a quel momento condizionati da preoccupazioni estranee alla riflessione scientifica. «Una nuova corrente storiografica, cui ha dato un apporto fondamentale l’ISIN, l’Istituto Storico dell’Insorgenza, fondato a Milano nel 1995 — poi denominato ISIIN, Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale —, ha proposto ricostruzioni d’insieme che vanno oltre le spiegazioni di ordine economico e leggono gli avvenimenti nel contesto delle trasformazioni sociali dell’Antico Regime, spesso forzate, dei violenti conflitti municipali seguiti al venir meno delle gerarchie tradizionali e allo scontro culturale fra due realtà molto differenti, vedendo negli insorgenti dei combattenti in difesa della fede cattolica, dei propri sovrani e dei propri averi» (p. 71).
Le insorgenze, la cui rilevanza quantitativa non può essere sottovalutata, rappresentano, dunque, la prima eloquente manifestazione del conflitto fra società tradizionale e modernità politica e mostrano che alla fine del secolo XVIII la nazione italiana, pur priva di un organismo politico unitario, esisteva già con una precisa identità religiosa e culturale. Non sempre le popolazioni hanno una consapevolezza profonda degli avvenimenti successivi al 1789, ma ne colgono la portata sovversiva e intuiscono che i rivoluzionari non intendono soltanto impadronirsi del potere, ma anche servirsene per cambiare il modo di pensare dei sudditi. «Reagiscono, quindi, con un moto istintivo e talora confuso, rifiutando, anche con le armi, l’imposizione di un’ideologia, dunque di uno stile di vita» (p. 72).
L’Insorgenza italiana viene comunemente suddivisa in due fasi: quella manifestatasi nel cosiddetto Triennio Giacobino (1796-1799) come reazione all’arrivo delle armate francesi repubblicane e quella del periodo napoleonico (1804-1814), caratterizzata dalle due grandi esplosioni del 1806 e del 1809. L’insorgenza del 1806, che in realtà ha la sua prima manifestazione nel dicembre 1805 nelle valli piacentine e si protrae fino al 1808, si localizza nel Ducato di Parma e Piacenza e nel Regno di Napoli. Il malcontento popolare si manifesta sia con forme di resistenza passiva e di boicottaggio, sia con modalità «attive», dalla renitenza alla coscrizione obbligatoria — introdotta allora per la prima volta — fino alla sollevazione armata, che può esaurirsi in una fiammata, breve ma intensa, o dar vita a una guerriglia logorante, come in Calabria, dove il conflitto assume una configurazione molto simile a quello che lacerava la Spagna negli stessi anni.
«Anche il brigantaggio postunitario è una realtà complessa, in cui rientrano la fedeltà dinastica e la resistenza all’invasore, l’opposizione alle caratteristiche più invadenti del nuovo Stato unitario — innanzitutto la coscrizione obbligatoria e l’accentuata fiscalità —, annose tensioni sociali e l’inevitabile delinquenza comune» (p. 13). Il contesto storico è quello del crollo repentino degli Stati preunitari, dovuto a una serie di motivazioni, contingenti e di lungo periodo — fra cui le trasformazioni profonde dell’età napoleonica, le ambiguità della Restaurazione e la consapevolezza dei mutati equilibri internazionali, che rendevano ardua la sopravvivenza dei piccoli Stati —, nonché dell’affermazione di una realtà statuale invasiva ed estranea ai bisogni e ai sentimenti della popolazione.
«Il brigantaggio meridionale postunitario si presenta, pertanto, come un fenomeno nuovo e diverso rispetto all’endemico banditismo, come lo fu il movimento sanfedistico del 1799, rispetto al quale, però, presenta contorni più vasti e profondi: l’elemento religioso, pur molto vivo, vi ha parte minore, mentre la motivazione dinastica è più significativa, anche se meno determinante delle ragioni che si possono definire nazionali» (p. 137).
Negli anni successivi al 1860, infatti, la resistenza si presenta con varie modalità, come l’opposizione parlamentare e il malcontento della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali e il rifiuto della coscrizione obbligatoria, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno. La resistenza armata, però, è il fenomeno più evidente, che coinvolse non soltanto il mondo contadino ma tutta la società del tempo.
Nella storia del brigantaggio postunitario sono state individuate tre fasi distinte. Nella prima, tra la fine del 1860 e il 1861, gl’insorgenti mettono in campo grandi formazioni di armati, che talvolta superano ognuna i mille uomini, con lo scopo principale di abbattere il regime unitario e di restaurare la deposta monarchia. Nella seconda fase, fra il 1862 e il 1864, si restringono le aree di azione e proliferano bande medie e piccole, in gran parte a cavallo, che cercano di logorare l’avversario con i sistemi classici della guerriglia, colpendolo con la massima sorpresa e rapidità dov’era più debole e usufruendo sia della buona conoscenza del terreno sia dell’appoggio delle popolazioni. La terza fase è caratterizzata da un’attività progressivamente declinante, portata avanti da piccole bande in territori ben circoscritti e spesso con agganci alla criminalità comune.
La resistenza popolare sarà superata dallo Stato unitario con il sistema generalizzato degli arresti in massa, la distruzione di casolari e di masserie, la persecuzione indiscriminata dei civili e il ricorso ai tribunali militari, che concorrono alla repressione con la speditezza e la severità dei giudizi, cioè spargendo un «salutare» terrore e dando una parvenza di legalità alla repressione.
Chiude il volume l’Indice dei nomi (pp. 201-209).
Andrea Morigi