Domenico Airoma, Cristianità n. 377 (2015)
1. Dall’eclissi della sovranità statale all’attivismo giudiziario: il dialogo fra le Corti
I Tribunali di Babele è il titolo di un interessante volumetto nel quale il giurista Sabino Cassese illustrava quel che stava accadendo nel mondo giuridico occidentale in epoca di globalizzazione. Egli parte dallo sfaldamento della sovranità statale e dal vuoto che essa lascia a beneficio di nuovi soggetti regolatori, in gran parte appartenenti alle giurisdizioni, nazionali, sovranazionali e internazionali: «La sovranità statale si diluisce. I poteri pubblici si riarticolano in forme pluralistiche e policentriche. Gli ordinamenti giuridici nazionali debbono affrontare problemi che vanno oltre la loro capacità di risolverli da soli. Ad essi si sovrappongono altri ordinamenti giuridici, su più livelli.
«Questo pluralismo ha bisogno di un ordine: occorre riempire i vuoti tra i diversi sistemi; […] indurli a cooperare; stabilire gerarchie di valori e princìpi. […] Per questo motivo, le corti stanno assumendo un ruolo importante nella definizione dei rapporti fra ordinamenti giuridici. Si parla di “judicial dialogue” o “judicial conversation”, di “inter-judicial coordination” e di una “community of judges” […]. A questo punto, lentamente (molto lentamente), il diritto prende il posto della politica nell’arena globale. Se prima si era passati dalle spade alle feluche, ora si passa dalle feluche alle toghe» (1).
Lo sfaldamento della sovranità, con la connessa emersione del giudice-attivista, è il portato di un lungo processo culturale di erosione delle fondamenta della cultura occidentale. La connessione è stata fotografata dal giurista statunitense Robert Bork: «La globalizzazione della guerra culturale ha portato a una globalizzazione dell’attivismo giudiziario. […] Questo fenomeno si verifica non solo a causa della creazione di corti sovranazionali, ma anche perché i giudici delle corti nazionali hanno iniziato a conferire con i loro colleghi esteri e citare decisioni costituzionali straniere come guida per interpretare le proprie Costituzioni.
«[…] Sarebbe un errore attribuire l’origine di questi mutamenti esclusivamente ai giudici. Esistono infatti molti fattori alla base di questo percorso: l’ascesa di burocrazie potenti e relativamente irresponsabili, il declino della fede nelle religioni tradizionali, l’accettazione di un ethos di estrema autonomia individuale, il peso dei mass media, l’ampliamento della classe degli intellettuali accademici e altro ancora» (2). Tuttavia, prosegue Bork, «come disse il vescovo[anglicano] Hoadly [Benjamin (1676-1761)], quasi tre secoli fa, “sotto ogni riguardo il vero legislatore è chiunque abbia un’assoluta autorità di interpretare qualsiasi norma scritta od orale, e non già la persona che per prima l’ha scritta o pronunciata”» (3). Approfittando di tale autorità, i giudici si sono trasformati «in attivisti con lo scopo di creare libertà e diritti nuovi e senza fondamento, aggirando l’autorità democratica» (4).
L’«attivismo giudiziario» è stato oggetto, in questi anni, di una diffusa teorizzazione in dottrina, soprattutto dai sostenitori del cosiddetto «diritto mite», versione giuridica del «pensiero debole». Il principale corifeo può individuarsi nel giurista Gustavo Zagrebelsky, che saluta come inevitabile e auspicabile la centralità dell’intervento giurisdizionale: «La ragione della temuta “esplosione” soggettivistica dell’interpretazione è […] da rintracciare nel carattere pluralistico della società attuale e di quella società parziale che è la comunità dei giuristi e di coloro che operano attraverso il diritto […]. La causa dell’incertezza nei processi di applicazione del diritto non è in una cattiva disposizione mentale dei giuristi ma nel deperimento di un quadro di principi di senso e valore generalmente condiviso. […] In presenza di diversi contesti di senso e valore, nemmeno la lettera è una certezza. […] Senza considerare che molte domande nuove poste al diritto dal progresso tecnologico (si pensi alla tecnologia genetica) forse più opportunamente possono trovare una prima risposta in una procedura giudiziaria in cui si mettano a confronto prudentemente i principi coinvolti, piuttosto che in assemblee politiche dove il richiamo ai principi è spesso uno strumento di militanza di parte» (5).
Il nostro Paese da anni ha sperimentato l’«attivismo giudiziario».
Particolarmente significativo è quanto accaduto nel caso di Eluana Englaro (1970-2009), dove i giudici della Corte di Cassazione si sono appellati alle soluzioni giurisprudenziali adottate in altri Paesi, avendo ben cura di privilegiare quelle favorevoli all’eutanasia. A tale riguardo, si è parlato, autorevolmente, di «[…] “legge creata dal Collegio” […]senza affrontare il problema dell’eutanasia, fino a prova contraria ancora reato nel nostro ordinamento. Un modo di procedere, questo, che, in quanto irrispettoso della divisione dei poteri, principio cardine del sistema democratico, può essere considerato oggettivamente eversivo, come lo sono tutte le invasioni di campo istituzionali» (6).
Fotografa ufficialmente il «gigantismo» assunto dalla giurisdizione il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Gianfranco Ciani, nella relazione di apertura all’anno giudiziario tenuta a Roma il 23 gennaio 2015: «Archiviate le ideologie […], le scelte etiche condivise sono solo quelle sancite dal diritto penale: per censurare una condotta occorre qualificarla come reato, “mancando altrimenti un sistema di valori davvero eloquente e condiviso” e ciò comporta dunque che “si passi immediatamente da ciò che è reato a ciò che è lecito in quanto non delitto”, come se non vi fosse alcuna terra di mezzo, alcuna etica non giuridica.
«[…] In breve: non solo la rilevanza dei comportamenti antisociali è affidata alla giustizia penale, ma l’intero collante sociale, rappresentato dal senso civico comune, è appaltato alla giurisdizione penale. La stessa consapevolezza che i cittadini dovrebbero avere della particolare antisocialità di taluni comportamenti è affidata ad una pronuncia del giudice penale ed esclusivamente a questa.
«[…] L’effetto precipuo ed immediato di tale aspettativa è quello di una progressiva centralità della giurisdizione. La magistratura — ha osservato qualche tempo fa il Presidente emerito della Corte costituzionale, Gaetano Silvestri — è da tempo uscita dal terreno del controllo, che è quello ad essa congeniale e proprio, per addentrarsi in quello della mediazione e della regolazione del conflitto sociale. Il diritto giurisprudenziale è preminente nella composizione delle più svariate problematiche sociali, assai più di quanto lo sia la stessa legislazione.
«[…] Insomma, il terzo potere si trasforma sempre più in gigantismo della giurisdizione per le aspettative etiche e sociali che l’accompagnano, il che costituisce una grave distorsione dell’assetto sociale» (7).
Inoltre, l’attivismo giudiziario italiano ha da anni percorso, sistematicamente, la strada del dialogo fra le Corti e fra queste ultime e il mondo accademico, non trascurando l’associazionismo più avanguardista nell’universo socio-politico, italiano e continentale. Basta dare uno sguardo alle iniziative di MEDEL. Magistrati Europei per la Democrazia e la Libertà, o alla composizione dell’Osservatorio sul Rispetto dei Diritti Fondamentali in Europa, dove è dato d’imbattersi in personalità di primo piano dell’accademia, della magistratura italiana, di merito e di legittimità, nonché delle Corti europee.
Sicché, quel che sta accadendo, soprattutto — e non per caso, come si è visto — nel settore dei cosiddetti «nuovi diritti», non è altro che l’esito coerente di un processo di networking, che va ben al di là dei confini del giudiziario, lungamente preparato e profondamente radicato. E si tratta di una rete che ha come epicentro una ben individuata mentalità, quella secondo la quale spetta al giudice esercitare la missione di dare concreta attuazione ai «nuovi diritti»; rappresentando la condivisione di questa missione lo spartiacque fra i giudici eticamente attenti ai diritti e tutti quanti gli altri.
2. «Giudici di tutto il mondo unitevi!». Dal dialogo fra le Corti al sistema integrato delle Corti
Se si presta attenzione a qualche passaggio motivazionale e a qualche contributo dottrinale, si rileva come il processo finora descritto, fatto di un dialogo che mira a fornire reciproco supporto alle Corti nell’elaborazione di una giurisprudenza di impulso legislativo — e, dunque, come tecnica di redazione dei provvedimenti giurisdizionali —, stia entrando in una fase del tutto nuova.
Da qualche tempo, infatti, sta prendendo piede, nei settori della giurisprudenza e della dottrina più all’avanguardia in tale attivismo, l’orientamento secondo il quale è tempo di passare dal dialogo fra le Corti, ciascuna appartenente al proprio sistema giuridico, a un sistema multilivello di diritti a cui corrisponde un sistema integrato di Corti.
In tale operazione assume un ruolo fondamentale il riferimento alla CEDU, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo. E, infatti, l’attivismo in ambito nazionale, pur facendo registrare, grazie al dialogo fra le Corti e lo shopping del precedente più conveniente, rilevanti pronunce distoniche rispetto al diritto vigente, doveva e deve fare i conti con un duplice ordine di limiti, costituzionali e «democratici», derivanti cioè dall’ordine pubblico interno e dal principio di separazione dei poteri.
Il «salto di qualità» si ha nella misura in cui vengono percepite le potenzialità connesse a uno scenario, come quello europeo e, più in generale, internazionale, privo, viceversa, di limiti. Ci si rende conto di come tale scenario non conosca i confini propri dell’ordinamento nazionale, sia sotto il profilo costituzionale, sia sotto il profilo della coesistenza con gli altri poteri. E incomincia a farsi strada l’idea che per accelerare, in modo decisivo, l’operazione di scardinamento delle resistenze all’affermazione dei nuovi diritti, occorra passare proprio attraverso lo scenario internazionale, trasformandolo in cornice sovranazionale, cioè sovracostituzionale; giacché, solo in un tale contesto i protagonisti, non potendo essere più i governanti e i parlamenti nazionali, possono essere proprio i giudici, i soli in grado di colmare un tale vuoto di regolazione.
Particolarmente significativo di tale mentalità è il seguente brano di una conferenza tenuta da Christos Rozakis, vicepresidente della CEDU, alla World Conference on Constitutional Justice, tenutasi a Cape Town, in Sudafrica, dal 22 al 24 gennaio 2009, dal titolo The interaction between the European Court of Human Rights and the Other Courts, «L’interazione fra la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e le altri Corti»: «[…] un giudice internazionale è tenuto ad applicare la legge[…] e non a crearla. Tuttavia, l’attuale lunga storia della giustizia internazionale […] ha testimoniato un sostanziale distacco del ruolo del giudice internazionale dagli approcci stereotipati appena descritti. La giustizia internazionale ha agito, e tuttora sta agendo, con una formidabile libertà di azione, che in molti casi ha violato i confini giurisdizionali per creare, quasi dal nulla, una legge concreta e nuova.
«[…] l’ordinamento giuridico internazionale è tuttora caratterizzato da una pesante decentralizzazione, privo come è sia di un potere legislativo che di un potere esecutivo a livello centrale […]. Sicché le Corti […] sono pressoché obbligate ad assumere il ruolo del legislatore» (8).
La prospettiva è ben descritta nella relazione che ha introdotto, il 27 marzo 2015, all’ultimo congresso nazionale di Magistratura Democratica, su Diritti, Giurisdizione e Futuro. Il ruolo dei giudici nell’epoca dell’incertezza, la sessione dal titolo significativo L’Europa come motore dei diritti?, dove si legge:
«La funzione di magistrato europeo, che applica il diritto italiano integrato con il diritto dell’Unione, nel quadro del dialogo tra le Corti e della tutela multi-livello dei diritti fondamentali, continua ad essere l’obiettivo della nostra visione e del nostro impegno professionale. Il Giudice come organo di base dello spazio giudiziario europeo mantiene in questo quadro un ruolo di grande responsabilità.
«Nell’ultimo biennio il rispetto dei diritti della Carta è diventato il momento qualificante la giurisprudenza della Corte di giustizia (sono oltre 300 le decisioni della Corte che fanno applicazione o richiamano i diritti della Carta). Sentenze di importanza storica a livello globale […]in base al Bill of rights europeo che costituisce ormai un condiviso parametro di legittimità delle norme dell’Unione e di quelle interne ad esso connesse.
«[…] D’altro canto, non può non richiamarsi il dialogo tra le Corti come centrale in tale processo e come l’evocazione del dialogo fa scaturire nuove domande: questa metafora, è ancora valida? E, soprattutto, è ancora attuale? Si può ancora parlare di “dialogo” quando l’integrazione ha raggiunto un livello, così elevato, di intreccio e di forte compenetrazione di diritti e di pronunce, tanto da far pensare non più tanto al rapporto fra ordinamenti quanto, piuttosto, a un sistema giuridico integrato che consta della cooperazione in vista di un risultato comune?
«La questione, come è evidente, non è solo terminologica, ma concettuale e di sostanza. Il dialogo appare ormai categoria inadeguata a cogliere e rappresentare la rilevanza di quanto si sta realizzando.
«[…] Non più, dunque, soltanto perdurante sopravvivenza del dialogo, ma intrinseca e strutturale trasformazione.
«[…] È stato notato che, in materia di diritti fondamentali, ad un certo punto ci si è trovati con troppi sistemi (nazionale, convenzionale e dell’Unione) e con troppe Carte (Carte fondamentali, CEDU, Carta di Nizza) e con troppe Corti (nazionali costituzionali e di legittimità, sovranazionali e convenzionali).
«Ma proprio per questo rischio di affollamento è utile il riferimento ad un “minimo comun denominatore”. Assunta la persona come centro dell’ordinamento non solo degli Stati nazionali, ma della stessa Unione; chiarito […] che i diritti fondamentali sono in grado di traghettare l’Europa dalla propria originaria finalità mercantile alla tutela di individui concreti, diventa quasi inevitabile il “superamento” del dialogo e l’individuazione delle conseguenze che derivano dalla ricerca della massima espansione delle tutele.
«[…] È su questo terreno che il dialogo si trasforma in integrazione, segnando il passaggio decisivo dalla tutela multilivello alla tutela integrata dei diritti» (9).
Vi è, dunque, un bill of rights europeo, rispetto al quale il giudice nazionale non c’è più se non come «organo di base» di un nuovo spazio giuridico, lo «spazio giuridico europeo», appunto. E si tratta di uno spazio nel quale la Corte di Strasburgo è la nuova Corte «costituzionale», abilitata cioè a fornire l’interpretazione corretta di quella che, per ampiezza di Paesi firmatari e tradizioni giuridiche rappresentate, finisce con l’essere, di fatto, la Carta costituzionale europea e non solo, la Convenzione per i diritti dell’uomo. Corte di Strasburgo con la quale i giudici europei sono necessariamente chiamati a dialogare nell’elaborazione di un sistema multilivello e integrato di diritti, ovvero di un «nuovo ordine pubblico internazionale».
Di particolare interesse è quanto accaduto di recente in Francia.
Con decisione n. 19 del 28 gennaio 2015 la Corte di Cassazione francese ha stabilito che il divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso è contrario all’ordine pubblico internazionale. Nell’ipotesi oggetto della decisione un cittadino francese e un cittadino marocchino, entrambi residenti in Francia, avevano chiesto l’autorizzazione al matrimonio nonostante che la legge del Marocco — richiamata dalla Convenzione franco-marocchina del 10 agosto 1981, che rinvia alla legge nazionale dei nubendi — vieti il matrimonio fra persone dello stesso sesso. La Corte francese nega tuttavia che nel caso di specie la Convenzione franco-marocchina possa trovare applicazione, in quanto il principio di libertà matrimoniale configura adesso principio di ordine pubblico internazionale.
Qualche avvisaglia al riguardo vi è anche in qualche recente pronuncia della Corte di Cassazione italiana. L’ordine pubblico internazionale è stato individuato in passato dalla giurisprudenza e dalla dottrina italiana: e la menzione permane ancora nelle circolari del ministero dell’Interno quale ragione di preclusione d’ogni effetto dei matrimoni fra persone dello stesso sesso celebrati all’estero. Dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 4184 del 2012 è emerso un mutamento di orientamento e l’ordine pubblico internazionale non viene più richiamato, dal momento che «nel nostro ordinamento è compresa una norma — l’art. 12 della CEDU appunto, come interpretato dalla Corte europea — che ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi».
Ma se nel nostro ordinamento vi è una norma di tal fatta, che si colloca addirittura su un piano sovracostituzionale, in un sistema multilivello integrato di diritti può il giudice procedere direttamente a un «controllo di convenzionalità», interloquendo direttamente con la Corte di Strasburgo investita del compito di dare la corretta interpretazione di tale cornice para- se non ultra-costituzionale, qual è la CEDU? Ed è esattamente quanto incomincia a chiedersi quella parte della dottrina e della giurisprudenza impegnata a dare effettività ai nuovi diritti.
Si tratta di rimuovere le condizioni che regolano l’accesso alla Corte di Strasburgo, e cioè la necessità del previo esaurimento dei rimedi interni e l’indispensabilità del ricorso di parte.
In un recente articolo sulla rivista Questione Giustizia è stato affrontato, con grande chiarezza, il nodo della rilevabilità ex officio del contrasto fra norma interna e CEDU, che postula, appunto, la possibilità per il giudice di denunciare il contrasto senza passare per i filtri interni, giungendo, pertanto, alla disapplicazione del diritto interno: «Se, infatti, la doverosità di un controllo di conformità dell’ordinamento interno al diritto UE anche in Cassazione è pacifico, la proiezione di analogo argomentare con riguardo alla CEDU è in atto meno condivisa. A posizioni particolarmente rigide, fanno da contrappeso altre opzioni astrattamente possibiliste ed altre ancora apertamente favorevoli.
«[…] sono alcune vicende di recente esaminate dalle sezioni civili e penali della Cassazione a confermare il trend favorevole alla rilevabilità ex officio della violazione convenzionale.
«[…] occorre, in definitiva, intendersi sul ruolo del giudice nazionale e in particolare interrogarsi se quest’ultimo è tenuto a comportarsi come una sorta di watchdog dei diritti fondamentali scolpiti dalla CEDU, ovvero se occorre assecondare l’opposta tendenza a riservare al — e riversare sul — singolo l’esigenza che la decisione del caso concreto venga resa nel rispetto dei diritti fondamentali di natura convenzionale.
«In sostanza, a chi scrive pare che la Corte di cassazione sia tenuta ad un chiarimento definitivo circa il contenuto della CEDU come diritto delle parti o piuttosto come dovere del giudice.
«[…] La condivisione della prospettiva favorevole ad un controllo giudiziale di legalità convenzionale diffuso ed ex officio — soprattutto a livello di legittimità — oltre a rappresentare un baluardo della democrazia del quale tutte le persone, cittadine e non, hanno diritto di godere, in nome della loro irrinunciabile dignità, sembra dunque costituire piena attuazione di quell’obbligo positivo del giudice di garantire e attuare i diritti sanciti dalla Convenzione come dallaCostituzione» (10).
Pertanto, non solo il giudice — organo base dell’edificazione di questo nuovo ordine pubblico internazionale — può sollevare la questione di convenzionalità, censurando la norma interna innanzi alla Corte di Strasburgo, ma lo deve fare, se questo significa dare attuazione al sistema multilivello integrato di tutela dei diritti «nuovi». A siffatte iniziative il giudice interno è, peraltro, spinto dalla stessa Corte di Strasburgo, in termini, innanzitutto, «programmatici».
All’indomani, infatti, del parere del 18 dicembre 2014 (n. 2 del 2013) con il quale la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che si è espressa negativamente in ordine all’adozione della Convenzione per i Diritti dell’Uomo nell’ambito dell’ordinamento comunitario, il presidente della Corte di Strasburgo, Dean Spielmann, ha dichiarato: «non dimentichiamo che le principali vittime saranno quei cittadini cui questa opinione sottrae il diritto di avere atti dell’Unione Europea soggetti allo stesso scrutinio esterno di rispetto dei diritti umani cui è soggetto qualsiasi atto di uno Stato membro. Più di sempre, perciò, l’onere sarà della Corte di Strasburgo per fare quanto può nei casi portati avanti a lei per proteggere i cittadini dagli effetti negativi di questa situazione» (11).
Inoltre, per effetto delle sentenze-pilota e delle sentenze prescrittive, la Corte struttura i propri interventi in modo da estendere la portata delle decisioni erga omnes e fornire il destro al giudice nazionale di un’immediata applicazione, proprio in quanto decisioni contenenti una disciplina puntuale (12); applicazione diretta della Convenzione e delle decisioni della Corte che, pur non spingendosi ancora verso l’esplicita disapplicazione di una norma interna, viene utilizzata per «colmare» una lacuna — ritenuta tale per effetto proprio di tale diretta applicazione — del diritto interno, com’è avvenuto nei casi di «maternità surrogata».
Se questa è la prospettiva, e cioè se l’obiettivo è quello, non di «ricercare», ma di «ricreare» un nuovo ordine giuridico, ponendo a fondamento la persona intesa come centro di desideri, soggettività estrema ed estremizzante, l’esito, non casuale, bensì ricercato, non può che essere la Babele del diritto, versione giuridica della dittatura del relativismo, dominata dall’«io e le sue voglie» (13), secondo la felice espressione dell’allora card. Joseph Ratzinger.
Note:
(1) Sabino Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Donzelli, Roma 2009, pp. 3-5.
(2) Robert H. Bork, Il giudice sovrano. Coercing virtue, trad. it., Liberilibri, Macerata 2004, p. 8.
(3) Ibid., p. 19.
(4) Ibidem.
(5) Gustavo Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino 1992, pp. 201-203.
(6) Francesco Gazzoni, Sancho Panza in Cassazione. Come si riscrive la norma sull’eutanasia, in spregio del principio della divisione dei poteri, in Il diritto di famiglia e delle persone, anno 37, n. 1, Milano gennaio-marzo 2008, pp. 107-131 (p. 121).
(7) Consultabile all’indirizzo Internet: <http:// www.cortedicassazione.it/ cassazione-resources/ resources/ cms/ documents/ INTERVENTO_PROCURATORE_GENERALE_2015_stat.pdf> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 13-7-2015).
(8) Cfr. il testo all’indirizzo Internet: <http:// www.venice.coe.int/ WCCJ/ Papers/ ECHR_Rozakis_E.pdf>.
(9) Relazione a cura di Giuseppe Bronzini, Maria Rosaria Guglielmi, Gualtiero Michelini, Valeria Piccone, consultabile all’indirizzo Internet: <http:// www.magistraturademocratica.it/ mdem/ upy/ farticolo/ INTRODUZIONE-SESSIONE-EUROPA.pdf>.
(10) Roberto Conti, Contrasto fra norma interna e CEDU: fra rilevabilità ex officio e controllo diffuso di convenzionalità, consultabile all’indirizzo Internet: <http:// www.questionegiustizia.it/ articolo/ contrasto-fra-norma-interna-e-cedu_fra-rilevabilita-ex-officio-e-controllo-diffuso-di-convenzionalita_24-02-2015.php>.
(11) Cfr. European Court of Human Rights, Annual Report 2014, Provisional Version, Foreword, Strasburgo 2015, all’indirizzo Internet: <http://www.juridice.ro/wp-content/uploads/2015/02/Annual_report_2014_ENG.pdf>.
(12) Cfr. sul punto l’ordinanza del 23-3-2013 del Tribunale di Roma, cit. in Pierpaolo Gori, Il ruolo del giudice ordinario dopo il parere della Corte di Giustizia C-2/13 del 18.12.2014, tra efficacia ed esecuzione delle sentenze CEDU, consultabile all’indirizzo Internet: <http:// www.questionegiustizia.it/ doc/ ruolo_giudice_dopo_corte_giustizia_2-13-2014.pdf>.
(13) Cfr. card. Joseph Ratzinger, Omelia della Messa pro eligendo romano Pontifice, del 18-4-2005, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 19-4-2005.