Lucia Rabboni, Cristianità n. 377 (2015)
A ognuno il suo (matrimonio)
Il testo unificato proposto dalla relatrice, sen. Monica Cirinnà, per i disegni di legge (d.d.l.) n. 14 e connessi, che non solo regolamenta il regime delle convivenze ma introduce anche, con innegabile slancio innovativo, l’istituto delle unioni civili fra le persone dello stesso sesso, va ben oltre il dichiarato intento di mettere l’Italia, che ancora non ha una disciplina sulle convivenze in genere e omosessuali in particolare, al passo con gli altri Paesi dell’Unione Europea.
Infatti, accanto alla disciplina delle convivenze, contenuta nel titolo II, contempla al titolo I le unioni civili, riservate alle persone dello stesso sesso, la cui disciplina ricalca per intero quella del matrimonio.
L’art. 3, comma 1, richiama, infatti, interamente le norme applicabili al matrimonio in tema di diritti e doveri nascenti dallo stesso e al comma 3, con una disposizione di chiusura che elimina ogni eventuale dubbio in ordine alla completa assimilabilità dei due istituti, prevede che «[…]le disposizioni contenenti le parole coniuge, coniugi, marito e moglie ovunque ricorrano nelle leggi nei decreti e nei regolamenti si applicano anche alla parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso». L’unica eccezione, contenuta nel citato comma 3 dell’art. 3, è rappresentata dall’art. 6 della legge n. 184 del 1983: vale a dire la norma che indica i requisiti soggettivi della coppia che può presentare domanda di adozione che, conseguentemente, deve essere una coppia di «coniugi».
Particolarmente di rilievo, per le conseguenti implicazioni in tema di adozione, è la circostanza che all’unione civile si applicano anche le disposizioni relative alla separazione e al divorzio. Il testo unificato del d.d.l. Cirinnà prevede all’art. 5 la possibilità per la parte dell’unione civile di accedere all’adozione ex art. 44, lettera b), della legge n. 184, ossia all’adozione del figlio del partner dello stesso sesso. Tale istituto non era stato previsto nel precedente testo del d.d.l.: evidentemente le audizioni delle associazioni a tutela dei diritti degli omosessuali che hanno con determinazione rivendicato la possibilità di accedere all’adozione cosiddetta interna — la stepchild adoption — hanno indotto il legislatore a riconoscere alle coppie di omosessuali unite in un unione civile tale prerogativa; peraltro in maniera così esplicita da apparire ridondante. Sarebbe, infatti, bastato — per ritenere sicuramente applicabile il predetto art. 44, lettera b), anche all’interno dell’unione civile — il già citato comma 3 dell’art. 3, che impone di estendere il riferimento al «coniuge» anche alla parte dell’unione civile.
Si è sentita, invece, la necessità di ribadirlo in un articolo appositamente dedicato, il 5, che recita: «all’art 44 lettera b) della legge 4 maggio 1983 n. 184 dopo la parola “coniuge” sono inserite le parole “o dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”». Appare, poi, significativo che il disegno di legge, non riconoscendo uguale prerogativa alle coppie conviventi — cosa che avviene in alcun Paesi dell’Unione Europea —, se da un lato manifesta una preferenza del legislatore, a tutela del minore, per situazioni che diano maggiori garanzie di riconoscibilità sociale e di stabilità, dall’altro lato dimostra di costruire l’unione civile, al di là del nomen iuris, come un vero e proprio matrimonio.
Adozione da parte di coppie same sex: è la Costituzione o l’Europa che ce lo chiede?
A fronte di una novità legislativa di tale portata, che sovverte il tradizionale ritratto della coppia idonea all’adozione come unita in matrimonio, e dunque eterosessuale — sia pure con esplicito riferimento solo all’adozione ex art. 44, lettera b), della legge n. 184, ma, come si dirà infra, con implicazioni inevitabili anche in tema di adozione legittimante — impone di chiedersi se tale innovazione sia necessitata al fine di porre l’Italia al ripario da eventuali condanne da parte della CEDU, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per contrasto della predetta legge con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 1950, o da censure d’incostituzionalità della legge sull’adozione nella parte in cui impedisce l’accesso all’istituto alle coppie non coniugate e, dunque, inevitabilmente, agli omosessuali.
Quanto al primo quesito occorre, allora, domandarsi se l’attuale impedimento per le coppie omosessuali di accedere all’adozione, derivante dalla impossibilità di accedere al matrimonio, violi un diritto protetto dalla Costituzione o direttamente o indirettamente attraverso il rinvio mobile, di cui all’art. 117, alle norme della CEDU. Giova premettere che non esiste un diritto all’adozione: nessuna fonte di diritto interno o sovranazionale lo contempla né per le coppie eterosessuali né per quelle omosessuali. Esiste invece il diritto del minore a una famiglia, così come testualmente recita il titolo della legge n. 184, che si pone semanticamente in opposizione con il diritto della coppia a un figlio.
Dalla lettura combinata degli articoli 1, comma 4, 2, 8 e seguenti della legge si ricava agevolmente che l’adozione è un istituto finalizzato a realizzare il diritto alla famiglia di un minore quando la sua famiglia«[…] non è in grado di provvedere alla sua crescita ed educazione»: il che equivale a dire quando il minore è in stato di abbandono in quanto«privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori». Nel caso in cui il minore sia solo temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo l’istituto al quale si fa ricorso è quello dell’affidamento (art. 2).
Anche le fonti internazionali prevedono il diritto del minore a ricevere una tutela sostitutiva in caso di mancanza o inefficienza della famiglia biologica. In particolare, l’art. 20 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, del 1989, prevede che «ogni fanciullo il quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare oppure non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse ha diritto ad una protezione e ad aiuti speciali dallo Stato.
«[…] Tale protezione sostitutiva può in particolare concretizzarsi per mezzo dell’affidamento familiare, della kafalah di diritto islamico, dell’adozione o, in caso di necessità, del collocamento in adeguati istituti per l’infanzia».
Quindi, ogni riflessione sulla legittimità della rivendicazione di accesso all’istituto dell’adozione da parte delle coppie omosessuali — oggi più di attualità, ma lo stesso è a dirsi con riferimento alle coppie eterosessuali non sposate e, in ultima analisi, anche con riferimento aisingle — deve tener conto di tale circostanza oltre che del principio, universalmente riconosciuto come ispiratore di qualsiasi decisione che coinvolga la vita di un minore, del best interest of child.
Al fine di sottoporre l’impianto normativo dell’adozione, come ridisegnata dalla novella della legge n. 184, a prova di resistenza costituzionale e sovranazionale — imposta dall’art. 117 della Costituzione in forza del rinvio mobile «ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» — appare opportuno ricordare i requisiti che deve possedere la coppia che voglia fare domanda di adozione, previsti dall’art. 6 della citata legge.
Nel nostro ordinamento l’adozione legittimante — quella, cioè prevista dai Titoli II e III della citata legge, rispettivamente nominati «dell’adozione» e «dell’adozione internazionale» — è consentita a tutela di un minore che sia stato dichiarato adottabile perché «in stato di abbandono» in Italia o all’estero e in favore di una coppia di coniugi uniti in matrimonio e in possesso delle ulteriori caratteristiche delineate nell’art. 6 e richiamate, quanto all’adozione internazionale, dall’art. 29-bis: differenza di età con l’adottando compresa fra i 18 e i 45 anni, idoneità affettiva e capacità di educare, istruire e mantenere il minore che intendono adottare. È evidente come il legislatore, al fine di realizzare l’interesse del minore, si sia non solo ispirato all’imitatio naturae ma abbia richiesto un requisito ulteriore di stabilità della relazione affettiva fra i genitori che, infatti, non basta siano uniti in matrimonio ma lo debbono essere da tre anni o, in alternativa, è necessario che abbiano stabilmente convissuto per lo stesso periodo di tempo senza che «[…] abbia avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto».
Il requisito, assolutamente inderogabile, caratterizzante la coppia aspirante all’adozione, è quello dell’essere unita in matrimonio. Ne consegue che non è possibile l’adozione da parte di coppie di conviventi, siano essi coppie eterosessuali o omosessuali.
Poiché, sia pure in assenza di una norma definitoria espressa, il nostro ordinamento prevede che possano essere uniti in matrimonio solo un uomo e una donna, appare evidente da un lato come il tema dell’accesso all’istituto dell’adozione legittimante da parte delle coppie omosessuali sia strettamente legato a quello della possibilità di queste ultime di accedere all’istituto del matrimonio e, dall’altro, come oggi non vi sia spazio alcuno per riconoscere la possibilità per consentire l’adozione legittimante di un minore da parte di coppie omosessuali.
Nessuna sentenza di merito «creativa» è riuscita a far breccia su tale impianto tanto semplice quanto inespugnabile se è vero — come è vero e come si vedrà — che è immune da censure d’incostituzionalità e rispettoso della normativa sovranazionale. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 138 del 2010 (1) ha, infatti, dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Venezia e dalla Corte d’Appello di Trento per violazione degli articoli 2, 3, 29 e 117 della Costituzione, con riferimento alle norme civilistiche in materia di matrimonio (articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis c.c.).
La Corte, in sintesi, non ravvisa alcuna violazione:
— non con riferimento all’art. 2 della Costituzione: se, infatti, «[…]l’unione omosessuale intesa come stabile convivenza fra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone — nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge — il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri» rientra nella nozione di «formazione sociale»in cui si estrinsecano i diritti inviolabili dell’uomo, «si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento — che necessariamente postula una disciplina di carattere generale finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia — possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. […]
«Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette».
— non con riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione: premette la Corte che «[…] è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati non solo tenendo conto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi»; tuttavia, «detta interpretazione […] non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata. […]
«I costituenti, elaborando l’art 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942 che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. […]
«Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad una interpretazione creativa.
«Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto». Conseguentemente, continua la Corte, la normativa civilistica che contempla esclusivamente il matrimonio fra uomo e donna non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale e «ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono considerarsi omogenee al matrimonio».
Infine, quanto al parametro riferito all’art. 117 della Costituzione che il rimettente riterrebbe violato per mancato rispetto della normativa sovranazionale — in particolare dell’art. 12 («Diritto al matrimonio») della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dell’art. 9 («Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia») della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, detta anche Carta di Nizza —, osserva la Corte: «Orbene, l’art. 12 dispone che “Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”.
«A sua volta l’art. 9 stabilisce che “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio” […]
«Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che “L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso”.
«Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna.
«Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento».
I princìpi contenuti in tale sentenza — che si è tentato di mettere in discussione alla luce della successiva evoluzione giurisprudenzale della CEDU — sono stati riattualizzati dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 2400 del 30 ottobre 2014, nella quale la Suprema Corte — nel respingere il ricorso di una coppia di omosessuali avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma che, confermando la sentenza di primo grado, ne respingeva la richiesta di pubblicazioni di matrimonio — sostanzialmente ribadisce che le unioni omosessuali godono di riconoscimento costituzionale, in quanto rientranti nelle formazioni sociali di cui all’art 2 della Costituzione, ma è da escludere che tale riconoscimento imponga di applicare nei loro confronti lo statuto dei diritti e doveri riservati al matrimonio (2).
La Corte continua affermando che — rilevata «la legittimità costituzionale e convenzionale della scelta del legislatore ordinario in ordine alle forme e i modelli all’interno dei quali predisporre per le unioni tra persone dello stesso sesso uno statuto di diritti e doveri coerente con il rango costituzionale di tali relazioni» — deve escludersi, come invece prospettato dai ricorrenti, la possibilità di una creazione giurisprudenziale volta ad estendere l’unione coniugale anche a persone dello stesso sesso, «[…] risultando tale operazione ben diversa da quella consentita […] di adeguamento ed omogeneizzazione nella titolarità e nell’esercizio dei diritti»; rimane, dunque, riservata al legislatore la scelta della tutela da apprestare le unioni omoaffettive.
Né diversi argomenti — anche se la sentenza è stata valorizzata dai movimenti a tutela dei diritti delle persone LBGTI (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender e Intersessuali) come una importante apertura verso il matrimonio omosessuale — si traggono dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 4184 del 15 marzo 2012 con la quale la Corte medesima ha rigettato la trascrizione di un matrimonio contratto all’estero fra persone dello stesso sesso. La Corte, infatti, pur escludendo, diversamente dal passato, la contrarietà all’ordine pubblico del titolo matrimoniale estero in ragione dell’evidenziato processo di costituzionalizzazione delle unioni omosessuali, affermava però l’inidoneità dello stesso a produrre nel nostro ordinamento gli effetti del vincolo matrimoniale.
Fino a oggi, dunque, l’ordinamento italiano, con il costruire l’istituto del matrimonio come unione fra un uomo e una donna — con attribuzione alla coppia sia nei rapporti interni sia in quelli esterni di una serie di prerogative, ivi compresa quella di accedere all’adozione, del tutto diverse da quelle delle coppie conviventi di fatto (omosessuali o eterosessuali) anche in ragione della funzione sociale rivestita della famiglia, i cui «fondatori» abbiano preso pubblicamente un impegno di fronte alla comunità — è al riparo da censure d’incostituzionalità.
Ma tale costruzione regge anche al vaglio della giurisprudenza delle Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che da sempre ha svolto un ruolo di propulsione degli ordinamenti dei singoli stati verso uno standardnormativo condiviso e avanzato di difesa dei diritti fondamentali della persona.
Dall’esame della giurisprudenza della CEDU negli ultimi decenni si nota un progressivo e sempre più ampio riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali sia come singoli sia come coppia. Gli omosessuali, in quanto riconosciuti capaci, al pari degli eterosessuali, di unioni stabili e durature e dunque meritevoli di riconoscimento legale e protezione della loro unione, hanno diritto alla «vita familiare» (art. 8 della Convenzione per i diritti dell’uomo).
Inoltre, la Corte ha fatto in materia rigorosissima applicazione del canone antidiscriminatorio di cui all’art. 14 della Convenzione — pur nella riconosciuta mancanza di un consensus europeo che normalmente nella giurisprudenza della Corte legittima il riconoscimento alle legislazioni interne di ampi margini di discrezionalitá — per il quale a situazioni assimilabili dev’essere riservato un uguale trattamento legislativo e pertanto, in materia di matrimonio e adozione, la vita familiare delle coppie omosessuali deve essere tutelata al pari di quella delle coppie eterosessuali in una situazione similare. Tuttavia, i giudici di Strasburgo hanno sempre ribadito che il diritto di sposarsi di cui all’art. 12 della Convenzione è riconosciuto a uomini e donne in età maritale secondo le leggi nazionali.
Nella sentenza del 24 giugno 2010, Schalk and Kopf contro Austria, viene affermato per la prima volta che la coppia omosessuale ha diritto non solo alla vita privata ma anche alla vita familiare. Ma nel diritto alla vita familiare di cui all’art 8 della CEDU, non vi si può ricomprendere il diritto a sposarsi. Infatti, argomenta la Corte, l’art. 12 della Convenzione prevede espressamente che la disciplina del matrimonio è rimessa alla discrezionalità del legislatore nazionale trattandosi di istituto strettamente legato alle tradizioni dei singoli ordinamenti. E però l’art 12, in considerazione dell’evoluzione della società, deve essere interpretato nel senso che il diritto a contrarre matrimonio può essere riconosciuto anche alle coppie omosessuali.
Il diritto alla vita familiare non comprende neppure il diritto ad adottare.
Anche in materia di adozione si è andata registrando una significativa evoluzione della giurisprudenza della Corte che inizialmente, infatti, in diverse decisioni, si era dichiarata incompetente a pronunciarsi su questioni relative alla violazione di pretesi diritti relativi alla genitorialità adottiva rilevando che, ratione materiae, sono estranei alla tutela della Convenzione (così nella sentenza Di Lazzaro contro Italia del 1997).
Nella più recente sentenza X and Others versus Austria, del 19 febbraio 2013 (3), la Corte ha, infatti, riconosciuto la tutela della filiazione adottiva come rientrante nelle materie a tutela convenzionale.
Ribadita la libertà degli Stati nel disciplinare o meno il matrimonio omosessuale, i giudici di Strasburgo hanno riaffermato il principio che gli Stati ben possono riconoscere al matrimonio uno status speciale riconducendovi effetti diversi da quelli previsti per gli altri tipi di unione, trattandosi una materia sensibile sulla quale manca unconsensus europeo.
Tuttavia, i giudici fanno una rigorosissima applicazione del principio antidiscriminatorio, ravvisandone la violazione da parte dell’ordinamento austriaco, che riconosceva la possibilità di adozione co-parentale solo fra coppie eterosessuali. La Corte, in sintesi, afferma che è possibile che la normativa nazionale persegua l’obiettivo di tutela della «famiglia tradizionale», trattandosi di uno scopo legittimo, ma ciò deve fare prestando molta attenzione a non violare il canone antidiscriminatorio di cui all’art. 14 della CEDU.
La disciplina del matrimonio e delle convivenze può essere differente in base agli elementi che le caratterizzano — in termini di stabilità, diritti e obblighi reciproci, possibilità di crescere e adottare minori — ma tale diversità non può fondarsi su motivi di sesso o di orientamento sessuale.
Ma nel momento in cui si dovessero riconoscere delle prerogative alle coppie di conviventi, anche quindi relativamente all’accesso all’adozione, queste devono essere riconosciute anche alle coppie omosessuali.
La vita familiare della coppia omosessuale deve essere tutelata al pari di quella di coppie eterosessuali che si trovano in una situazione similare.
Nella sentenza Gas e Dubois contro Francia, del 29 marzo 2012, la Corte, facendo uguale applicazione del principio antidiscriminatorio, era arrivata a conclusioni opposte non ritenendo discriminatorio il divieto di accedere all’adozione opposto ad una coppia di lesbiche la cui unione era stata registrata in quanto l’ordinamento francese riservava alle sole coppie coniugate la possibilità di adottare: la situazione di chi è sposato e di chi non lo è non sono, infatti, assimilabili.
La soluzione che il Parlamento italiano si accinge ad adottare, dunque, non solo risulta non obbligata dal punto di vista costituzionale e comunitario, ma si assestata anche su di una frontiera massimamente avanzata nel panorama mondiale di tutela dei diritti delle persone LGBTI.
Tanto si ricava anche dalla lettura della risoluzione del Parlamento Europeo del 12 marzo 2015, che nella relazione sui diritti umani e sullo stato della democrazia nel mondo affronta il tema dei diritti delle persone LGBTI, includendo fra i diritti umani quelli legati al mondo della identità affettiva delle persone medesime.
Si legge che il Parlamento Europeo «accoglie positivamente l’adozione, nel giugno del 2013, degli orientamenti dell’Unione per la promozione e la tutela dell’esercizio di tutti diritti umani da parte di lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali»; «prende atto della legalizzazione del matrimonio civile tra persone dello stesso sesso in un numero crescente di paesi, attualmente 17, ed incoraggia le istituzioni e gli Stati membri dell’unione a contribuire ulteriormente alla riflessione sul riconoscimento del matrimonio o delle unioni civili fra persone dello stesso sesso in quanto questione politica, sociale e di diritti umani e civili»; «invita la commissione e l’OMS a eliminare i disturbi dell’identità di genere dall’elenco dei disturbi mentali e comportamentali».
Dunque, se è vero che il Parlamento Europeo incoraggia gli Stati a dare riconoscimento giuridico alle unioni omoaffettive, tuttavia ritiene che tale obiettivo possa essere perseguito attraverso il riconoscimento sia del matrimonio sia delle unioni civili. Se tale espressione non deve essere considerata un’endiadi, il Parlamento Europeo ha inteso con ciò fare riferimento alla possibilità da parte dei singoli Stati di procedere o a una completa assimilazione fra le coppie omosessuali e quelle eterosessuali con possibilità di accesso al matrimonio per entrambe, ovvero al riconoscimento per l’unione omoaffettiva di uno statuto di diritti e doveri diversi dal matrimonio.
Disegno di legge Cirinnà: specchio dei tempi o specchio per le allodole (ma non per la CEDU)?
Il disegno di legge che il Parlamento appare prossimo ad approvare nasconde un’insidia.
Viene riconosciuta non solo una disciplina delle convivenze registrate, accessibile alle coppie sia eterosessuali sia omosessuali, ma anche uno statuto di diritti e doveri concepito su ricalco dell’istituto matrimoniale, riservato alle persone omosessuali. Non si opta, però, per la scelta, intellettualmente più onesta, di chiamare matrimonio ciò che di fatto lo è ma che viene chiamato «unione civile».
Ora, se lo stesso Parlamento Europeo nella citata risoluzione invita gli Stati a riconoscere «il matrimonio o le unioni civili fra persone dello stesso sesso», deve escludersi — anche perché molti Stati non danno ancora nessun riconoscimento alle convivenze — che tale espressione sia iterativa. Il Parlamento intende distinguere chiaramente uno statuto di diritti e doveri «rinforzato», quale quello matrimoniale, da un riconoscimento di diritti e doveri diversi da quelli riservati al matrimonio.
Tale confusiva scelta terminologica — che viene il sospetto sia voluta per tacitare quanti siano ancora convinti che il paradigma eterosessuale dell’istituto matrimoniale sia a tutela del «legittimo scopo» (così ancora oggi definito dalla CEDU) di difesa della famiglia tradizionale e dell’interesse del minore — certamente non confonderà la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, una volta verificata la completa assimilazione fra unione civile e matrimonio non tarderà a condannare l’Italia per violazione del canone antidiscriminatorio qualora venga adita da una coppia omosessuale legata da unione civile che si sia vista rifiutare in Italia l’accesso all’adozione.
Non è cioè possibile — argomenterà molto verosimilmente la Corte — che da situazioni sostanzialmente assimilabili derivino effetti diversi, anche in materia di adozione, in ragione del solo orientamento sessuale.
Tanto premesso, è ora da chiedersi se tale iniziativa legislativa — come si è visto non obbligata alla luce delle sempre più avanzate frontiere della tutela dei diritti delle persone LGBTI — sia lo specchio di una communis opinio di favore della società italiana rispetto all’accessibilità da parte delle coppie omosessuali a istituti come matrimonio ed adozione.
Se la principale funzione del diritto è quella di regolamentare gli eventi che via via la storia e i mutamenti sociali presentano, al fine del mantenimento di un’ordinata convivenza sociale, è davvero possibile affermare che, alla luce dell’attuale evoluzione sociale e dei costumi, esista sulla materia un consensus nazionale che reclama un intervento legislativo sul punto?
Quanti sostengono che con tale iniziativa legislativa non si stia facendo altro che adeguare l’ordinamento al mutamento dei costumi, traggono argomenti di conferma da alcune pronunce sia di merito sia di legittimità con le quali si sarebbe già arrivati, per via giurisprudenziale, a dare riconoscimento alla genitorialità omosessuale. Così la sentenza della Corte di Cassazione n. 601 del 2013 è stata considerata addirittura «storica» dall’Arcigay e Guida al diritto ne intitolava il commento: «Cassazione, sì all’affido alla coppia omosessuale: il bambino cresce bene» (4). Titolo assolutamente fuorviante, in quanto non si trattava affatto di un affido a coppia omosessuale ma a madre omosessuale, né vi era una apodittica affermazione della bontà del contesto omosessuale ma semmai della necessità che la dannosità del contesto omosessuale in cui la madre esprimeva la sua genitorialità nei confronti del figlio naturale dovesse essere provata.
La Corte aveva, infatti, respinto il ricorso di un padre di religione musulmana il quale aveva impugnato la decisione della Corte d’Appello di Brescia che aveva affidato in via esclusiva il figlio minore alla madre, una ex tossicodipendente, che conviveva stabilmente con una delle educatrici conosciute nella comunità di recupero. La Corte aveva respinto il ricorso, dichiarando inammissibili tutti i motivi di gravame. In particolare, per quanto qui rileva, respingeva per genericità anche il terzo motivo con il quale il ricorrente denunciava la violazione degli articoli 342 e 155-bis c.c. da parte della decisione della Corte d’Appello che aveva dichiarato inammissibile, sempre per genericità, la doglianza ivi sollevata con la quale il padre aveva lamentato la mancata valutazione del contesto familiare in cui era inserito il minore.
Motiva la Corte che «il ricorso è una riproposizione di quello presentato al giudice di seconde cure senza alcuna specificazione delle ripercussioni negative sul piano educativo e della crescita del bambino dell’ambiente familiare in cui questo viveva presso la madre dunque generico in quanto alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o di esperienza, bensì il mero pre-giudizio che sia dannoso per il minore vivere in una famiglia incentrata su di una coppia omosessuale dando così per scontato ciò che invece è da dimostrare ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino» (5).
In realtà, la decisione della Corte investe una situazione fattuale e di diritto del tutto diversa da quella oggetto delle odierne riflessioni: come abbiamo sottolineato la rivendicazione di accesso all’istituto dell’adozione non si collega a una preeesistente posizione soggettiva giuridicamente azionabile, non esiste un diritto ad adottare o, comunque, ad avere un figlio. Si discute, cioè, della possibilità o meno di creare ex novo uno status filiationis.
Del tutto diversa è la situazione portata all’attenzione della Corte di Cassazione, dove vi erano due genitori che si contendevano il diritto all’affidamento esclusivo del figlio, argomentando il padre a suo sostegno che la madre era inidonea al ruolo in ragione della sua omosessualità.
Nel caso all’attenzione della Suprema Corte l’interesse del minore andava contemperato con il diritto del genitore a esprimere la propria responsabilità genitoriale senza limitazioni rivenienti in maniera discriminatoria dal suo essere omosessuale. Il padre avrebbe dovuto provare la dannosità del contesto omosessuale nel quale il bambino era inserito presso la madre e non presumerla soltanto.
La Corte di Cassazione non ha fatto altro che dare precisa applicazione dei criteri antidiscriminatori ampiamente applicati dalla CEDU.
Giá nel 1996, del resto, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la decisione Salgueiro da Silva Mouta contro Portogallo aveva condannato lo Stato per aver deciso di escludere dalla custodia della figlia il padre divorziato omosessuale, convivente con un altro uomo, sulla base del solo orientamento sessuale dello stesso. La Corte aveva ritenuto che porre alla base di una decisione sulla custodia di un figlio l’orientamento sessuale di uno dei genitori costituisse un’interferenza ingiustificabile con la vita privata del genitore e confliggesse con l’adozione di una decisione adottata unicamente nel reale interesse della prole.
Altra sentenza, questa volta di merito — ampiamente valorizzata nell’ottica di ritenere l’attuale contesto socio-culturale e giudiziario ormai maturo per uno svincolo del concetto di famiglia dal paradigma eterosessuale —, è la n. 299 del Tribunale per i Minorenni di Roma emessa il 30 luglio 2014 (6), che ha sostanzialmente introdotto nel nostro ordinamento per via interpretativa la cosiddetta stepchild adoption, attraverso un ardito disancoraggio della situazione fattuale sottostante da una condizione di privazione di cure parentali da parte del minore, essendo ormai da anni superato dalla giurisprudenza il requisito della impossibilità di fatto dell’affidamento preadottivo.
Ma anche qualora si avesse del diritto una concezione «propulsiva» — e dunque non solo di regolamentazione e tutela delle situazioni costituite ma anche di orientamento delle stesse verso un determinato obiettivo — bisognerebbe quantomeno sottoporre a verifica di certa desiderabilità e bontà l’obiettivo verso il quale si ritiene giusto che l’ordinamento debba spingere.
Va ribadito che, in materia di adozione, dove, come si è visto, non vi sono diritti degli adulti da tutelare, l’obiettivo non può che essere garantire il benessere e la protezione dei diritti del minore. Bisogna, dunque, chiedersi se sia sicuramente auspicabile — o quantomeno indifferente — che dei bambini possano essere cresciuti da coppie omosessuali.
Inserire il dibattito sulla possibilità per le coppie omosessuali di accedere all’adozione nell’ambito di quello più ampio sul riconoscimento dei diritti delle persone LGBTI, è fuorviante perché nessuna norma nazionale né sovranazionale riconosce il diritto a un figlio, e ciò tanto per le coppie eterosessuali quanto per quelle omosessuali. La circostanza che con le tecniche di fecondazione assistita, anche eterologa, e di maternità surrogata sia possibile divenire genitori, laddove solo qualche decennio fa sarebbe stato impossibile, non equivale a dire che vi sia oggi un diritto ad avere un figlio.
Esiste, invece, il diritto del minore a una famiglia: innanzitutto la propria, che l’ordinamento ha il dovere di difendere e di aiutare nell’espletamento del suo ruolo sociale e, secondariamente, ove la famiglia biologica sia irreversibilmente incapace di assolvere al ruolo o francamente nociva, una famiglia adottiva.
Per essere posto correttamente il problema sull’opportunità o meno di permettere l’accesso all’adozione da parte delle coppie omosessuali, bisogna chiedersi se per tale via si realizza il best interest of child, che vedrebbe incrementato il numero delle coppie disponibili ad adottarlo.
Interesse del minore e buona genitorialità adottiva
Preliminarmente è necessario sgombrare il campo dall’inganno contenuto nell’affermazione, demagogicamente abusata, che per un bambino abbandonato è comunque assai meglio vivere con una coppia omosessuale che rimanere in istituto: si tratta di affermazione vera in linea di principio ma fondata sul falso presupposto che i minori accolti nelle strutture educative siano tutti dichiarati, o in odore di essere dichiarati, adottabili. Così invece non è, spessissimo si tratta di minori la cui famiglia, pur in difficoltà e spesso in maniera irreversibile, non è comunque abbandonica: per tali minori sarebbero necessarie famiglie disponibili all’affidamento, che la concreta esperienza dimostra come sia difficile reperire.
I dati statistici delle adozioni nazionali evidenziano una netta sperequazione fra il numero di coppie aspiranti all’adozione e i bambini dichiarati adottabili a netto sfavore delle prime: per ogni bambino dichiarato adottabile vi sono svariate coppie in attesa.
Anche sul fronte delle adozioni internazionali il numero dei bambini dichiarati adottabili è diminuito come risulta dai dati forniti dalla CAI, la Commissione Adozioni Internazionali: ciò, come ha esplicitato Silvia Della Monica, vicepresidente della CAI, in un’intervista alla rivista Vita, nel dicembre del 2014, in parte è dovuto alla crisi economica, che scoraggia le coppie ad avviarsi sulla strada della non economica adozione internazionale, e molto anche al cambiamento del contesto internazionale che fa sì che siano diminuiti i bambini dichiarati adottabili all’estero. Si assiste, infatti, nei Paesi di origine a un complessivo elevarsi della sensibilità politica e istituzionale con conseguenti modifiche normative di maggior tutela dei diritti dei minori.
Tanto premesso, la valutazione del miglior interesse del minore, in questo caso di un minore abbandonato, deve necessariamente essere preceduta dalla tipizzazione del minore «dichiarato in stato di abbandono».
Se anche la locuzione «minore abbandonato» sembra romanticamente evocare il pargoletto derelictus sui gradini di una chiesa o consegnato alla ruota degli esposti, la realtà giudiziaria dimostra invece che i numeri degli abbandoni in ospedale da madri che non intendono essere nominate sono assai bassi: le sentenze dei tribunali per i minorenni raccontano, invece, di infinite declinazioni dell’abbandono che vanno da quello del volontario non riconoscimento attraverso la vasta gamma dell’incuria, dell’esposizione a violenza assistita per finire ai maltrattamenti e agli abusi sessuali.
È evidente che delineare il profilo psicologico di un minore adottabile non è compito facile, essendo influenzato da molteplici variabili quali l’età del bambino al momento dell’abbandono, le sue caratteristiche personologiche, la lunghezza del periodo durante il quale è rimasto in una situazione di istituzionalizzazione, la qualità di quest’ultima, l’esposizione a maltrattamento, la durata della stessa, la gravità della violenza patita.
Il legislatore, che ha genericamente delineato la figura del bambino adottabile come quella di un minore «privo di assistenza morale e materiale», altrettanto genericamente ha delineato il profilo della coppia che, astrattamente, è idonea ad adottarlo. L’art. 6 della legge 184 del 1983, in maniera generale e astratta com’è proprio della norma giuridica, tratteggia le caratteristiche dei genitori adottivi: questi — a prescindere dalla condizione di essere uniti in matrimonio e dunque eterosessuali, requisito della cui derogabilità stiamo appunto ragionando — devono essere legati da un vincolo stabile — attualmente tre anni di matrimonio o di precedente convivenza senza che sia intervenuta separazione anche di fatto; avere una differenza di età con l’adottato compresa fra i 18 e i 45 anni, essere «capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare», oltre che«affettivamente idonei» per gli stessi, ossia capaci di accogliere senza riserve il bagaglio di sofferenza che il bambino porta con sé e di porre in essere adeguate risposte affettive ed educative in grado di riparare i traumi che, quasi sempre, i minori dichiarati adottabili portano seco.
Prima del decreto legislativo n. 154 del 2013 nel confronto fra i doveri dei genitori come tratteggiati dall’art. 147 c.c e quelli di una coppia aspirante all’adozione, come tratteggiati dall’art. 6 della legge n. 184, colpiva la comune previsione del dovere dei genitori di «mantenere istruire ed educare i figli» ma solo per quelli aspiranti all’adozione di una loro «idoneità affettiva»: si trattava, cioè di una più esplicita sottolineatura della capacità dell’aspirante genitore adottivo di entrare in una relazione empatica con il minore abbandonato, di esprimere una affettività accogliente e riparatrice. La novella del 2013 ha valorizzato l’aspetto «affettivo-relazionale» della relazione genitori-figli anche con riferimento ai genitori biologici, aggiungendo ai tradizionali doveri di questi ultimi pure quello di «assistere moralmente» i figli «nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni».
Agli aspiranti genitori adottivi non è richiesto nulla di più che ai genitori naturali: la differenza sta nel fatto che mentre nel caso di genitori biologici l’idoneità affettiva è, per così dire, presunta — di talché solo quando la stessa manchi e si traduca nel venir meno al dovere di «assistenza morale» nel senso prima esposto con conseguente pregiudizio per il minore, è consentito l’intervento del giudice che, accertata la mancanza in concreto dell’idoneità affettiva, può adottare provvedimenti limitativi della potestà — nel caso di aspiranti genitori adottivi, invece, l’idoneità affettiva deve essere accertata ex ante come presupposto per il riconoscimento dell’idoneità all’adozione.
La norma non richiede che gli aspiranti adottivi siano semplicemente«affettivamente validi», con ciò intendendo che il funzionamento della loro affettività non sia compromesso, ma che siano «affettivamente idonei».
Il concetto d’idoneità implica un giudizio di relazione: non si può, infatti, essere idonei in assoluto, si può essere idonei solo rispetto a qualcosa o a qualcuno: nel caso di specie i coniugi devono essere affettivamente idonei per «i minori che intendono adottare». Il giudice, pur potendo dare nel decreto di idoneità delle «indicazioni per favorire il migliore incontro fra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare», tuttavia è chiamato a formulare un giudizio di idoneità in astratto: la coppia deve, cioè essere valutata idonea ad accogliere non quel bambino in particolare, giacché l’abbinamento avviene in una fase successiva alla valutazione di idoneità, ma un bambino dichiarato in stato di abbandono.
Il miglior interesse del minore passa, dunque, attraverso una prima valutazione astratta della idoneità delle coppie aspiranti all’adozione — che nel caso dell’adozione internazionale si traduce in un decreto di idoneità o inidoneità all’adozione medesima — da effettuarsi attraverso un approccio multidisciplinare del quale, chi è quotidianamente impegnato sul campo conosce bene oltre che le potenzialità anche i limiti, strettamente collegati alla professionalità degli operatori psico-sociali coinvolti e chiamati a offrire al giudice «elementi utili per la valutazione»; solo successivamente fra le suddette coppie ed in concreto, il giudice ovvero l’ente autorizzato, andrà a scegliere «quella maggiormente in grado di corrispondere alle esigenze del minore».
I Tribunali per i minorenni, del formulare il giudizio d’idoneità o inidoneità della coppia aspirante all’adozione — o, nell’adozione nazionale, nell’abbinamento fra il minore e la coppia —, fanno larga applicazione delle ormai pacifiche acquisizioni scientifiche che delineano prognosticamente una genitorialità adottiva sufficientemente buona (7).
Non diversamente, dunque, sarebbe a farsi nei confronti di aspiranti genitori adottivi omosessuali: con la differenza che sul punto non vi è allo stato letteratura scientifica che faccia assurgere i risultati dei pur numerosi studi effettuati in tutto il mondo negli ultimi trent’anni a conclusioni certe o almeno massimamente condivise in merito alla indifferenza per un bambino fra l’essere cresciuto da una coppia eterosessuale o da una omosessuale.
Ora, non vi è dubbio che un genitore omosessuale potrà essere capace di affettività, sensibilità, capacità di accoglienza al pari di uno eterosessuale ma non vi è allo stato alcuna certezza che la crescita di un bambino da parte di una coppia omosessuale — che privando il minore dell’innegabile dato della varietà di genere, tanto più grave nell’attuale società dominata da famiglie nucleari che molto raramente possono valersi della convivenza con altri familiari in grado di bilanciare la rappresentatività sessuale mancante, e con il suo discostarsi dal modello familiare assolutamente prevalente, costringendo il minore ad uscire, per così dire, dalla sua «zona dicomfort» — possa essere per il minore del tutto equivalente a quella eterosessuale.
Pur essendo stati condotti, come si è detto, diversi studi sul punto, specialmente negli Stati Uniti d’America, molti di questi non rispondono agli standard richiesti per un’affidabile ricerca in materia psicologica e molti sono connotati da una matrice ideologica o fortemente a favore dei diritti degli omosessuali o condizionata da una visione clericale della famiglia.
L’A.P.A, l’American Psychological Association, ha pubblicato nel 2008 uno studio della professoressa, oltre che attivista lesbica, Charlotte J. Patterson della University of Virginia, la quale, a conclusione di una ricognizione delle ricerche più significative compiute sul tema della genitorialità omosessuale, così affermava: «In sintesi, non c’è alcuna prova che le lesbiche e i gay siano inadatti ad essere genitori o che lo sviluppo psicologico dei figli di omosessuali sia compromesso in qualche suo aspetto […]. Non esiste un solo studio che abbia rilevato che i figli di omosessuali sono svantaggiati in qualche aspetto significativo rispetto ai figli di genitori eterosessuali» (8).
Tuttavia, la stessa Patterson riconosceva più oltre «[…] che la ricerca sui genitori omosessuali e i loro figli è ancora molto recente e relativamente scarsa […]. Studi longitudinali che seguono famiglie di gay e lesbiche nel tempo sono assolutamente necessari», sottolineando anche come vi siano più studi su coppie di lesbiche che non di gay e come studi sull’adolescenza e l’età adulta di figli di lesbiche e gay siano ancora scarsi.
La stessa Patterson, inoltre, ammette che molti di tali studi sono stati criticati dal punto di vista metodologico per il numero insufficiente di campioni con conseguente scarsa validità statistica, per le modalità di campionamento (9), per la mancanza di gruppi di controllo e per la mancanza di anonimato.
Ciononostante, la Patterson giunge ad affermare che «anche con tutte le domande e/o limitazioni che possono caratterizzare la ricerca in questa area, nessuna delle ricerche pubblicate suggerisce conclusioni differenti da quelle che abbiamo precedentemente esposto».
La rivista francese L’Encephale, nel pubblicare nel febbraio del 2012 un articolo con il quale forniva una panoramica degli studi esistenti sulla genitorialità omosessuale, sottolineava che le ricerche effettuate presentano problemi metodologici ma che, sia pure con i limiti prima evidenziati, dimostrano che mentre i bambini allevati da coppie di lesbiche non hanno evidenziato differenze in tema d’identità di genere, di sviluppo emozionale, comportamentale, di funzioni cognitive e capacità sociali rispetto ai bambini eterosessuali, quelli cresciuti da padri gay, invece, generalmente dimostrano differenze di orientamento sessuale e conseguenze psicologiche (10).
Sul fronte opposto della difesa del paradigma eterosessuale della buona genitorialità si colloca il sociologo dell’Università del Texas Mark Regnerus, il cui studio — basandosi sul più grande campione rappresentativo casuale a livello nazionale consistente in interviste dei figli, ormai cresciuti, di genitori omosessuali — ha dimostrato, invece, un significativo aumento di problematiche psico-fisiche rispetto ai figli di coppie eterosessuali (11). Tale studio è stato fortemente contestato e il movimento LGBTI ha avviato una fortissima campagna di delegittimazione, accusando il professore di essere condizionato dalla sua estrazione cattolica. Tuttavia, l’indagine interna dell’Università del Texas riconosceva la legittimità del lavoro e la fedeltà al protocollo seguita dalla metodologia di Regnerus (12).
Basterebbero le considerazioni sopra svolte in merito alla mancata evidenza scientifica dell’indifferenza per il minore dell’esser cresciuto da una coppia eterosessuale o omosessuale, per indurre un legislatore di media avvedutezza a frenare l’inopportuna accelerazione che porterebbe l’Italia da retrovia della tutela dei diritti delle persone LGBTI ad avanguardia totalmente dimentica del best interest of child. Più opportuno sarebbe attendere di vedere quali dati consegnerà nel prossimo futuro l’esperienza di quei Paesi dove l’adozione omosessuale è da anni possibile con il conseguente auspicabile formarsi di una più seria letteratura scientifica sul tema della genitorialità omosessuale.
Note:
(1) Cfr. Corte Costituzionale, Sentenza 15 aprile 2010 n. 138, inGiurisprudenza costituzionale (Giur. Cost.), anno 55, fasc. 2, Milano marzo-aprile 2010, pp. 1604-1628.
(2) «Il processo di costituzionalizzazione delle unioni fra persone dello stesso sesso non si fonda, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, sulla violazione del canone antidiscriminatorio dettata dall’inaccessibilità al modello matrimoniale, ma sul riconoscimento di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e sulla riconducibilità di tali relazioni nell’alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana» (<http:// dirittocivilecontemporaneo.com/ wp-content/ uploads/ 2015/02/ Cass.-matrimonio-omosessuale.pdf>). (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 13-7-2015)
(3) Due donne, unite da una stabile relazione omosessuale, lamentavano il rigetto della richiesta avanzata da una di loro di adottare il figlio dell’altra senza rottura del legame giuridico fra madre biologica e figlia (adozione cosiddetta co-genitoriale). La Corte, osservando innanzi tutto che in Austria, diversamente che in altri Paesi europei, non è consentito il matrimonio fra coppie omosessuali, e richiamando l’art. 3, par. I, della Convenzione dei diritti del fanciullo di New York, in base al quale il canone da tenere in maggiore considerazione è costituito dal miglior interesse del minore, ha ritenuto discriminatoria, per violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 della CEDU, la legge austriaca che non consente l’adozione in tali casi, concessa invece alle coppie di fatto eterosessuali (consultabile in lingua inglese all’indirizzo Internet: <http:// hudoc.echr.coe.int/ sites/ eng/ pages/ search.aspx?i=001-116735>).
(4) Cfr. alla pagina Internet: <http:// www.diritto24.ilsole24ore.com/ guidaAlDiritto/ civile/ famiglia/ primiPiani/ 2013/01/ cassazione-si-allaffido-alla-coppia-omosessuale-il-bambino-cresce-bene.php?refresh_ce=1>.
(5) Consultabile all’indirizzo Internet: <http:// static.ilsole24ore.com/ docstore/ Professionisti/ AltraDocumentazione/ Body/ 13700001-13800000/13745189.PDF>.
(6) Con la pronuncia in questione è stata riconosciuta in via interpretativa la possibilità alla compagna lesbica di una donna madre di una figlia avuta con fecondazione artificiale nell’ambito di un progetto di «genitorialità condivisa» di adottare la minore facendo ricorso all’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983.
(7) È dimostrato che anche il semplice abbandono, il non avere sperimentato una «base sicura» nella relazione con il genitore, è suscettibile di creare nel bambino dei modelli operativi interni che possono rendere difficile la relazione con il genitore adottivo innescando, ove quest’ultimo non sia adeguatamente capace e preparato, dei meccanismi di rifiuto e così autoalimentando una spirale negativa. Ecco, dunque, che il genitore deve essere sensibile, disponibile, capace d’integrare nella nuova realtà familiare il bambino. Deve essere capace di un’educazione flessibile, capace di prevedere il rischio insito sì in ogni processo generativo ma più che mai nell’adozione. Deve avere abbandonato l’idea di una genitorialità biologica aprendosi all’adozione in maniera esclusiva: mentre le tecniche della Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) rispondono all’esigenza di genitorialità della coppia, l’adozione risponde all’esigenza di famiglia di un bambino abbandonato.
(8) Charlotte J. Patterson, Lesbian and Gay Parenting, all’indirizzo Internet: <http:// familyproject.ch/ files/ Charlotte%20Patterson.pdf>.
(9) Non casuali e dunque non rappresentativi ma spesso su base volontaristica e quindi condotti su chi aveva interesse a dimostrare la bontà di quanto si andava a provare: così quelli di Laura Lott-Whitehead e Carol T. Tully Norman L. Wyers.
(10) Cfr. Guillaume Fond, Nathalie Franc, Diane Purper-Ouakil,Homoparentalité et développement de l’enfant: données actuelles, inL’Encephale. Revue de psychiatrie clinique biologique et thérapeutique, anno 38, n. 1, febbraio 2012, pp. 10-15.
(11) All’indirizzo Internet: <http:// www.markregnerus.com/ uploads/ 4/0/6/5/4065759/ regnerus_july_2012_ssr.pdf>.
(12) Il 29 agosto 2012, sul sito web dell’Università del Texas compariva un comunicato, in cui si riportava l’esito dell’indagine interna, del seguente tenore: «L’Università del Texas ha stabilito che nessuna indagine formale può essere giustificata sulle accuse di cattiva condotta scientifica presentate contro il professore associato Mark Regnerus riguardo al suo articolo pubblicato sulla rivista Social Science Research» (all’indirizzo Internet: <http:// news.utexas.edu/ 2012/08/29/ regnerus_scientific_misconduct_inquiry_completed>).