«Giura, e ciascuno giuri ai suoi compagni, di morire, e rinnova le tue intenzioni. Depilati e profumati con acqua di colonia. Fai una doccia. Assicurati di conoscere bene il piano in tutti i suoi aspetti, e prevedi la reazione o l’opposizione del nemico. […] Dai il benvenuto con tutto il cuore e a viso aperto alla morte per la gloria di Allah» (da L’ultima notte, il documento di al-Qaida scritto probabilmente da Mohammed ‘Atta [1968-2001], che ciascuno dei partecipanti all’attacco dell’11 settembre portava con sé).
L’analisi dell’islam, nelle sue componenti estreme, occupa la maggior parte del testo di recente uscita Il fondamentalismo. Dalle origini all’ISIS di Massimo Introvigne per i tipi dell’editrice Sugarco. L’opera, ampio aggiornamento da parte dell’autore del suo Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2004; cfr. la recensione di PierLuigi Zoccatelli, inCristianità, anno XXXII, n. 323, maggio-giugno 2004, pp. 19-21), partendo da una precisa ricostruzione del fondamentalismo nelle sue origini all’interno del mondo protestante, si sofferma a lungo nell’analisi delle manifestazioni contemporanee del fenomeno e apre uno spaccato particolare sullo sviluppo della violenza estrema, come i suicidi collettivi o il terrorismo suicida sempre più frequente negli ultimi dieci anni.
Il volume si compone idealmente di due parti, suddivise in cinque capitoli. Nella prima di esse Introvigne «si chiede se sia possibile proporre una teoria del “fondamentalismo” dal punto di vista della sociologia delle religioni e nell’ambito della teoria sociologica detta dell’economia religiosa. Nella seconda, propone un’applicazione della griglia teorica e metodologica proposta nella prima parte al cosiddetto “fondamentalismo” islamico» (Introduzione, p. 7).
Il fenomeno religioso non è in calo, ma — al contrario — nella seconda metà del secolo XX si è assistito a significativi ritorni del religioso sulla scena pubblica. Complessivamente considerate, emergono di più le forme religiose «conservatrici» rispetto a quelle più «progressiste» e sempre più spesso si può verificare che, contro una certa vetero-propaganda di stampo marxista, fenomeni religiosi hanno cause principali che «[…] sono effettivamente di natura religiosa»(Introduzione, p. 8). Se è pur vero che lo Stato ha mille modi per ostacolare il fenomeno religioso, in situazione normale il pluralismo e la libera concorrenza fra religioni determinano un effetto favorevole sui dati quantitativi delle diverse credenze.
Il testo prosegue con un’attenta ricostruzione di che cosa si può intendere per «nicchia religiosa» e delle diverse teorie che cercano di spiegare perché ottengono maggior plauso le correnti più conservatrici rispetto a quelle più aperte alle sirene del pensiero mondano, purché non alzino troppo le richieste verso i propri adepti. Un eccessivo rigorismo — gruppo definito ultra-strict — avrà fedeli molto motivati ma numericamente limitati, mentre una realtà ragionevolmente strictotterrà soddisfacenti risultati numerici in quanto capace di presentarsi come reale alternativa al «pensiero mondano» — se una religione propone ciò che propone il mondo non vi è motivo perché una persona ne faccia parte —, ma allo stesso tempo come sufficientemente «vivibile». Fanno eccezione a questa regola organizzazioni ultra-strictdi carattere terroristico che, in alcuni contesti, riescono ad attirare numeri considerevoli di membri.
Ma, prima di tutto, l’autore cerca di fornire una definizione del termine fondamentalismo. Sorto in ambito inglese per identificare i movimenti che reagivano al cedimento delle chiese maggioritarie alla modernità rivendicando la difesa dei fondamentali del protestantesimo, vede al suo interno una difficile distinzione fra il mondo conservatore (evangelical) e la realtà più dura, convenzionalmente denominata fondamentalismo. Nel corso del secolo XX il termine per analogia è stato usato per identificare realtà simili anche in contesti induisti, buddhisti, islamici ed ebraici (cfr. p. 51).
Negli anni 1990 il Fundamentalism Project — uno storico progetto dell’American Academy of Arts and Sciences — ha cercato di definire il fondamentalismo identificandone alcune caratteristiche: movimenti di reazione all’emarginazione della religione scegliendo di difendere ad oltranza alcuni elementi della tradizione e di polemizzare con alcuni della modernità, dividendo la società in un «noi-buoni» e «loro-cattivi», facendo delle Scritture un riferimento infallibile e assumendo una prospettiva millenaristica (p. 52). Di fronte a numerose critiche verso tale identificazione, aperte a molte, troppe eccezioni, Introvigne tenta una nuova classificazione introducendo la categoria di «nicchie» e differenziando i movimenti in ultra-progressista — gruppo che chiede ai suoi membri un livello molto basso di tensione e promuove una separazione tra fede e cultura —, progressista — tensione bassa, accetta separazione tra fede e cultura —, conservatore — tensione media con proposta di distinzione e collaborazione tra fede e cultura —, fondamentalista o strict — tensione alta con proposta di fusione fra fede e cultura — e ultra-fondamentalista o ultra-strict, con tensione molto alta e proposta d’identificazione assoluta tra fede e cultura.
Il terzo capitolo, «Fondamentalismo»: l’irresistibile ambiguità di una categoria (pp. 51-79) prosegue con diversi esempi di gruppi cui possono essere applicate queste categorie sia nell’ambito protestante sia in quello cattolico — dove, precisa, il riferimento ai fondamentali non riguarda tanto la lettura della Bibbia, ma la Tradizione —, senza tralasciare un cenno all’ebraismo e all’induismo.
Il quarto capitolo, Mercato religioso e «fondamentalismo» nei Paesi a maggioranza islamica (pp. 81-124) affronta la realtà islamica che pone subito un problema: la non distinzione/separazione fra religione, cultura e politica è un preciso carattere identificativo dell’islam in generale e quindi non può essere utilizzata come elemento per identificare le diverse nicchie. L’autore prende in esame la presenza di un mercato religioso fra le diverse «nicchie». Se anche le nicchie progressista e ultra-progressista trovano manifestazione in alcuni gruppi soprattutto con una simpatia politica marxisteggiante, certamente è nell’ambito strict e ultra-strict che si possono collocare i fenomeni più significativi, dove le differenziazioni emergono sulla volontà più o meno forte di formare una società attraverso l’applicazione più o meno rigorosa della legge islamica, la shari’a, e una netta reazione alla penetrazione di idee occidentali nel mondo musulmano. A queste il fondamentalismo islamico propone in modo maggiore o minore il ritorno al Corano e la ricostituzione del Califfato.
A partire dal mondo conservatore, che risponde ai movimenti wahhabita dell’Arabia saudita, deobandi in Asia minore e sufi, ci si muove verso forme più rigoriste che a loro volta assumono due atteggiamenti diversi — evidenziati anche dal sociologo Renzo Guolo — relativamente alle strategie messe in atto per l’islamizzazione della società: per l’ala radicale un’islamizzazione dall’alto, presa del potere con un colpo di Stato e imposizione della legge islamica; per l’ala neo-tradizionalista, un’islamizzazione dal basso attraverso una paziente opera di diffusione dell’islam con rete di moschee, scuole, presenze negli ambiti professionali. Esempio di operazione riuscita, almeno al momento, può essere il caso della Turchia, dove da un acceso laicismo imposto da Mustafa Kemal Ataturk (1881-1938) all’inizio del secolo XX, si è giunti oggi al governo di un movimento «radicato nell’islam politico[…] che tuttavia si presenta come democratico, economicamente liberista e non pregiudizialmente anti-occidentale» (p. 110).
Merita un cenno anche l’attenzione posta all’islam della diaspora e ai problemi che nascono nei Paesi occidentali nei confronti dell’inserimento/integrazione delle comunità islamiche (pp. 113-124), con le diverse soluzioni proposte nel Regno Unito e in Francia e l’ipotesi italiana.
Nel quinto capitolo, La nicchia radicale: isolamento, violenza, terrorismo suicida (pp. 125-193) viene affrontato il fenomeno delle nicchie radicali nei nuovi movimenti religiosi e nell’islam accomunati dalla presenza del suicidio, della violenza estrema, del terrorismo.
Introvigne ricostruisce il percorso dell’area ultra-strict dell’islam, che comprende al suo interno gruppi come al-Qaida — una rete articolata in tutto il mondo, da cui nel 2014 si è separato il «califfo» dell’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e Siria) Abu Bakr al-Baghdadi, per prendere il potere in un’area definita —, Boko Haram in Africa centrale o al-Shabab in Somalia, accomunati dal sogno di ricostruire un Califfato che unifichi tutto il mondo islamico dalla Spagna all’Indonesia, sogno che non ha rapporto con la realtà ma che serve come mito per radicalizzare gli appartenenti e affascinare gli estremisti di ogni area geografica.
Strumento privilegiato da questo mondo è il jihad. Secondo la tradizione sforzo personale verso la via della perfezione e, se necessario, anche lotta armata contro il nemico, è diventato negli ultimi decenni fenomeno sempre più comune. Da una lotta santa contro nemici esterni — un caso tipico è l’organizzazione palestinese Hamas contro la realtà israeliana — si è andata radicalizzando ed è diventata anche lotta intra-islamica — si veda il caso dell’Algeria, per anni devastata da una guerra civile — o fra sunniti e sciiti, come nello Stato dell’Isis, dove il sunnita al-Baghdadi non riconosce diritto di cittadinanza alle comunità sciite pur molto numerose nell’area irachena.
Nell’ambito della nicchia ultra-strict compare il fenomeno del terrorismo suicida che, per quanto riguarda l’islam, ha coinvolto il mondo intero soprattutto dopo il 2001. Se in realtà religiose diverse — cristiane e non — i casi di suicidio hanno assunto il significato di purificazione o accelerazione del cammino verso la salvezza eterna, sia in casi individuali sia collettivi, e in un numero di volte relativamente contenuto, nel caso dell’islam il suicidio — esecrato dalla dottrina — ha ottenuto una sua giustificazione solo come gesto politico. Dopo l’affermazione del potere sciita — che ha sempre accettato il gesto estremo come sacrificio sulla via della salvezza — nel 1979 in Iran, molte cose sono cambiate anche in area sunnita, tanto che lo stesso shaykh Muhammad Tantawi (1928-2010), quand’era rettore dell’università al-Azhar del Cairo, ha accettato gli attacchi suicidi di Hamas contro i civili in Palestina (p. 187). Sia al-Qaida che l’Isis fanno abbondante uso del «martire» suicida e anzi hanno creato una vera e propria retorica di salvezza per i membri destinati al gesto estremo, come testimoniano le due appendici al volume: L’ultima notte (pp. 197-203), raccomandazioni per la preparazione alla morte suicida eConsigli agli emigranti (pp. 204-205), appello ai giovani musulmani a immigrare nel Califfato, unica terra dove la salvezza è promessa direttamente dallo Stato.
(Recensione redazionale)