Di Giulio Silvano da Il Foglio del 31/08/2023
Per un paese ossessionato dalla razza, dalle origini e dai primati etnici nei ruoli politici, è significativo che i due candidati emersi come vincitori dal dibattito repubblicano siano figli di immigrati indiani. Vincitori si può intendere nel senso che si è parlato di loro come tali dopo lo scontro sul palco di Milwaukee del 23 agosto. Questo è il caso di Vivek Ramaswamy, l’imprenditore millennial anti woke che fino a poco prima sembrava destinato a un preventivo dimenticatoio elettorale. Oppure vincitori significa che sono aumentate le percentuali nei sondaggi, e questo è il caso di Nikki Haley che ha avuto il boost maggiore di tutti dopo il dibattito, passando dal 2 al 7 per cento nei consensi. Briciole, certo, ma manca ancora quasi un anno alla convention del Partito repubblicano americano che incoronerà lo sfidante di Joe Biden, e i voti sono ancora divisi tra molti contendenti. Donald J. Trump, nonostante le incriminazioni e l’assenza dal dibattito, resta il frontrunner indiscusso. Le analisi su Ramaswamy e Haley non solo ci dicono che le minoranze non sono più appannaggio dei progressisti – c’è qualcuno di più bianco di Joe Biden, con i suoi Ray Ban a goccia e le sue Corvette? – ma ci mostra anche la frattura dentro il Partito repubblicano che ha la sua massima espressione nella politica estera. Aiutare o no un paese invaso brutalmente dal vecchio nemico della Guerra Fredda? Sì, assolutamente sì, dice Haley. No, “America first!”, urla Ramaswamy, incurante dei disequilibri mondiali che si avrebbero da una vittoria putiniana. Al dibattito del 23 agosto Nikky Haley, unica donna sul palco, è stata quella che con più forza ha difeso il ruolo internazionale degli Stati Uniti, rispetto a un Ramaswamy che invece vorrebbe chiudere oggi stesso i rubinetti degli aiuti a Kyiv. Una parte del partito cerca di recuperare la dottrina Bush, quella interventista, mentre l’altra si appoggia a quella Trump – se possiamo chiamarla dottrina e non dilettantismo filo autocratico e isolazionismo populista. Due anime incompatibili. Haley, lontana dalle farneticazioni cui ci ha abituato l’ultimo presidente repubblicano, ha preso di petto l’incompetenza sulla politica estera dei trumpiani. Il giorno dopo, alla Cbs, l’ex ambasciatrice all’Onu ha ribadito che “una vittoria della Russia è una vittoria della Cina”, e ha sottolinato che Vladimir Putin ha lasciato intendere che dopo l’Ucraina proverà a prendere la Polonia e poi i paesi baltici. “Noi proviamo a prevenire la guerra. In America non possiamo essere così narcisisti da pensare di non aver bisogno di amici. Ne abbiamo bisogno. Ci serve l’Ucraina come prima linea di difesa rispetto alla Russia. Ci serve Israele come linea di difesa con l’Iran. E ci serve proteggere Taiwan in modo che la Cina smetta di essere aggressiva con noi. Una politica estera intelligente riguarda la sicurezza nazionale”. Se gran parte dei repubblicani ha una visione catastrofica del paese, Ron DeSantis in primis, e che trova nell’ancora persistente slogan Make America Great Again la sua sintesi propagandistica, Nikki Haley si posiziona tra quei pochi del Partito repubblicano, assieme al senatore Tim Scott, che hanno una visione più ottimista del paese, cercando di recuperare l’istinto reaganiano che sembra esser stato abbandonato dal conservatorismo americano. “Il mondo ammira l’America perché valorizziamo la libertà e le opportunità”, ha detto Haley, che da quando si è candidata alla presidenza ha dato più spazio al racconto delle proprie origini. Nata nel 1972 in South Carolina da genitori del Punjab, Nikki Haley è stata governatrice del suo stato per due mandati, dal 2011 al 2017. La famiglia era arrivata in America dall’India perché il padre, professore universitario, aveva ottenuto una cattedra nel Palmetto State, dopo un breve periodo in Canada. La madre, laureata in Legge, aveva aperto un negozio di vestiti di discreto successo. Nikki, che vuol dire “piccolina”, deve il cognome al marito, Micheal Haley, conosciuto al college e diventato poi militare, inviato in Afghanistan. Dal governatorato Haley è passata direttamente al gabinetto presidenziale come ambasciatrice alle Nazioni Unite durante l’Amministrazione Trump. Questo ruolo la posiziona come la candidata con la maggior esperienza in politica estera nel partito. E’ molto vicina a Israele, a differenza di Ramaswamy che vorrebbe piano piano togliere gli aiuti economici e militari al governo Netanyahu. Durante il suo mandato all’Onu, Haley ha deciso di ritirare gli Stati Uniti dal Consiglio per i diritti umani, considerato troppo filo palestinese, ed è stata tra le promotrici dello spostamento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, dicendo anche che “troppo a lungo le Nazioni Unite hanno bullizzato Israele”. Mentre era ambasciatrice, dopo gli anni di percepita morbidezza obamiana, ha criticato senza mezzi termini i nemici della nazione – Iran, Hezbollah, Siria, Ramzan Kadyrov e Corea del nord, quasi un nostalgico “asse del male” dell’epoca Bush – e ha portato l’attenzione sui campi di rieducazione per gli uiguri in Cina. Nel 2018, ha annunciato nuove sanzioni alla Russia che aveva appoggiato il regime di Bashar el Assad e l’uso di armi chimiche in Siria. Ma la Casa Bianca, creando una frizione che di lì a poco avrebbe contribuito a far dimettere l’ambasciatrice, negò ogni forma di sanzione contro Putin. Alla fine dell’anno Haley se ne andò. Sul palco in Wisconsin, l’ambasciatrice Haley è piaciuta a molti anche perché non ha nascosto i problemi del partito e del paese. “La mia strategia è stata essere onesta con gli americani”, ha detto. “Dire la verità davanti ai fischi?”, ha scritto il Wall Street Journal, “a volte è questo il volto della leadership”. Haley non è mai stata una vera e propria trumpiana. Nelle primarie del 2016 aveva appoggiato prima il senatore Marco Rubio e poi Ted Cruz. In seguito era stata costretta, come molti nel partito, a seguire il nuovo leader, storcendo il naso di fronte al populismo e agli svarioni da Twitter. L’ha chiamato “amico”, lo ha votato, ma lo ha anche criticato, in particolare riguardo agli eventi del 6 gennaio e perché Trump non aveva difeso Mike Pence, il suo vicepresidente, dalla folla inferocita. Pur essendo stata nel suo gabinetto è riuscita a uscire indenne dall’Amministrazione Trump, con grazia, senza macchie Maga nel suo curriculum. Ora cerca di trovare una via di mezzo tra i fanboy (come Ramaswamy) e i pentiti (come Chris Christie) rispetto alla fedeltà all’ex presidente. La sua tecnica è: andiamo avanti, pensiamo al futuro. Ha detto che darebbe la grazia a Trump, “perché non se ne può più di questa storia, non possiamo avere un ex presidente di 77 anni in prigione”. Ha confermato che, anche nel caso in cui risultasse colpevole, voterebbe comunque per Trump alle presidenziali, pur di non dare il voto ai democratici. Utilizza una retorica che, in mancanza di attacchi alle policy dell’Amministrazione, viene sfruttata da molti candidati repubblicani e che si è sviluppata in molte teorie complottiste: vista l’età di Biden, un voto per lui è un voto per Kamala Harris. Per alcuni cospirazionisti sarebbe proprio questo l’obiettivo: far eleggere old Joe per far diventare Kamala la prima presidente donna. “Perché voterebbe per un condannato?”, hanno chiesto a Haley in tv. “Perché non mi sento a mio agio con Kamala Harris come presidente”, ha risposto. Ma ha detto che il paese non può permettersi di avere un presidente di 81 anni. Allo stesso tempo, al dibattito, ha ricordato che “tre quarti degli americani non vogliono un nuovo match tra Trump e Biden. E dobbiamo accettare che Trump è il politico più sgradito d’America. Così non possiamo vincere le presidenziali”. Sta dicendo, come alcune fronde del Partito repubblicano: Trump ci farà perdere, quando contro “il vecchio Biden” sarebbe facile vincere. Sta dicendo che ci si può dimenticare di tutto, metterci una pietra sopra e concentrarsi sul futuro e “su una nuova generazione di leader”. Ma per arrivare alla leadership servono campagne costose, e a oggi Haley non ha raccolto cifre incredibili. Dopo il flop del governatore della Florida DeSantis, breve cometa anti woke, molti donatori miliardari hanno messo il portafoglio in stand by per vedere se in queste settimane si riesce a individuare un’alternativa a Trump. Dopo il dibattito in Wisconsin, l’ambasciatrice ha ricevuto un milione di dollari in donazioni per la sua campagna e questo può essere un buon segnale. Da mesi ha già dalla sua alcune figure come il magnate del petrolio Harold Hamm, il ceo di Lion Tree Aryeh Bourkoff e il miliardario, ed ex donatore di Trump, Jim Davis. Ma deve ancora fare parecchia strada per convincere i donatori indecisi che è lei la candidata giusta per vincere contro i democratici. Anche Rupert Murdoch, che controlla la Fox, principale network conservatore, è alla ricerca di un anti Trump, ma non l’ha ancora individuato. Si guarda intorno e, ogni tanto, sul suo Wall Street Journal, propone piccoli articoli celebrativi su alcuni candidati. Potrebbe essere Nikki Haley la prescelta dei NeverTrump? E’ presto per dirlo, e alcuni aspetteranno i primi voti. Il fatto che il South Carolina sia uno dei primi stati in cui si voteranno le primarie – il secondo, dopo l’Iowa – potrebbe essere un vantaggio per lei. Ma potrebbe doversi dividere i voti dello stato con l’altra figura di punta della South Carolina, il senatore Tim Scott, altro ottimista che guarda a Reagan più che al Tea Party. Individuato il candidato giusto che prenda le distanze dagli ultimi anni di polarizzazioni e gaffe, che cerchi di salvare un partito infiltrato dagli estremisti, ci si chiede se il mostro arancione si possa davvero sconfiggere, o se, come nel giorno della marmotta, l’America sia costretta a rivivere le elezioni del 2020. Anche se tutti i big donor d’America, tutti i lobbisti, tutti i Rupert Murdoch e i presentatori di Fox News, tutti gli Elon Musk e i Lincoln Project si unissero per battere Trump, con l’aiuto del dipartimento della Giustizia e dei vari procuratori distrettuali, ci si chiede: si riuscirebbe a sconfiggere lo zoccolo duro dell’elettorato trumpiano che compra le t-shirt con le foto segnaletiche il giorno dopo l’arresto in Georgia?