Alfredo Mantovano, Cristianità n. 133 (1986)
La rinuncia periodica, da parte della pubblica autorità, all’esercizio del «diritto di punire» contribuisce a far perdere credibilità alle istituzioni e incrementa la «furbizia» dei responsabili di crimini e di infrazioni, mentre demoralizza gli onesti, che si sentono «giocati».
Dopo l’annuncio del provvedimento di clemenza
A proposito di amnistia e di condono
1. A circa un anno di distanza dall’approvazione della legge sul condono edilizio si è iniziato a parlare, in termini sempre più concreti, di amnistia: Non si è trattato di parole in libertà; assicurazioni sulla emanazione del provvedimento sono giunte da chi ricopre le cariche istituzionali più elevate: dal capo dello Stato al presidente del Consiglio, al ministro di Grazia e Giustizia, al presidente della Commissione Giustizia del Senato, per esempio.
L’autorevolezza delle voci intervenute sul punto fa ritenere per certo che amnistia vi sarà, anche se – magari – bisognerà aspettare quattro o cinque mesi e non sarà emanata – come annunciato in un primo tempo – il prossimo due giugno, giorno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della proclamazione della repubblica (1). Al momento è ancora difficile sapere con certezza qualcosa sul contenuto del futuro atto di clemenza – quali reati contemplerà, quali ne saranno esclusi, da quando e fino a quando farà decorrere i suoi effetti – anche perché, finora, i segretari dei cinque partiti di governo hanno fornito ciascuno una propria opinione sull’argomento, ovviamente diversa da quella espressa dai colleghi. Ciò tuttavia non impedisce di formulare qualche considerazione in margine alla vicenda.
2. Quello che in passato costituiva un gesto di «clemenza sovrana» è, dal 1948, un istituto previsto e disciplinato dall’articolo 79 della carta costituzionale: di esso, però, secondo l’opinione dei giuristi più attendibili, andrebbe fatto un uso alquanto moderato, dettato, nella maggior parte dei casi, da esigenze di pacificazione nazionale in particolari momenti storici, e quindi limitato ai delitti politici che, s’intende, non abbiano provocato fatti di sangue.
E, invece, i quarant’anni di storia repubblicana hanno abituato al varo periodico di provvedimenti di clemenza: l’ultimo, in preparazione, dovrebbe essere più o meno il quarantesimo. Le ragioni addotte a sostegno di esso sono in genere due: la necessità di sfoltire la popolazione carceraria e quella, parallela, di ridurre il lavoro sovrabbondante dell’apparato giudiziario.
Un esame anche solo sommario delle condizioni di vita – passate e presenti – del pianeta-giustizia permette, tuttavia, di riscontrare l’ampia infondatezza di queste ragioni: l’esperienza delle precedenti amnistie insegna, infatti, che bastano pochi mesi per riempire nuovamente gli istituti di pena.
Quanto allo snellimento del lavoro giudiziario, non si può negare che l’amnistia consenta, se non di azzerare, per lo meno di ridurre le pendenze soprattutto in quegli uffici – come, per esempio, le preture – che sotto tale profilo versano oggi in uno stato pre-agonico. Anche in tale caso, però, il farmaco somministrato è soltanto un sintomatico: fa diminuire la febbre per qualche ora, ma non è curativo, cioè non va alla radice; dopo poco tempo, in assenza di altri interventi, la malattia ritorna con le stesse caratteristiche e senza modifiche sostanziali. Fuor di metafora: i «guai» organizzativi della giustizia dipendono dalla carenza degli organici – dei magistrati, dei funzionari di cancelleria, dei segretari -, dalla insufficienza dei mezzi a disposizione e da una strutturazione degli uffici – che include anche la distribuzione e la efficace ripartizione delle risorse umane e non – inadeguata rispetto alle attuali esigenze. I ritardi, le lentezze e l’incremento delle «pendenze» dipendono per buona parte dalla volontà politica di risolvere questi mali: l’effetto-amnistia dura pochi mesi; ma, se l’organico di una pretura è insufficiente, basta un semestre per ritrovarsi nelle stesse condizioni.
Inoltre, se è vero che il provvedimento di clemenza può consentire una temporanea riduzione dell’arretrato in quegli uffici che decidono in primo grado, come tribunali e preture, esso ottiene il «pregevole» effetto di congestionare, prima del suo varo, le Corti di Appello e la Corte di Cassazione, dal momento che tutti i condannati in prima istanza contano di cancellare nei gradi successivi la sentenza pronunciata nei loro confronti.
Si tratta, comunque, di motivazioni addotte con intensità e con convinzione senza dubbio minori rispetto al passato: ciò a cui si assiste da qualche tempo – quando, in prossimità dell’emanazione di un’amnistia, si riaccende il dibattito sull’istituto e sul suo uso – è il fatto che esso non viene più neppure giustificato, cioè si dà per scontato che, dopo un certo numero di anni, vi si debba ricorrere, quasi sia un’inderogabile consuetudine.
3. A grandi linee, si può affermare che la scienza giuridica ha sempre attribuito alla sanzione punitiva penale tre funzioni: quella di castigo di comportamenti criminosi che lo Stato, in quanto garante del bene comune, ha il dovere di infliggere a chi pone in pericolo il bene medesimo, violando il diritto del singolo o della collettività; quella di prevenzione, attraverso l’applicazione del castigo, della consumazione di reati futuri, indicando ai più le conseguenze cui si va incontro quando si adotta una condotta contra legem; quella, infine, di correzione del reo, nei cui confronti l’esecuzione della pena deve, in tesi, rivestire un carattere rieducativo sotto il duplice profilo della dissuasione dal violare nuovamente il precetto penale, e delle modalità concretamente scelte per scontare la sanzione inflitta, come lavoro in carcere, corsi di istruzione, e così via.
È ben vero che il mistero della presenza del male nella vita e nella storia degli uomini non può trovare una soluzione definitiva neanche nel sistema positivo più equo, in quanto maggiormente conforme nei suoi cardini ai precetti del diritto naturale; e, tuttavia, l’impossibilità da parte di una istituzione terrena qual è lo Stato di eliminare in radice dalla vita e dalla storia il male stesso non può impedire, al fine della salvaguardia del bene comune, di reprimerlo quando si concretizza in comportamenti e in atteggiamenti di uomini, né a fortiori di organizzarsi per arginare, anche attraverso la punizione, i comportamenti criminosi.
La certezza che la pena normativamente sancita come conseguente a un atto illecito venga poi concretamente applicata è presupposto insostituibile della credibilità dell’autorità politica: ciò implica che essa non debba metodicamente rinunciare all’esercizio dello jus puniendi.
Ora, la pratica invalsa di emanare l’amnistia a scadenze periodiche non può che tradursi in una vera e propria istigazione a delinquere: gli autori dei reati comuni di minore entità hanno ben poco da temere se – ogni tre, quattro o cinque anni – possono contare su questa sorta di «colpo di spugna di Stato». I tempi forzatamente lenti dell’apparato giudiziario consentono loro di impiegare tale periodo di tempo continuando a svolgere attività illecita e, nel contempo, proponendo appelli e ricorsi in Cassazione finchè non sopraggiunge il provvedimento di clemenza di turno. Non di rado si danno lunghi certificati penali includenti condanne a pene detentive senza che un solo giorno di reclusione o di arresto sia stato effettivamente scontato, dal momento che il reato è stato dichiarato estinto per amnistia o la pena è stata condonata.
Non e poi deplorato a sufficienza il costume politico di annunciare l’amnistia con qualche mese di anticipo rispetto alla sua emanazione effettiva: anche se il beneficio è relativo agli illeciti commessi non fino al momento della pubblicazione di essa sulla Gazzetta ufficiale, ma fino a una data precedente di qualche mese, in genere coincidente con il giorno della presentazione della proposta di delegazione in parlamento, le voci autorevoli fatte circolare, come accade in questo periodo, prima ancora della formulazione della proposta di delegazione, rappresentano di fatto un incentivo a intensificare l’attività criminosa entro un certo limite, nella sicurezza da parte del delinquente dell’impunità.
4. Ma è l’immagine dello Stato – e quella dello Stato in generale, non solo di questo Stato, così come è attualmente e in concreto organizzato e gestito – che in tali vicende subisce un grave deterioramento: che si direbbe di un padre di famiglia che, dopo avere prescritto ai figli un certo comportamento e dopo avere fatto loro presente che la disubbidienza verrà punita, non traesse metodicamente le conseguenze dei diversi contegni, trattando chi ha rispettato il precetto allo stesso modo di chi lo ha violato?
Lo Stato si comporta analogamente; anzi, talvolta tratta meglio i disubbidienti degli ubbidienti. La tragicommedia del condono edilizio, in scena ormai dal 1983 e il cui esito è ben lungi dall’intravvedersi, presenta toni per molti aspetti simili a quelli dell’amnistia e conferma quel che succede quando si intraprende, peraltro con incertezza e confusione, la strada della rinuncia a punire i responsabili.
Senza entrare nel merito di un tema come quello costituito dall’abusivismo edilizio – che per la sua complessità e per l’intricarsi delle motivazioni e degli interessi, oltre che per la situazione obbiettiva in cui si pone, necessiterebbe una trattazione specifica – mi limito a notare il riproporsi dell’atteggiamento di un potere pubblico che, dopo avere fissato un precetto e stabilito una sanzione – comunque fondati -, rinuncia ad applicare quest’ultima.
Quanto è accaduto negli ultimi tempi nelle regioni meridionali, e in particolare in Sicilia, costituisce – al contrario di quanto sostiene chi parla, non certo a proposito, di «ritorno dei sanfedisti» (2) – la logica e pratica conseguenza di una condotta che, mentre impone una sanzione, fa già balenare la possibilità di aggirarla. La legge n. 47 del 28 febbraio 1985, detta «del condono», contempla la possibilità di sanare gli abusi edilizi consumati fino alla data del 30 settembre 1983 – giorno della presentazione in parlamento del relativo disegno di legge -, previo versamento di una oblazione proporzionata alla superficie dell’immobile realizzato. Già così si è provocata una palese ingiustizia ai danni di chi, volendo essere in regola, ha atteso i comodi della burocrazia per ottenere la concessione – e qui parlo ovviamente soltanto di coloro che l’hanno ottenuta -, ha costruito solo dove gli era consentito, pur avendo, magari, la disponibilità di altre zone dichiarate non edificabili, e ha versato fior di quattrini per le opere di urbanizzazione; a vantaggio, invece, di chi ha costruito quando e dove ha voluto – senza cioè attendere le lungaggini della concessione e non tenendo in nessun conto i vincoli di inedificabilità – e ha ora la possibilità, accedendo all’oblazione, di estinguere il reato e le sanzioni amministrative.
I «rivoltosi» meridionali, e soprattutto quelli siculi, vanno oltre e chiedono che l’illecito urbanistico possa essere cancellato anche senza pagare l’oblazione, e che i benefici della sanatoria vengano estesi anche a coloro che hanno costruito senza concessione edilizia dopo il 30 settembre 1983. Certo, non va trascurata la strumentalizzazione in atto, alimentata dalla vicinanza delle elezioni regionali, da parte del Partito Comunista Italiano, il quale – dopo avere per anni tuonato contro l’abusivismo – prende oggi le difese degli «abusivi» (3); ma è innegabile che la manovra del Partito Comunista Italiano si innesta sulle aspettative di chi, allorchè il parlamento si apprestava – nei lungo periodo di tempo intercorso fra l’ottobre del 1983 e il marzo del 1985 – ad approvare la legge sul condono, ne ha approfittato più che in passato per costruire senza concessione, nella convinzione, per ora – ma solo per ora – rivelatasi infondata, che il suo illecito sarebbe stato sanato.
5. E così l’uso a dir poco disinvolto di istituti – come l’amnistia o il condono edilizio, da molti ritenuto con ragione una sorta di amnistia impropria -, il cui varo dovrebbe rivestire carattere di eccezionalità, diventa costume e orienta tendenze e comportamenti.
In questa prospettiva, è sicuramente paradossale che uno Stato così invadente in settori che competono principalmente all’iniziativa dei privati – come economia, cultura, tempo libero e così via – abdichi, poi, nelle funzioni che sono di sua specifica spettanza: la difesa dai nemici esterni – e quindi l’organizzazione di un esercito efficiente – e quella dai nemici interni – una valida prevenzione e repressione del crimine. E che tale ultima funzione sia in crisi è rilevabile dalla incoerenza con cui si tenta di impedire che colui che in passato si è posto contro la legge, fidando nell’impunità, continui sulla stessa strada, se mai in essa «perfezionandosi», dal momento che si vede «premiato»; né va trascurato l’effetto parallelo di disorientamento degli onesti, esposti alla tentazione di comportarsi disonestamente, e a ciò indotti dalla coscienza di essere sempre sostanzialmente gabbati e dal timore, molto umano e molto comprensibile, di apparire ingenui.
Alfredo Mantovano
Note:
(1) Cfr. il Giornale, 1-5-1986.
(2) Così Federico Orlando che, volendo fare sfoggio di acume storico e intuito comparativo, aggiunge: «quello che sta accadendo in una parte del Sud, sindaci in testa, somiglia alla marcia delle masse di Santa Fede e Viva Maria che, agli ordini del cardinale Ruffo, spazzarono i precari ordinamenti liberali di Napoli e restaurarono le forche» (ibid., 20-3-1986).
(3) Nel contempo, associazioni che gravitano nell’area comunista, come l’ARCI, l’Associazione Ricreativa Culturale Italiana, e la Lega Ambiente si oppongono drasticamente a ogni allargamento delle maglie del condono edilizio.