Alfredo Mantovano, Cristianità n. 151 (1987)
Decidendo su una ordinanza di illegittimità sollevata tre anni or sono dal giudice tutelare di Napoli, i giudici costituzionali hanno affermato la piena conformità della legge n. 194 alla legge fondamentale dello Stato.
Dopo una pronuncia della Corte Costituzionale
Aborto, difesa della vita e Costituzione
1. Sono trascorsi ormai quasi dieci anni dalla introduzione nell’ordinamento giuridico italiano dell’aborto libero, legale e sovvenzionato dallo Stato. Oggi più d’uno, e non soltanto in ambito cattolico, si mostra meno propenso a rifiutare a priori ogni rilievo critico a proposito della legge n. 194 del 1978, spinto anche dalla riflessione sulla sempre più diffusa «banalizzazione» della vicenda abortiva (1) e su alcuni fra i suoi più clamorosi riflessi, come sono, per esempio, il preoccupante calo demografico e il parallelo incremento dei casi di violenza su neonati e su fanciulli. Ma, mentre in ordinamenti giuridici che sono stati all’avanguardia nella liberalizzazione dell’aborto vi è la possibilità che i ripensamenti si traducano in atti giuridicamente rilevanti — si pensi, per esempio, alla nuova composizione della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, nella quale pare sia stata raggiunta una maggioranza antiabortista (2) —, in Italia gli organi istituzionali deputati — secondo diverse modalità — a pronunciarsi sul tema, o lo ignorano — come fa il parlamento, mai più intervenuto in proposito neppure con modifiche marginali — oppure confermano apoditticamente posizioni radicalmente contrastanti con la tutela del nascituro: è il caso della Corte Costituzionale che, più volte e in vario modo sollecitata a esprimersi sulla conformità alla Costituzione della normativa abortista, da circa un decennio va manifestando un progressivo e sempre più immotivato spregio delle ragioni del non nato.
Già nel 1975 i giudici di Palazzo della Consulta, pur riconoscendo «fondamento costituzionale» alla «tutela del concepito», e pur affermando che fra «i diritti inviolabili dell’uomo», di cui si tratta all’articolo 2 della Costituzione, «non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito», con scarsa coerenza ritenevano che «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare» (3), con ciò determinando la liceità dell’aborto in caso di pericolo non soltanto per la vita, ma anche per la salute della gestante.
Nel 1981, pronunciandosi sui referendum abrogativi della legge n. 194 — quello proposto dal Partito Radicale e i due, quello «massimale» e quello «minimale», presentati dal Movimento per la Vita —, la Corte nega l’ammissibilità della proposta massimale, tendente — per riprendere le parole della sentenza relativa — all’«abrogazione della legge n. 194 del 1978, nell’intera parte in cui si disciplina e si consente — a certe condizioni — l’interruzione della gravidanza» (4), con la motivazione che la proposta stessa, poiché mirava a eliminare, fra l’altro, l’articolo 6 della legge n. 194 in ogni sua parte, compresa quella che legittima l’aborto terapeutico — lato sensu inteso — dopo i primi novanta giorni, e poiché lo stesso articolo 6, in quanto volto a tutelare la salute della madre, rappresenta la concreta attuazione del 1° comma dell’articolo 32 della Costituzione — che garantisce il diritto alla salute —, si poneva in contrasto con tale garanzia costituzionale.
Negli anni seguenti poi — nonostante le decine di ordinanze di illegittimità a essa pervenute — la Corte Costituzionale non entra mai nel merito delle singole questioni sollevate, ritenendo che siano di volta in volta irrilevanti (5), e così ponendo di fronte all’alternativa fra l’inadeguatezza della preparazione dottrinale e professionale dei non pochi magistrati che avevano stilato le ordinanze oppure una precisa nolontà dell’organo adito di affrontare la sostanza costituente il comune denominatore delle varie eccezioni sollevate, cioè la conformità alla Costituzione della soppressione del concepito.
2. Nel maggio del 1987, una nuova sentenza dei giudici costituzionali — succinta e tutt’altro che scorrevole nell’esposizione della motivazione — ribadisce senza mezzi termini che la legge n. 194 del 1978 non può, al momento, neppure essere oggetto di discussione: è legge dello Stato e tanto basta per vietarne il sia pur minimo esame critico (6). All’origine della decisione è l’ordinanza di illegittimità sollevata dalla dottoressa Maria Lidia de Luca, giudice tutelare a Napoli, con la quale il magistrato, richiesta da una minore incinta di rilasciare l’autorizzazione a interrompere la gravidanza sulla base dell’articolo 12 della legge n. 194 (7), notava come tale legge consente l’obiezione di coscienza soltanto al personale medico e paramedico ma non anche al giudice tutelare, «che pure — è detto nell’ordinanza — è chiamato dalla legge a svolgere un’attività rilevante nella procedura abortiva»: e pertanto — fermamente convinta «che con l’aborto viene soppressa volontariamente la vita di un essere umano» (8) — riteneva che la mancata previsione di questa possibilità fosse costituzionalmente illegittima, e quindi inviava gli atti alla Corte.
La questione, che di per sé presenta aspetti di non facile soluzione, anche se sembra toccare solo marginalmente la problematica dell’aborto ha dato modo alla Corte Costituzionale di esprimersi sull’argomento in termini meritevoli di considerazione sia per la loro estensibilità oltre il caso esaminato — il che è interessante proprio per il pervicace rifiuto della Corte medesima di pronunciarsi sul merito della legge n. 194 in seguito alle numerose ordinanze di illegittimità relative alle norme centrali della legge stessa —, sia per la loro intrinseca gravità.
3. Gli argomenti con i quali i giudici costituzionali respingono l’eccezione della dottoressa Maria Lidia de Luca, ritenendola infondata, sono sostanzialmente tre:
a. premesso il «rilievo» che la legge n. 194 conferisce «alla salute psico-fisica della gestante, essendo la condizione di questa del tutto particolare» (9), essi ricordano che la facoltà di chiedere l’aborto è subordinata alla presenza di un «serio pericolo» per la salute della gravida, «secondo parametri ben individuati e circoscritti nella legge (stato di salute, condizioni economiche, o sociali, o familiari, circostanze del concepimento, ovvero previsioni di anomalie nel concepito)»; così, stante l’esplicito e contestuale richiamo alla sentenza n. 27 pronunciata dalla stessa Corte il 18 febbraio 1975, si tende ad affermare che, tutto sommato, la legge n. 194 non fa altro che consentire e disciplinare l’aborto terapeutico, con l’ovvia conseguenza che, poiché la Corte riconosce nella sentenza appena citata la legittimità di esso, non si può porre in dubbio la conformità alla Costituzione, di cui la Corte fornisce l’interpretazione autentica, della legge del 1978;
b. quanto al problema specifico sollevato nell’ordinanza della dottoressa Maria Lidia de Luca, si sostiene che l’intervento del giudice tutelare nella procedura abortiva della minorenne ha valore «unicamente di integrazione […] della volontà della minorenne» stessa, e resta «esterno alla procedura di riscontro, nel concreto, dei parametri previsti dal legislatore per potersi procedere all’interruzione gravidica». Pertanto, «una volta che i disposti accertamenti siansi identificati quale antefatto specifico e presupposto di carattere tecnico, al magistrato non sarebbe possibile discostarsene; intervenendo egli […] nella sola generica sfera della capacità (o incapacità) del soggetto, tal quale viene a verificarsi per altre consimili fattispecie». Così circoscritto, il ruolo del giudice tutelare nella vicenda abortiva è ben diverso da quello che ha il personale sanitario, sì che non sussiste alcuna disparità rispetto a quest’ultimo;
c. infine, la Corte risolve il conflitto rilevato dal giudice tutelare di Napoli fra la coscienza di uomo, che vieta la lesione della vita innocente, e la coscienza professionale, che spinge ad applicare la norma in vigore quando ne ricorrano le condizioni, richiamando il 2° comma dell’articolo 54 della Costituzione — che impone di adempiere le funzioni pubbliche «con disciplina e onore» — e il 3° comma dell’articolo 98 — che ipotizza per i magistrati limitazioni quanto alla iscrizione ai partiti politici; si ricollega poi a una delle più importanti garanzie dell’indipendenza del magistrato, quella della inamovibilità — sancita dall’articolo 107 sempre della Costituzione — per affermare che essa, «come […] pone [il magistrato] al riparo da qualsiasi interferenza ab externo, così comporta […] l’indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia, interesse d’ordine generale, il cui rilievo costituzionale questa Corte ha ripetutamente riconosciuto».
4. Dunque, i giudici costituzionali basano la dichiarazione di infondatezza della eccezione sollevata anzitutto su una premessa di carattere generale, per cui affermano esplicitamente la piena conformità della legge n. 194 alla legge fondamentale dell’ordinamento giuridico italiano; quindi, sulla enunciazione di una tesi attinente in modo più specifico alla qualificazione del procedimento autorizzativo del giudice tutelare; infine, sulle norme costituzionali, che impongono al magistrato la correttezza nell’esercizio delle sue funzioni, allo scopo ultimo di realizzare l’«esigenza di giustizia». Si tratta di un iter logico dal quale, sulla scorta dei dati normativi di riferimento nonché di un elementare buon senso, sembra più che lecito dissentire.
a. Infatti, è falso affermare che la legge n. 194 si limita a disciplinare l’aborto terapeutico, se a tale aggettivo si vuol dare il senso che a esso attribuisce la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1975: per convincersene basta leggere il testo dell’articolo 4 della legge, che consente il ricorso all’aborto alla «donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». Come è stato notato, in base a questa norma «il concetto di salute fisica e psichica non è più quello di normalità biopsichica, di assenza di fatti patologici, […] e diviene quello di “completo benessere”, a fronte del quale, come aspetto negativo, come pericolo, sta il semplice turbamento, la preoccupazione, la contrarietà, il dispiacere, stati d’animo — questi — che costituiscono il normale corredo di ogni esistenza umana» (10). Infatti non si accenna a patologie definite, ma a indicazioni della più ampia genericità, come le condizioni economiche, sociali o familiari che incidono sulla salute fisica oppure psichica della gestante; e la riprova che il termine di riferimento sia non la salute in senso proprio ma il benessere della donna, pregiudicabile per il semplice fatto della gestazione, sta — come si è visto — nella circostanza che fra le tante cause di pericolo per la «salute fisica o psichica» è appunto elencata la «salute» senza aggettivi, che, a meno di non ritenere che il legislatore sia incorso in una tautologia, è evidentemente la salute in senso proprio.
Inoltre, in base alla procedura prevista dall’articolo 5 della legge n. 194, il medico di fiducia della gestante oppure il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria è tenuto a rilasciare, anche se non ravvisa la sussistenza di una delle indicazioni previste dall’articolo 4, un certificato attestante la gravidanza e la richiesta della donna, con il quale ella, dopo una settimana, può essere sottoposta all’intervento abortivo.
Vi è dunque una notevole differenza rispetto ai termini della sentenza n. 27 del 1975, che subordinava la liceità dell’interruzione della gravidanza all’esistenza di un «danno o pericolo grave, medicalmente accertato […] e non altrimenti evitabile, per la salute della madre». Se questa decisione rende legittimo l’aborto terapeutico in senso proprio, con i limiti della gravità e della inevitabilità del danno oppure del pericolo, constatati da un medico, la legge n. 194 va ben oltre, introducendo l’aborto a richiesta: infatti, basta adempiere poche formalità amministrative; desta perciò non poca meraviglia l’affermazione della costituzionalità della legge n. 194 fondata sulla sua conformità — quasi ne fosse un’attuazione normativa — alla sentenza del 1975. Infine, non si può non notare l’assenza di ogni menzione del nascituro, la cui considerazione pure aveva motivato l’eccezione della dottoressa Maria Lidia de Luca; e questo anche se la sentenza n. 27 del 1975 aveva riconosciuto alla «situazione giuridica del concepito» «fondamento costituzionale».
b. In secondo luogo, non sembra corretto attribuire un carattere puramente formale ed esteriore al provvedimento del giudice tutelare, come se si trattasse di un semplice controllo della regolarità procedurale: infatti, secondo il dettato dell’articolo 12 della stessa legge n. 194, il magistrato deve sentire la donna e le «ragioni che adduce», il che implica la valutazione — sia pure sommaria — di tali ragioni, ché altrimenti sarebbe superfluo recepirle, e poi, espletate tutte le formalità, «può autorizzare» la donna ad abortire; il che vuol dire che il giudice tutelare ha un margine di discrezionalità nella vicenda abortiva della minore che lo coinvolge e lo responsabilizza in misura non trascurabile (11).
c. L’ultimo argomento addotto dai giudici costituzionali è — se possibile — ancora più drastico e meno articolato dei precedenti. Infatti, a chi prospetta un conflitto interiore, reale e drammatico, la cui soluzione non sembra assolutamente facile da individuare in nessuna direzione, essi rispondono citando il 2° comma dell’articolo 54 della Costituzione e il 3° comma dell’articolo 98 della stessa legge fondamentale, cioè ammoniscono ad adempiere le funzioni pubbliche con «disciplina e onore» e a ricordare la possibilità costituzionalmente prevista di porre limiti all’iscrizione dei magistrati ai partiti politici. Viene da chiedersi se il giudice che si pone il problema della tutela della vita umana innocente e che manifesta le proprie perplessità su norme lesive di tale valore, nelle forme previste dall’ordinamento, debba essere considerato «indisciplinato» e/o «disonorato»; e se la difesa della vita innocente, che è un dato oggettivo, sia riconducibile a un piano di pura opinione, a tal punto soggettiva da poter essere colpita dalla estensione analogica di un precetto costituzionale — quello che ipotizza i limiti all’appartenenza ai partiti politici —, che finora non ha avuto neppure attuazione diretta, dal momento che non esiste una legge che faccia divieto ai giudici di iscriversi appunto ai partiti politici!
I richiami a queste norme costituzionali, come quello alla garanzia della inamovibilità del magistrato, sono tuttavia volti a sottolineare il fatto che — anche nel caso in esame — gli compete «l’indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia», ove — evidentemente — «giustizia» va intesa non nel senso classico del «suum cuique tribuere», del «dare a ciascuno il suo» — altrimenti anche al nascituro dovrebbe essere riconosciuto il «suum» che gli spetta —, ma, alla luce dell’intero contesto, come coincidente in modo esclusivo con la legge positiva, nel caso con la legge n. 194.
Il succo del discorso è dunque che la legge è legge e che il giudice la deve applicare in ogni caso, senza batter ciglio. E questo sembra valere in modo speciale per la legge sull’aborto, la cui patente di costituzionalità, già desumibile dalla sentenza della Corte n. 26 del 1981, viene ribadita ancor più esplicitamente con la decisione del maggio del 1987: non la vita del concepito è costituzionalmente tutelata, ma la sua soppressione, e se qualche magistrato nutrisse ancora dubbi su tale assioma rischia di passare per indisciplinato e per fazioso.
5. Da ultimo credo opportuno ricordare che, dopo l’approvazione della legge n. 194 e per qualche tempo, molti hanno nutrito la speranza che i giudici di Palazzo della Consulta avrebbero ridimensionato la portata delle sue norme, data l’evidente lesione di più di un precetto costituzionale. Ora, la sentenza n. 196 del 1987 assesta indubbiamente — più delle precedenti decisioni in materia — un colpo decisivo alle speranze — o illusioni? — residue. Resta solo da augurarsi che, come in altri Stati — con gli Stati Uniti all’avanguardia — il mutamento di rotta in questo settore è divenuto realmente possibile anche a livello istituzionale soltanto dopo anni di martellante propaganda in difesa della vita innocente e contro l’aborto svolta da singoli e da associazioni, così anche in Italia cresca e si sviluppi la consapevolezza che la sensibilità per la vita umana nascente e per il significato sociale della sua tutela deve assumere proporzioni propagandistiche tali da influire sugli organi istituzionali competenti a cancellare dall’ordinamento giuridico la vergogna costituita dall’omicidio legalizzato dell’innocente.
Alfredo Mantovano
Note:
(1) Di questa «banalizzazione» costituisce prova evidente, sulla scorta delle cifre fornite annualmente dal ministero della Sanità, l’incremento della recidività nell’interruzione volontaria della gravidanza nonché il rapporto fra il numero dei nati vivi e quello degli aborti. Inoltre, è facilmente prevedibile un’ulteriore sottovalutazione dell’aborto in seguito alla diffusione di un farmaco, il Nalador, attualmente disponibile soltanto negli ospedali, in grado di provocarlo senza intervento chirurgico, e quindi anche fra le mura domestiche: per maggiori particolari, cfr. SALVATORE MAZZA, Una ricetta val più della legge. E l’aborto arriva a domicilio, in Avvenire, 27-8-1987.
(2) La Corte Suprema degli Stati Uniti, che con sentenza del 22 gennaio 1973 aveva liberalizzato l’aborto (cfr. il documento in L’aborto nelle sentenze delle Corti Costituzionali, Giuffrè, Milano 1976, pp. 1-142), da qualche tempo, anche in seguito a massicce campagne propagandistiche, sembra voler rivedere gli orientamenti precedenti: esempio significativo di questo mutamento di rotta è fornito dalla sentenza del 30 giugno 1986, emessa dal procuratore generale della Georgia, Bowers, contro Hardwich e Doe (cfr. il testo in Il Foro Italiano, anno CXI, n. 12, dicembre 1986, parte IV, coll. 379 ss., con nota di Serena Manzin Maestrelli), che ha ritenuto non in contrasto con il dettato costituzionale statunitense la repressione penale degli atti di sodomia compiuti dagli omosessuali, negando che possa configurarsi di principio un diritto fondamentale degli omosessuali stessi a praticare la sodomia.
(3) CORTE COSTITUZIONALE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, Sentenza 18 febbraio 1975 n.27, in L’aborto nelle sentenze delle Corti Costituzionali, cit., pp. 328-329.
(4) IDEM, Sentenza 10 febbraio 1981 n.26, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, anno 122, n. 44, parte 1a, 13-2-1981. Per una critica di questa pronuncia, cfr. MANLIO MAZIOTTI DI CELSO, Referendum sul diritto alla vita e giurisprudenza costituzionale, in Il Tempo, 28-3-1981; per una valutazione della stessa sentenza nel quadro più ampio della dinamica rivoluzionaria in Italia. cfr. MAURO RONCO, Solo l’aborto è «costituzionale»!, in Cristianità, anno IX, n. 70, febbraio 1981, in cui sono esaminati anche i riflessi costituzionali della pronuncia stessa.
(5) È noto che, nel giudizio di legittimità costituzionale di un testo di legge, viene esaminata non soltanto la questione di merito, ma anche la rilevanza che la soluzione di essa ha nel caso specifico nel corso del quale è stata sollevata l’eccezione: si tratta di una valutazione preliminare che, se dà esito negativo, preclude la stessa valutazione del merito.
(6) Cfr. CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza 21 maggio1987 n.196, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, anno128, 1a serie speciale, n. 25, 17-6-1987, pp. 26-29.
(7) Secondo questa norma la minore che voglia abortire senza il consenso dei genitori si rivolge al giudice tutelare e questi, ascoltata la donna e le ragioni che adduce, e valutata la relazione che gli è stata trasmessa dal medico o dalla struttura socio-sanitaria, può quindi autorizzarla, con atto non reclamabile, a decidere l’interruzione della gravidanza.
(8) Ordinanza emessa il 24 settembre 1984 nel procedimento promosso da Mangiapia Silvia, in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, anno 126. n. 71-bis, parte 1a, 23-3-1985. Sul caso, cfr. il mio Giudici e obiezione di coscienza in tema di aborto, in Cristianità, anno XIII, n. 121, maggio 1985: e una dichiarazione sottoscritta anche da Alleanza Cattolica, Solidarietà con il giudice tutelare che ha sollevato obiezione di coscienza nei confronti della legge abortista n. 194 del 1978, ibidem.
(9) CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza 21 maggio 1987 n. 196, cit.; le successive citazioni senza indicazione di fonte sono tratte da questa sentenza.
(10) CARLO CASINI e FRANCESCO CIERI, La nuova disciplina dell’aborto (Commento alla legge 22 maggio 1978 n. 194), CEDAM, Padova 1978; p. 72.
(11) Il suo grado di coinvolgimento è ancora maggiore nell’ipotesi dell’aborto di interdetta, che, in base all’articolo 13 della legge n. 194, può essere richiesto o dalla donna stessa o anche dal coniuge oppure dal tutore. Però, mentre nel caso dell’aborto di minorenne il giudice rilascia l’autorizzazione, ma è poi la donna a compiere l’ultimo passo verso l’intervento abortivo, nell’ipotesi dell’interdetta è il magistrato che, espletate le formalità procedurali, decide con atto non reclamabile, pronunciando quella che, di fatto, è una sentenza di morte inappellabile. Per un caso di «aborto coatto», cioè di un decreto pretorile di aborto di un’interdetta deciso dal magistrato senza neppure ascoltare la gestante, cfr. il mio Genova: il pretore autorizzò l’aborto «coatto» su una minorata, in Avvenire, 19-6-1987.