Marco Invernizzi, Cristianità n. 422 (2023)
Il libro di Adriano Dell’Asta, docente di Lingua e Letteratura Russa all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia e già direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Mosca dal 2010 al 2014, nasce dall’amore per la Russia profonda, testimoniato da oltre mezzo secolo da Russia Cristiana, l’associazione fondata da padre Romano Scalfi (1923-2016) per far conoscere il cristianesimo ortodosso in Italia e per denunciare il socialismo reale, in particolare per fornire informazioni sui dissidenti sovietici e difenderli. Un amore che continua a raccontare l’esistenza di una Russia diversa da quella di oggi, non anti-europea e anti-occidentale, con la quale continuare il dialogo praticato da Russia Cristiana fin dalle sue origini.
Il libro nasce anche per descrivere come l’ideologia propria della dirigenza attuale della Russia, sia politica — il presidente Vladimir Putin —, sia ecclesiastica — il patriarca ortodosso Kirill I (Vladimir Michajlovič Gundjaev) —, abbia avuto e continui ad avere un ruolo importante nello scatenamento della guerra.
Questa ideologia, il Russkij mir — il «Mondo russo», ma può significare anche la «Pace russa» —, viene spiegata nei suoi rapporti con l’Europa nel primo capitolo, Perché questo titolo? (pp. 5-22). «Va subito detto, in effetti, che con la guerra cui stiamo assistendo oggi scompare totalmente l’immagine di una Russia che, pur nel suo irripetibile carattere nazionale, ha una vocazione universalista, legata alla sua tradizione cristiana e alle sue origini europee, ben più antiche e profonde rispetto a quelle di un presunto asiatismo che la separerebbe invece dal resto dell’Europa» (p. 10). L’essenza dell’ideologia del «Mondo russo» sarebbe dunque «un assoluto isolazionismo» (p. 22) contro ogni influenza straniera, una sorta di Russia contro tutti, in opposizione radicale all’Occidente, ma non soltanto, un’opposizione a quanto nella tradizione occidentale vi è di universale, di legato al diritto naturale e, come tale, appartenente alla tradizione cristiana universale, comune al cattolicesimo latino e a quello orientale.
La tesi sostenuta nel secondo capitolo, Russofobia (pp. 23-51), sostiene che l’ideologia del «Mondo russo» sia russofoba, perché contraria alla tradizione del pensiero russo. Dell’Asta riporta le opinioni in questo senso di molti intellettuali russi, da Andrej Zubov al sacerdote ortodosso residente in Italia Vladimir Zelinskij, dallo scrittore Michail Pavlovič Šiškin alla poetessa Ol’ga Sedakova. Tutti questi autori sono concordi nel sostenere che «il nazionalismo esclusivo, pur presente nella storia russa, non va confuso con la Russia in quanto tale e soprattutto ne deforma l’identità stessa» (pp. 37-38). La stessa tesi era stata sostenuta in un profetico saggio del maggior filosofo russo dell’Ottocento, Vladimir Solov’ëv (1820-1879), scritto addirittura nel 1888, Il problema nazionale in Russia (trad. it. in La Nuova Europa, 15 ottobre 2022). A questa tesi nazionalista si aggiunge una sorta di fondamentalismo religioso di alcuni esponenti importanti della gerarchia ortodossa, come il patriarca di Mosca Kirill, ostili all’Occidente secolarizzato ma anche alla Chiesa cattolica, dimenticando quello che aveva detto l’altro grande filosofo russo, Nikolaj Berdjaev (1874-1948), dopo la Rivoluzione del 1917: per la Russia si trattava di capire che il suo punto di riferimento era la tradizione autentica «della Santa Rus’, e non l’idea imperialista della Grande Russia» (p. 51).
Nel terzo capitolo, L’ideologia del Russkij mir (pp. 53-82), Dell’Asta esamina appunto il contesto storico nel quale si realizza questo pensiero del «Mondo russo». Anzitutto, il legame di Putin con i potentati economici della Russia post-sovietica, così descritti, per esempio, da Catherine Belton (cfr. Gli uomini di Putin. Come il KGB si è ripreso la Russia e sta conquistando l’Occidente, trad. it., La Nave di Teseo, Milano 2020). È importante notare come si stia diffondendo nuovamente un giudizio sostanzialmente positivo sull’Unione Sovietica, dopo l’affermazione di Putin — nel discorso annuale sullo stato della nazione del 25 aprile 2005 — secondo cui la fine dell’Unione Sovietica sarebbe stata «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo» (p. 59). Un giudizio benevolo comincia a circolare anche in Occidente in ambienti di destra e, a volte, riguarda anche l’ideologia comunista, che, in fin dei conti, si dice, aveva dato da mangiare a tutti i russi. Si sottovaluta, in questi ambienti, come la violenza nei confronti degli oppositori politici — quasi tutti in prigione —, dei giornalisti assassinati, estradati, in prigione anche loro in quanto giudicati «agenti stranieri», la violenza e in generale la mancanza di libertà siano una ferita profonda inferta ai princìpi della dottrina sociale della Chiesa. Da un certo punto di vista, la vicenda più emblematica di questo atteggiamento repressivo è la chiusura, voluta dal regime, di Memorial, l’associazione fondata nel 1989 dal Premio Nobel per la Pace e dissidente sovietico Andrej Sacharov (1921-1989) con lo scopo di raccogliere tutto quanto sarebbe potuto servire a comprendere quanto effettivamente accaduto sotto il «socialismo reale». Una parte importante di questo terzo capitolo è dedicata a come, dopo l’elezione al patriarcato di Kirill nel 2009, quest’ultimo abbia cominciato a trasformare «il suo fervore missionario […] in nazionalismo» (p. 80), così che — come spiega il sacerdote ortodosso ucraino del Patriarcato di Mosca Kirill Hovorum — «l’idea originaria del Russkij mir era stata capovolta: la Russia restava al centro, ma non si trattava più di far tornare verso il centro il potenziale intellettuale che era finito in Occidente per contribuire in tal modo a un’evoluzione democratica della Russia stessa, realizzata in armonia con l’Occidente e nel quadro di un reciproco arricchimento» (p. 81). La Chiesa ortodossa riuscì a convincere il Cremlino che questa avrebbe potuto diventare la base ideologica della sua politica «imperialista».
Nel quarto capitolo, Il Russkij mir e il problema del filetismo (pp. 83-102), si affronta il tema dell’eresia del filetismo, condannata dalla Chiesa ortodossa nel 1872, definita da un gruppo di teologi ortodossi come l’esaltazione esclusiva e orgogliosa della «differenza delle razze e delle differenze nazionali nel seno della Chiesa di Cristo» (p. 84) e applicata per analogia al Russkij mir. In un documento del 13 marzo 2022, questi teologi — inizialmente sessantacinque, ma poi diventati oltre cinquecento — hanno paragonato il filetismo all’idea di «Mondo russo» che comprende Russia, Ucraina, Bielorussia, a volte Moldavia e Kazachistan, ma anche i russofoni di tutto il mondo. Il «Mondo russo» ha una capitale, Mosca, un centro spirituale, Kiev, una lingua comune, il russo, una Chiesa e un patriarca, quelli di Mosca, che operano in «sinfonia» con il capo del Cremlino, Putin. In nome dell’affermazione di questa idea, o ideologia, il patriarca Kirill ha giustificato immediatamente, il 27 febbraio 2022, l’«operazione militare speciale» in Ucraina, invitando i fedeli a «non farsi ingannare da forze esterne oscure e ostili» (p. 86). Nei mesi successivi, il patriarca ha ulteriormente alzato il livello della giustificazione dell’aggressione all’Ucraina, portandolo su un piano metafisico e costringendo il Papa e il card. Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, a interventi miranti a superare la confusione creatasi circa i rapporti fra Chiesa e Stato: da qui l’intervento di Papa Francesco sul «chierichetto di Putin» (cfr. Corriere della Sera, 3-5-2022) e quello più articolato del card. Koch, che ha usato il termine «eresia» (p. 92) per condannare l’intervento del capo della Chiesa di Mosca. Probabilmente, però, il patriarca su questo aspetto ha ragione: il problema, prima che politico e militare, è religioso, certamente metafisico, perché si scontrano due visioni dell’uomo e del mondo difficilmente conciliabili. Dell’Asta ricostruisce brevemente questi passaggi per arrivare a sostenere come il ritorno all’eresia del filetismo, con la subordinazione della Chiesa allo Stato, potrebbe preludere «a un vero e proprio ritorno del paganesimo russo antico» (p. 98). L’autore indica, seppur brevemente, anche una possibile pista da seguire per verificare la correttezza di questo eventuale passaggio: la figura di Aleksandr Dugin, uno dei teorici del nazionalismo russo, molto conosciuto in Italia soprattutto negli ambienti di estrema destra, dove sono stati tradotti diversi suoi libri.
Nel quinto e ultimo capitolo, La sfida dell’umano (pp. 103-125), l’autore affronta il tema di come uscire dalla situazione drammatica venutasi a creare con l’inizio della guerra russo-ucraina. La chiave di lettura è il realismo contrapposto all’ideologia, sfida che riproduce in qualche modo quanto si verificò con il dissenso nei Paesi del «socialismo reale». Per recuperare un atteggiamento di realismo, Dell’Asta richiama il tema del discernimento, che sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) pone a fondamento dei suoi esercizi spirituali e Papa Francesco mette alla base del modo corretto di affrontare il tema della guerra in corso. Il Pontefice cerca la pace attraverso ogni possibile tentativo diplomatico e cercando di costruire delle condizioni favorevoli al dialogo, ma non ha mai confuso l’aggressore con l’aggredito, cioè non ha mai perso di vista la realtà. Così, molto realisticamente, Dell’Asta fa notare «le preoccupazioni di tanti Stati dell’Europa orientale, che non sono stati invasi dalla NATO, ma hanno piuttosto chiesto di aderirvi per non essere invasi davvero» (p. 109).
La conclusione del libro ruota intorno a una domanda anch’essa molto legata al realismo: esiste qualcosa o Qualcuno realmente più importante di qualsiasi cosa, per cui valga la pena di «mettere in gioco» la propria vita? È la domanda che unì tutti i dissidenti del socialismo reale, da Budapest nel 1956 ai cantieri di Danzica, dove nacque Solidarność, nel 1981, tutte tappe di un cammino di liberazione dal socialcomunismo che segnarono la vita reale di tanti uomini e donne. Erano uomini autentici, realisti e non ideologici.
Molto importanti sono, infine, le parole conclusive, dedicate al perdono, pronunciate da un filosofo russo, Semën Ljudvigovič Frank (1877-1950), esiliato dopo la Rivoluzione del 1917: «In questa terribile guerra, in questo caos disumano che ormai regna nel nostro mondo, il vincitore, alla fine dei conti, sarà quello che comincerà a perdonare per primo» (pp. 124-125). Parole pronunciate durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), ma che mi sembrano estremamente attuali.
Marco Invernizzi