Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 133 (1986)
La storia inedita del tentativo di rovesciare il regime totalitario al potere nel paese balcanico da parte di patrioti anticomunisti sostenuti dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, dopo la fine della seconda guerra mondiale, e del tradimento che lo ha fatto tragicamente fallire.
Nella ricostruzione di lord Nicholas Bethell
Albania 1949-1953: la liberazione sabotata
Nel dopoguerra l’Albania è salita alla ribalta della cronaca politica ben poche volte. Le scarse notizie filtrate attraverso l’autentica «cortina di ferro» di cui si circonda hanno rivelato aspetti della vita del popolo albanese che gettano una luce particolarmente sinistra sul regime comunista al potere. Esso, infatti, si contraddistingue per un’applicazione rigidissima del marxismo-leninismo a tutti gli aspetti della vita sociale – con la conseguente inevitabile miseria e discordia diffuse -, per l’abolizione completa di ogni libertà religiosa, anche formale (1), nonché per una certa autonomia dal blocco sovietico come conseguenza sopravvivente della scelta filocinese operata alla fine degli anni Sessanta. Ma, oltre che per il suo carattere estremamente radicale, il comunismo albanese è noto per avere ininterrottamente praticato, dal momento della conquista dello Stato fino a oggi, il terrorismo poliziesco contro la popolazione. Arresti, esecuzioni sommarie, campi di lavoro forzato per gli oppositori e coloro che tentano di espatriare clandestinamente, in questi decenni non hanno conosciuto pause: si calcola che su nemmeno tre milioni di abitanti vi siano in Albania oggi circa quarantamila prigionieri politici (2). Particolarmente intensa è la persecuzione anti-religiosa (3). Basti ricordare due episodi. Il primo, del 1972, ha suscitato una certa eco sulla stampa italiana: si tratta della fucilazione di un sacerdote cattolico, don Shtjefen Kurti, reo di avere amministrato il battesimo – in privato, vista la totale abolizione dei luoghi di culto avvenuta nel 1967 – a un piccolo albanese (4). L’altro, più recente, è la morte di padre Filip Masreku, di settantadue anni, frate minore, dopo trent’anni di campo di lavoro forzato (5). Il dramma del dissenso interno albanese è riemerso negli ultimi mesi con la clamorosa – anche se il clamore è stato ampiamente attutito dalla stampa italiana – e tragica vicenda dei sei anziani fratelli Popa, rifugiati dal dicembre del 1985 all’interno dell’ambasciata italiana a Tirana perché perseguitati dalla polizia politica comunista e impediti a espatriare (6).
A spiegare quale sia stato l’atteggiamento dell’Occidente nei confronti di questo autentico «paese modello» all’interno del mondo comunista contribuisce un recente libro di lord Nicholas Bethell, intitolato La missione tradita. Come Kim Philby sabotò l’invasione dell’Albania e apparso nel mese di febbraio del 1986 in edizione italiana (7). L’interesse di quest’opera consiste nel fatto che rivela e descrive un episodio quasi del tutto inedito, in generale della recente storia delle relazioni internazionali e in particolare di quella dell’Albania. Le potenze occidentali, che sono state tutt’altro che esenti da colpe nell’avallare la conquista comunista della Jugoslavia e dell’Albania, non si sono sempre mostrate indifferenti alla sorte dei paesi europei caduti sotto regime comunista. Se gli accordi di Yalta hanno segnato la nascita dei blocchi contrapposti, la loro realizzazione non è stata immediata e priva di vischiosità, e forse non era nelle intenzioni degli occidentali abbandonare definitivamente al comunismo l’Europa Orientale e i Balcani (8). La situazione venutasi a creare tra il 1945 e la fine della guerra civile greca non è pacificamente accettata da tutti gli ambienti politici, anzi non mancano le reazioni. Esse si smorzano solamente con il passare del tempo e l’egemonia comunista sull’Europa Orientale cessa di essere rimessa in discussione soltanto dopo la fine degli anni Sessanta. Anzi, in certi particolari frangenti – come quello costituito dalla fase più acuta della cosiddetta «guerra fredda» -, il governo statunitense considera la possibilità di intervenire militarmente o, comunque, di operare per un ritorno di alcuni paesi di quest’area nell’orbita occidentale: il caso in cui l’ipotesi si traduce più concretamente sul piano operativo è proprio quello dell’Albania.
La vicenda tragica e gloriosa – e ricca di insegnamenti – del tentativo operato dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti per destabilizzare il governo comunista albanese e staccare il paese dal blocco sovietico si svolge tra il 1949 e il 1953. Si tratta di una operazione condotta sul piano semi-clandestino dei servizi segreti – entrambe le potenze disponevano di apposite strutture (9) destinate a condurre azioni di sovversione in paesi stranieri, secondo il modello adottato negli anni della seconda guerra mondiale – che non vede mai apparire ufficialmente i governi e sulla quale – dopo il suo termine – scende un velo di silenzio che tuttora, negli anni in cui i governi hanno iniziato ad aprire gli archivi segreti del tempo di guerra, permane rigoroso.
Come mai matura nei governi occidentali la decisione di operare in tale senso? La causa di fondo – secondo Nicholas Bethell – è la delusione per la piega presa dagli avvenimenti nell’Europa Orientale e, ancora di più, il timore di una ulteriore espansione dell’impero comunista come autorizzavano a prevedere, tra altri avvenimenti, il blocco di Berlino, l’esplosione della guerra civile in Grecia, la trasformazione della Cecoslovacchia in «paese satellite» e l’incremento del Fronte Popolare in Italia. In sostanza si ritiene necessario fare capire all’interlocutore sovietico che la sua aggressività – sostenuta dal vittorioso esito della guerra e dal colossale potenziale industriale e militare messo a sua disposizione dagli Alleati – non sarebbe stata tollerata e che non ci si sarebbe limitati al suo «contenimento» – come avverrà per esempio in Vietnam, nel decennio successivo – ma, almeno in tesi, si sarebbe potuta scatenare la ritorsione nello stesso campo avversario. L’azione è poi condotta a un doppio livello di consapevolezza. Se per i governi si tratta di un deterrente, di una carta eventualmente da giocare, ma da tenere in serbo, per i funzionari degli apparati segreti britannico e statunitense, di orientamento più conservatore (10), l’operazione è vissuta con molto meno distacco e sono molte le speranze da essi coltivate di un autentico rovesciamento della situazione dell’Europa Orientale e di una sconfitta del comunismo.
La scelta dell’Albania (11) come destinataria dell’azione liberatrice deriva dal fatto che, se essa aveva mantenuto una ferrea solidarietà con Mosca anche durante la «ribellione» jugoslava, si trovava però a costituire la parte più esposta e più debole del blocco sovietico, isolata com’era da altri paesi di obbedienza moscovita dalla Jugoslavia e dalla Grecia, quest’ultima in via di riconquista da parte dell’Occidente. La ferocia del regime, poi, faceva sperare nell’esistenza di un notevole potenziale reattivo anticomunista, che si trattava solo di scatenare.
Il progetto prevedeva di reclutare uomini tra gli albanesi in esilio, di fornire loro materiale bellico e di propaganda e radio rice-trasmittenti, di addestrarli al sabotaggio e alla sopravvivenza e di farli penetrare in Albania, affinché raggiungessero a piedi le loro zone di origine e prendessero contatto con eventuali nuclei di oppositori, facessero conoscere la solidarietà dell’Occidente con il popolo albanese e creassero così le condizioni per una sollevazione che le due maggiori potenze del mondo libero avrebbero aiutato e condotto al successo.
Viene creato un centro di addestramento a Malta e da là gruppi di incursori sbarcano a più riprese – a partire dal 1949 – sulle coste albanesi, da un finto yacht a vela, lo Stormie Seas, equipaggiato da elementi del SIS già resi esperti dalla guerriglia nei Balcani del periodo bellico. Gli sbarchi dei «folletti» o dei «piccoli uomini» – così i britannici chiamavano i patrioti albanesi per la loro piccola statura e la loro magrezza – sono seguiti e, per un certo periodo, accompagnati da lanci organizzati dalla CIA di agenti paracadutati da velivoli-ombra provenienti da basi greche e pilotati da ex assi polacchi della seconda guerra mondiale. Questa fase inizia più tardi, verso il 1951, ed è l’ultima a terminare, nel 1953.
Un’altra parte del piano occidentale mirava alla copertura politica della progettata rivolta popolare in Albania. Non potendo riferirsi unicamente al re legittimo in esilio al Cairo – per non scontentare gli esuli repubblicani -, la diplomazia occidentale dà vita a una sorta di comitato di liberazione nazionale – il Comitato Nazionale Albanese, negoziato a Roma e creato il 26 agosto 1949 a Parigi -, presieduto da un monarchico – il re ovviamente non volle entrare a farne parte -, Midhat Frasheri (12) e con una giunta segreta che avrebbe dovuto «dirigere» le operazioni militari. Il comitato però non ha mai contatti con gli organi dei diversi governi, ma tratta o è in relazione sempre e solo con ambienti ufficiosi (13) o con esponenti dei servizi segreti.
Fin dai primi tentativi, l’infiltrazione degli agenti liberatori sembra infrangersi contro un muro: alcuni gruppi vengono arrestati a pochi chilometri di distanza dal luogo dello sbarco, altri – ben pochi – riescono a prendere contatto con elementi di opposizione, ma trovano un terrore così diffuso e un ambiente così malfido che devono ben presto darsi alla macchia e, spesso forzando i blocchi dell’esercito albanese, riparare rapidamente in Grecia: molti vengono uccisi sul posto anche in maniera barbara, altri incarcerati. La vigilanza dei comunisti, la loro presa – per terrore – sulla popolazione, gli elementi contrari alla riuscita di una sollevazione popolare, si rivelano fin da subito superiori al previsto. Inoltre, il tentativo stesso contribuisce ad accrescere il terrore di Stato, in quanto le vendette del governo comunista non si rivolgono solo contro gli agitatori catturati – alcuni ben noti fin dal tempo della comune guerra partigiana -, ma coinvolgono anche le famiglie di questi e chiunque sia solo sospettato di avere avuto qualunque rapporto con loro.
La causa vera dei ripetuti fallimenti delle missioni non viene individuata subito e il sacrificio dei «piccoli uomini» albanesi continua.
Lord Bethell, invece, ritiene di scoprirla nel fatto che proprio nel cuore dell’operazione, a svolgere la funzione di raccordo tra MI6 e servizi segreti americani a Washington, si trovava uno dei più celebri e abili agenti doppi sovietici, l’inglese Harold «Kim» Philby (14). Si deve certamente a lui – al corrente dell’operazione anche nei minimi dettagli fin dal suo inizio – se la Sigurimi, la polizia segreta albanese, può venire a conoscenza del piano, almeno nelle sue linee principali, e neutralizzarlo. È possibile – come mette bene in luce lo stesso Nicholas Bethell – che Harold Philby non sia stata l’unica fonte di informazione per i comunisti, se si tiene conto del grande numero di agenti che questi ultimi hanno da sempre infiltrato nei vari movimenti anticomunisti in tutto il mondo: ma egli è certamente il primo a metterli al corrente dell’operazione e a determinare di conseguenza il fallimento dell’elemento sorpresa.
Solo a metà del 1951 i servizi occidentali sospettano l’esistenza di una «talpa», ma Harold Philby è messo sotto inchiesta solo dopo lo scoppio dell’«affare» Burgess-MacLean (15), quando emergono le relazioni con quest’ultimo (16).
Nel novembre del 1951 l’operazione britannico-americana viene pubblicamente svelata fin nei particolari dal governo comunista albanese, che imbastisce un processo spettacolare contro gli agenti catturati e i loro – veri o presunti – fiancheggiatori. Il processo si conclude nel sangue e contribuisce a scuotere sensibilmente il morale dei patrioti arruolati nell’impresa.
Anche se scoperta, però, l’operazione continua e si tenta di rendere più efficace l’infiltrazione passando dagli sbarchi ai lanci paracadutati e dotando gli agenti di migliori mezzi di sopravvivenza e di comunicazione. Ma neppure questo basta e si assiste a un altro olocausto nel quale si immola il fior fiore della dirigenza anticomunista albanese in esilio. Anzi, la Sigurimi riesce per quasi due anni a ingannare la CIA e il SIS comunicando alle basi di ascolto in territorio greco notizie false, sfruttando le apparecchiature e i codici degli agenti sabotatori catturati. Una nuova, violenta ondata di terrore poliziesco si abbatte sul paese e culmina in un secondo clamoroso processo. inscenato nell’aprile del 1954, che, si può dire, suggella la fine dell’impresa. Altre condanne a morte, altre condanne ai lavori forzati o al carcere, in condizioni così inumane che la maggior parte dei colpiti vi trova la morte. Lord Bethell calcola che il numero delle vittime assommi a diverse centinaia e che le persone incarcerate – intere famiglie – siano state «parecchie migliaia» (17).
Dopo questo fatto il comitato nazionale si scioglie, le operazioni militari cessano del tutto, gli ultimi reparti in addestramento sono sciolti: agli esuli albanesi rimane soltanto l’onore di essersi battuti con le armi per liberare la loro patria dall’oppressore.
Che cosa pensare, in conclusione, dell’intera vicenda? Si è trattato soltanto di un esperimento di laboratorio fatto dalle potenze occidentali, con i patrioti anticomunisti albanesi nel ruolo di cavie inconsapevoli? I governi del mondo libero hanno avuto realmente l’intenzione di mettere in opera una strategia del contrattacco piuttosto che quella del «contenimento»? E se così è stato, perché si è adottato un metodo così radicalmente inadeguato, fallito tragicamente non solo nel caso albanese, ma anche – otto anni più tardi – in occasione dello sbarco nella Baia dei Porci, a Cuba? Perché, poi, l’operazione è stata proseguita testardamente, per anni, nonostante i sanguinosi insuccessi delle missioni? Infine, per quale misterioso motivo l’Occidente ha spesso affidato la sua sicurezza a personaggi dai trascorsi a dir poco ambigui come Harold Philby e compagni? Gli interrogativi sono numerosi e non è possibile rispondere a essi con sicurezza e in breve. Mi limito a due considerazioni di genere. Vi è chi sostiene che gli uomini contino poco o nulla nella storia e che questa sia mossa da forze anonime, impersonali e profonde, vuoi psichiche, vuoi «spirituali», vuoi economiche. Eppure, in casi come questo – dove la conversione di un uomo al comunismo, la sua determinazione a servirne l’ideologia fino al punto di tradire la propria patria, ha significato la morte di migliaia di esseri umani e una grave sconfitta per la libertà, determinando il destino di un’intera nazione – tutto può dipendere da un solo uomo (18). Inoltre, mi sembra che il tragico episodio descritto da lord Bethell debba fare riflettere sul fatto che il male presente nella storia è incarnato in uomini, in ideologie, in sistemi politici dall’identità ben definita; che esso è organizzato e che ha maturato un’esperienza secolare: non si può, perciò, sperare di combatterlo validamente senza conoscerne la vera natura e le conseguenti espressioni, a esse contrapponendo una dottrina e una pratica assolutamente coerenti e alternative.
Oscar Sanguinetti
Note:
(1) L’articolo 55 del codice penale albanese recita: «La propaganda fascista, antidemocratica, religiosa, guerrafondaia o antisocialista […] [è punita] con la detenzione da 3 a 10 anni. Gli stessi atti compiuti in tempo di guerra o quando hanno causato conseguenze particolarmente gravi sono puniti con la detenzione per un periodo minimo di 10 anni o con la pena capitale» (AMNESTY INTERNATIONAL, Albania, Amnesty International Publications, Roma 1984, pp. 8-9).
(2) Cfr. DOMINIQUE CLERC, L’Albanie, l’oubliée du monde occidental, in L’Impact suisse, n. 210, gennaio 1986, pp. 44-45.
(3) In Albania – secondo l’ultimo censimento religioso, effettuato nel 1945 – il 72,8% della popolazione era musulmano, il 17,1% era cristiano-ortodosso, il restante 10,1% cattolico (cfr. AMNESTY INTERNATIONAL, op. cit., p. 10).
(4) Cfr. ZEF MARGJINAJ, Marcia di un albanese verso la libertà. Autobiografia, La Nuova Base, Udine 1983, p. 143.
(5) Cfr. Jesus, anno VIII, n. 2, febbraio 1986.
(6) Per la campagna di solidarietà promossa da Alleanza Cattolica e dalla CIRPO-Italia, iniziata a Milano e a Napoli l’11 gennaio 1986 ed estesa a tutta Italia, cfr. la rubrica La buona battaglia, in Cristianità, anno XIV, n. 129-130, gennaio-febbraio 1986; n. 131, marzo 1986; e in questo stesso fascicolo.
(7) Cfr. NICHOLAS BETHELL, La missione tradita. Come Kim Philby sabotò l’invasione dell’Albania, trad. it., Mondadori, Milano 1986, pp. 225. L’autore, giornalista e scrittore britannico, membro della Camera dei Lord, è noto anche per avere sollevato il velo di silenzio calato su un altro dei «segreti» della storia contemporanea, cioè il rimpatrio forzato, operato dagli Alleati, degli uomini dell’esercito anticomunista russo che aveva combattuto a fianco dei tedeschi negli anni 1941-45: come si sa, tutti i combattenti, appena varcata la frontiera, furono immediatamente massacrati o avviati nell’Arcipelago GULag. Cfr. IDEM, The Last Secret, Basic Books Inc. Publishers, New York 1974; e ROBERTO DE MATTEI, Schiavi di Mosca e vittime di Yalta, in Cristianità, anno VIII, n. 60, aprile 1980.
(8) Significative, in proposito, dichiarazioni fatte dal presidente Ronald Reagan nel 1984 e interpretate come un preavviso di una possibile rimessa in discussione di quanto pattuito a Yalta: cfr., per esempio, VITTORIO STRADA, Se a Est votassero contro Yalta?, in Corriere della Sera, 28-8-84.
(9) Nel caso del SIS – Secret intelligence Service, il servizio segreto militare britannico, noto anche come MI6 – vengono recuperati agenti già impiegati nel corso della guerra in operazioni analoghe nei Balcani, nell’ambito del SOE – Special Operations Executive -; la CIA, invece, crea l’OPC – Office for Policy Coordination -, oggi disciolto (cfr. N. BETHELL, op. cit., p. 11).
(10) Cfr. ibid., p. 114: «Il mondo dei servizi segreti aveva parlato per più di un anno di contrattaccare l’impero sovietico».
(11) L’Albania cade sotto il dominio comunista – analogamente alla Jugoslavia – per il prevalere, tollerato dagli Alleati, all’interno della Resistenza anti-italiana, prima, anti-tedesca, poi, del movimento comunista di Enver Hoxha. I partigiani monarchici del gruppo Legaliteti, fedeli a re Zog, in esilio dal 1939, e quelli nazional-liberali del Balli Kombëtar – Fronte Nazionale – sono tutti costretti a espatriare.
(12) Midhat Frasheri, recatosi a New York per una tournée di propaganda del comitato negli Stati Uniti, viene misteriosamente trovato morto la mattina del 3 ottobre 1949 nella sua camera di albergo a Manhattan. Lord Bethell si chiede se non si tratti di un caso simile a quelli di Stephan Bandera o Georgi Markov (cfr. ibid., pp. 114-116).
(13) A Londra i membri del comitato vengono accolti da funzionari della BBC e non dal Foreign Office; negli Stati Uniti dal Comitato per la Libera Europa, il CLE, un’organizzazione nominalmente privata, creata all’inizio del ‘49 e ispirata dal dipartimento di Stato (cfr. ibid., pp. 109-113).
(14) Harold Philby si converte al leninismo – provenendo dalla sinistra laburista – quando frequenta l’università di Cambridge, all’inizio degli anni Trenta. Nelle sue memorie autobiografiche scrive: «Lasciai l’università con la laurea in tasca, e la convinzione che la mia vita doveva essere votata al comunismo» (HAROLD PHILBY, La mia guerra segreta, trad. it., Mondadori, Milano 1968, pp. 14-15). Fa quindi parte, con altri personaggi destinati alla notorietà, del gruppo di intellettuali filo-marxisti denominati «gli Apostoli» (cfr. N. BETHELL, op. cit., p. 66; e HUGH SYKES DAVIES, Apostoli sì, ma di Stalin, intervista a cura di Massimo Massara, in Panorama, anno XXIV, n. 1032, 9-2-1986, pp. 178-179). Harold Philby è reclutato dai servizi segreti sovietici nel 1934, a Vienna (cfr. H. S. DAVIES, ibidem) e inizia a operare durante la guerra di Spagna, facendosi accreditare come corrispondente di guerra dai nazionalisti. Nell’estate del 1940 ha il primo contatto con i servizi segreti britannici, entra a farne parte e ne diventa ben presto – grazie alle sue doti intellettuali e alla sua abilità – un esponente di primo piano. Egli svolge il suo «doppio gioco» nel MI6 fino al 1963, quando è definitivamente «bruciato» ma, poco prima dell’arresto, riesce a fuggire a Mosca dove vive tuttora come colonnello del KGB. Sugli ultimi anni di Harold Philby in Occidente, cfr. ELEANOR PHILBY, Kim Philby. La spia che ho amato, trad. it., Longanesi, Milano 1968, libro di memorie della sua terza moglie, da lui abbandonata a Beirut al momento della fuga.
(15) Cfr. LÉON DE PONCINS, Espions soviétiques dans le monde, Nouvelles Editions Latines, Parigi 1961, pp. 99-106.
(16) Dopo il suo richiamo a Londra, «Kim Philby rimase in una specie di limbo. Nel novembre 1955, dopo essere stato definito alla Camera dei Comuni il “terzo uomo” dello scandalo Burgess-MacLean, venne pubblicamente scagionato dal ministro degli Esteri Harold Mac-Millan. Philby tenne una conferenza stampa per proclamare la propria innocenza. Venne nuovamente ingaggiato dall’MI6 e, pur essendo sempre sospettato, prestò servizio per lo spionaggio britannico (e sovietico) come agente di basso rango a Beirut […]» (N. BETHELL, op. cit., p. 209).
(17) Ibid., p. 202. Cfr. anche Z. MARGJINAJ, op. cit., p. 144.
(18) Il caso più clamoroso è forse quello dell’americano Alger Hiss, che letteralmente «diede» la bomba atomica ai sovietici: cfr. L. DE PONCINS, op. cit., pp. 44-64.