Pietro Galignani, Cristianità n. 409 (2021)
Nel discorso tenuto alla Harvard University nel giugno del 1978 Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008) affermava: «Ogni antica cultura autonoma, diffusa per di più su una parte abbastanza ampia della superficie della Terra, costituisce già un mondo a parte, pieno di misteri e di incognite per il pensiero occidentale. È il caso, come minimo, della Cina, dell’India e dell’insieme mondo musulmano-Africa, sempre che si possa, sia pure approssimativamente, riunire questi due mondi in uno solo. È stato, nel corso di mille anni, il caso della Russia, benché il pensiero occidentale si sia sistematicamente rifiutato di riconoscere la sua originalità e in tal modo non l’abbia mai capita, come continua a non capirla anche oggi, nel periodo della cattività comunista» (Un mondo in frantumi, discorso di Harvard, trad. it., La Casa di Matriona, Milano 1978, p. 7).
Per tale motivo lo scrittore russo ha voluto far conoscere con la sua attività di scrittore la peculiarità dell’anima russa e della sua tradizione. La sua aspirazione è sempre stata raccontare la Russia con tutte le sue particolarità, i suoi problemi e le sue contraddizioni. Tragiche esperienze personali lo hanno portato a descrivere la vita dei GuLag sovietici e il carattere particolare della Rivoluzione russa sia in patria sia nel suo esilio nel Vermont, negli Stati Uniti d’America, dove ha vissuto, pur restando in famiglia, un’esistenza quasi eremitica. Il filosofo e scrittore russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev (1874-1948) aveva affermato nel saggio Gli spiriti della rivoluzione russa, del 1918, che i grandi scrittori del secolo XIX erano riusciti a descrivere con acuta preveggenza i soggetti umani tipicamente russi che i protagonisti della rivoluzione poi rappresentarono. «I grandi scrittori hanno sempre intuito i tipi della vita nazionale che hanno un significato essenziale ed eterno. La Russia descritta dai suoi grandi scrittori, la Russia di Gogol’ [Nikolaj Vasil’evič, 1809-1852] e di Dostoevskij [Fëdor, 1821-1881], si può ritrovare anche nella Russia sovietica […]. La Russia più autentica vi si rivela in modi differenti, i loro metodi artistici furono opposti, ma in entrambi c’è qualcosa di profetico per la Russia, qualcosa che penetra l’essenza stessa, le pieghe più segrete della natura dell’uomo russo». (Dal profondo, trad. it., Jaca Book, Milano 1971, pp. 58-59).
Solženicyn si muove nella stessa direzione, con la stessa acutezza, con la stessa capacità descrittiva. Nei suoi romanzi traccia le linee essenziali e caratteristiche del potere sovietico e mostra come i suoi personaggi cerchino con tentativi spesso rozzi e imprecisi di liberarsi da questo abbraccio mortale. Continuamente, in vari modi e da diversi punti di vista, mostra il ghigno mostruoso del bolscevismo e l’intrinseca negatività culturale e morale del comunismo russo. L’esperienza personale è sempre la fonte primaria della narrazione. La sua prigionia nel campo di lavoro gli svela la vera natura del regime sovietico che ha reso la Russia un grande GuLag e il cancro che ha minato il vigore del suo corpo, nonché l’incapacità dell’utopia del comunismo di dare senso alla sua vita. Egli si accorge sempre più chiaramente che solo la tradizione popolare permeata dal cristianesimo ortodosso, che ha plasmato l’anima e la fisionomia caratteristica della Russia, è capace di dare un senso alla vita personale e sociale anche nei momenti più duri e difficili. Perciò lascia trasparire nei suoi scritti, dopo il ritorno in patria, la convinzione che solo la tradizione può aiutare in modo positivo la Russia post-comunista a riemergere dal baratro infernale nel quale è precipitata.
Nell’opera Ritorno in Russia. Discorsi e conversazioni (1944-2008) sono stati raccolti diciassette testi di diversa natura, risalenti tutti al periodo trascorso in Russia dopo l’esilio. Gli scritti sono preceduti da una presentazione del figlio Ermolaj, Il ritorno (pp. 7-19) — che descrive il lungo e memorabile viaggio di ritorno in patria e propone un compendio del pensiero paterno —, e sono seguiti dal saggio Aleksandr Solženicyn: narrare il reale vissuto (pp. 183-221) del curatore e traduttore Sergio Rapetti, che ricostruisce, con tratti brevi ma penetranti, il vissuto umano e letterario dell’autore e aiuta a cogliere il valore storico e culturale degli scritti contenuti nel volume, risultando una valida guida e una buona introduzione alla conoscenza dello scrittore e a tutti i documenti presentati.
Il viaggio compiuto in treno da Solženicyn, nel 1994, da Vladivostok sull’Oceano Pacifico, a Mosca, dopo venti anni di esilio prima nell’Europa occidentale e poi negli Stati Uniti, gli ha permesso di riprendere contatto diretto con la sensibilità umana e con il caratteristico senso religioso del popolo russo. Li ritrova con piacere ed orgoglio nella semplicità, schiettezza e vivacità delle comunità della sterminata Siberia, lontane dalle grandi città della Russia occidentale. Negli incontri e nelle conversazioni offre ai suoi concittadini la propria arte letteraria e la convinzione che l’uomo russo ritroverà sé stesso quando si riapproprierà della propria anima plasmata dalla tradizione. In questo viaggio si accorge con gioia che l’anima russa è ancora viva nei luoghi più semplici e si convince sempre più che bisogna ripartire da quella sensibilità per tentare di ricostruire sulle macerie della dittatura.
Leggendo la testimonianza del figlio Ermolaj, il pensiero corre immediatamente a un altro treno che, in un «vagone piombato», nel 1917, portava da Zurigo, in Svizzera, un tristo personaggio, Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924) alla stazione Finlandia di Pietrogrado mentre stava scrivendo le «tesi di aprile» che preparavano la dittatura, lo sradicamento del popolo dalla sua auto-coscienza e dalla sua vita secolare e l’utopia grondante di sangue di una felicità in un mondo comunista. L’antitesi è immagine chiara della situazione sociale e politica della Russia degli anni 1990. Solženicyn sa di tornare «in una Russia lacerata, sconvolta e scoraggiata, irriconoscibile, alla ricerca, tra mille incertezze, di sé stessa e della propria autentica essenza» (p. 25). Egli vuole contribuire con spunti di riflessione alla riedificazione di una compagine nazionale stremata e profondamente debilitata.
Le redazioni degli incontri e delle conversazioni avvenute durante il viaggio ricordato, quindi i discorsi e le interviste negli anni successivi fino al 2008, anno della morte, sono state tradotte e raccolte in un volume agile e vivace che getta nuova luce sulla personalità di questo scrittore che non volle particolari onori per la sua attività letteraria e non volle intraprendere una carriera politica fondata sulla fama che il premio Nobel gli aveva conferito. «Ho già detto che non accetterò alcun posto governativo che dovessero propormi, né elettivo né designato dall’alto. Resto nel mio ruolo di scrittore» (p. 50). Non è questo il luogo per analizzare e discutere i giudizi politici che Solženicyn esprime in questi scritti. Merita però riportare e sottolineare il giudizio sui tre ultimi segretari del Partito Comunista dell’URSS. Secondo il nostro autore Michail Sergeevič Gorbačëv sbalordisce per la sua ingenuità politica e per la sua irresponsabilità nei confronti del paese. «La presidenza [di Borís Nikoláevič] Él’cin [1931-2007] si è caratterizzata per la irresponsabilità nei confronti della vita del popolo in misura non minore di quella che l’ha preceduta» (p. 167).
Proprio alla vita del popolo semplice rappresentato in modo suggestivo da personaggi come Matrëna e Ivan Denisovič è sempre andato l’interesse di Solženicyn. A suo parere il compito essenziale della politica all’inizio del nuovo millennio è proteggere il popolo. Già Michail Vasil’evič Lomonosov (1711-1765) aveva ricordato alla zarina Elisabetta di Russia (1709-1762), quasi tre secoli or sono, che la salvaguardia e la protezione del popolo è il dovere essenziale del sovrano. Questo scrittore è sempre più convinto che tale compito «[…] incombe e si impone a noi in maniera cogente» (p. 139). Vladimir Vladimirovič Putin riceve un giudizio lusinghiero perché si è mosso in questa direzione. «Putin ha ricevuto in eredità una nazione depredata e a terra e un popolo in maggioranza demoralizzato ed impoverito. E si è accinto per quanto è possibile — e si noti: gradualmente, lentamente — a risanare la situazione. Questi sforzi non sono stati subito notati e, tanto meno, apprezzati» (p. 167). Questa cura per il popolo, questa attenzione per la sua guarigione è dovuta al fatto che in esso, nonostante la distruzione sovietica, l’anima è ancora sostanzialmente sana. «L’impressione che ho riportato dalla Siberia e dalla provincia russa in generale è che si siano mantenute moralmente sane. Nonostante che per interi decenni di seguito abbiano tentato di spezzare e distruggere il potenziale spirituale del nostro popolo, esso si è preservato» (p. 48).
Tale potenziale spirituale è stato coltivato ed educato dal cristianesimo e non è venuto meno nemmeno nei momenti più torbidi e bui. «Nel corso di tutta la nostra storia la Chiesa ortodossa ha avuto un’importanza enorme — morale e religiosa. È l’Ortodossia ad avere plasmato per molti aspetti tradizioni, usi e costumi e il carattere stesso dell’uomo russo. […] la cosa più naturale per il popolo russo sarebbe recuperare proprio nell’Ortodossia le perdute energie spirituali» (p. 38). Proprio alla tradizione ricorre per riproporre il principio della sussidiarietà verticale secondo una formulazione tipicamente russa che risulta praticamente sconosciuta in Occidente. «La via che propongo è dunque questa: lasciare che la popolazione eserciti il proprio potere a livello locale. Ciò che mi è rimasto impresso più di ogni altra cosa del mio viaggio è l’aver incontrato dappertutto così tante persone intraprendenti, energiche, operose. … La dimostrazione che le potenzialità del nostro popolo, malgrado le distruzioni sofferte, non sono state definitivamente sradicate.
«[…]Zemstvo è un vecchio termine russo, che esiste da parecchi secoli. Designa l’insieme di tutte le persone che vivono su un determinato territorio. Ed è anche la forma di organizzazione sociale che questa popolazione si è autonomamente data.
«Nel XVII secolo, durante il periodo detto “dei Torbidi”, fu lo zemstvo a salvare la Russia» (pp. 58-59).