Francesco Pappalardo, Cristianità n. 371 (2014)
Per sconfiggere le mafie sono sufficienti una seria prevenzione e un’efficace repressione? Oppure il crescente consenso sociale verso le organizzazioni mafiose nelle zone in cui sono tradizionalmente presenti richiede ulteriori iniziative? Se lo chiedono, fornendo risposte, due magistrati, Alfredo Mantovano e Domenico Airoma, nell’operaI(r)rispettabili. Il consenso sociale alle mafie.
Mantovano, socio fondatore di Alleanza Cattolica, in magistratura dal 1984, è stato parlamentare dal 1996 al 2001 e dal 2006 al 2013. Ha svolto le funzioni di sottosegretario dell’Interno dal 2001 al 2006 e dal 2008 al 2011 con delega alla pubblica sicurezza, al racket e alla presidenza della Commissione sui programmi di protezione. Nel 2013 è rientrato in magistratura, alla Corte d’Appello di Roma. Come esponente del governo ha curato e seguito le norme del cosiddetto «pacchetto sicurezza», con particolare riferimento a quelle antimafia. È autore di numerose opere, da solo o con altri, fra cui, in ultimo, La guerra dei «dico» (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2007; cfr. recensione redazionale, Cristianità, anno XXXV, n. 341-342, maggio-agosto 2007, pp. 49-50, alla quale si rinvia per una più ampia bibliografia dell’autore).
Airoma, socio benemerito di Alleanza Cattolica, in magistratura dal 1989, ha ricoperto, fra gli altri, gli incarichi di sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli e di giudice per le indagini preliminari nel tribunale della stessa città. Dal 2008 è procuratore della Repubblica aggiunto al tribunale di Cosenza. Dal 2004, su incarico del ministero della Giustizia, del Consiglio Superiore della Magistratura e della Commissione Europea ha svolto missioni negli Stati dei Balcani Occidentali, in Russia e in Asia Centrale, nel contesto dei progetti di riforma dei sistemi giudiziari di quei Paesi. Autore di articoli e di saggi su periodici giuridici, è collaboratore diCristianità.
Il tema del controllo sociale delle mafie viene affrontato distinguendo tre aspetti: l’Anamnesi (pp. 9-63), cioè la descrizione del fenomeno; laDiagnosi (pp. 67-98), ovverossia lo sforzo di comprenderne le ragioni; e, infine, la Terapia (pp. 101-138), cioè le buone pratiche da diffondere affinché le istituzioni recuperino credibilità.
Nel primo capitolo, curato da Mantovano, s’identificano con esempi concreti le principali manifestazioni del consenso, muovendo dalla considerazione che buona parte dei mafiosi più pericolosi — com’è documentato nell’Appendice (pp. 139-148) — vive lo stato di latitanza nel luogo di origine, grazie soprattutto a una diffusa omertà. Fra i casi più clamorosi, in Sicilia quelli di Salvatore Totò Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo; in Calabria, di Sebastiano Pelle e Giovanni Tegano; in Campania, di Antonio Iovine e Pasquale Russo.
L’omertà viene alimentata non tanto dal timore di ritorsioni, comunque ben presente, quanto piuttosto dal ruolo sostitutivo o complementare svolto dalle organizzazioni criminali nei confronti delle istituzioni e dello Stato: quello delle mafie «è un sistema che gestisce leggi, pur se non scritte, impone tasse (il pizzo), garantisce una cornice di apparente tranquillità» (p. 17) e mostra perfino un profilo solidaristico. Infatti, nel rapporto fra l’associazione criminale e la popolazione, alle due fasi classiche — prima la richiesta del «pizzo», accompagnata da modalità impositive violente, poi la diminuzione degli introiti estorsivi, compensati con l’usura e con l’ingresso in aziende in difficoltà — se ne va affiancando una terza, «quella del contributo a fondo perduto, di entità limitata ma elargito a quantità crescenti di persone, e delle assunzioni di nuovi dipendenti nelle aziende controllate» (p. 20).
La tutela della latitanza non è l’unica ricaduta positiva, per i criminali, del consenso riscosso nel «proprio» territorio: a essa si aggiungono il pubblico onore reso a esponenti mafiosi in occasione di funerali e manifestazioni di devozione popolare, come le processioni, oppure utilizzando strumenti promozionali quali canzoni o fiction in cui l’apologia è esplicita o comunque si assiste a un’inversione dei ruoli fra le forze dell’ordine e i camorristi. Il mafioso, da parte sua, contribuisce ad accrescere la propria rispettabilità sociale con ogni mezzo, dalla ostentata presenza nelle feste patronali alla gestione di società sportive e alla ricerca di onori grazie all’incauta collaborazione dimedia e di uomini politici locali. Di fronte a ciò, conclude l’autore, occorre convincersi, che «[…] non si possono delegare le cure solo al chirurgo, cioè a chi — i magistrati e i poliziotti —, intervengono in modo fisiologicamente traumatico: il loro ruolo è essenziale, come lo è quello del chirurgo, ma non può essere esaustivo e necessita della terapia. E la terapia compete a tutti» (p. 52).
Ma prima della terapia occorre la diagnosi, effettuata nel secondo capitolo da Airoma, che parte dalla considerazione del magistrato Giovanni Falcone (1939-1992) secondo cui la mafia — nonostante quanto sostengono diffuse analisi sociologiche — è un fenomeno umano e come tale ha avuto un inizio e avrà una fine: non è, dunque, «unapiovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci assomiglia» (p. 72). Non è neanche una tara dei meridionali, legata a loro presunte caratteristiche peculiari, come l’arcaicità dell’organizzazione sociale, l’attaccamento alla famiglia o la religiosità, la cui eliminazione — grazie al trionfo della modernità — porterebbe con sé automaticamente la scomparsa della mafia stessa. È vero piuttosto il contrario: senza escludere il peso della specificità ambientale, la mafia ha tratto profitto dall’avvento della società tecnologica, dal tramonto della famiglia tradizionale e dall’indebolimento delle autorità sociali. Non solo: «[…] ha sfruttato e continua a sfruttare proprio lo schema familistico per rispondere alla naturale domanda di protezione e di identità di uomini ridotti alla nudità sociale: di uomini, cioè, privati di quei naturali abiti sociali che famiglie più grandi — le comunità territoriali e di lavoro, le parrocchie, le istituzioni sociali e politiche — assicuravano loro» (p. 82).
Anche la Chiesa, nell’Italia Meridionale e in Sicilia, colpita dalle confische e dalle persecuzioni che hanno accompagnato l’unificazione politica negli anni 1860, e dunque impossibilitata a proseguire la tradizionale opera di assistenza, ha reagito prendendo di fatto le distanze da uno Stato invadente e aggressivo, al quale ha lasciato la gestione delle questioni sociali più complesse. In questo tragitto ha incontrato talvolta uomini di mafia, offertisi come mediatori nei confronti di un organismo statale avvertito come nemico e lontano dalla popolazione, e ha riconosciuto, erroneamente, la loro autorevolezza. «Peraltro gli esponenti del nuovo regime, a loro volta, da Marsala in poi, non hanno disdegnato di stringere accordi coi rappresentanti delle cosche per meglio stabilizzarsi» (p. 87) in Sicilia.
Privi del supporto naturale della famiglia, abbandonati dalle istituzioni politiche e sociali e talvolta delusi pure dagli uomini di Chiesa, molti si sono lasciati attirare da un organismo sostitutivo, la mafia, che si presenta anche come fattore di organizzazione del corpo sociale, vera e propria comunità di protezione, e riempie i vuoti lasciati dalle comunità naturali e dalle istituzioni. Da parte dei non mafiosi «il consenso alla mafia, pur in apparenza senza logica, viene allora avvertito come paradossalmente necessitato, come il collante ritenuto obbligatorio per tenere insieme persone e famiglie, altrimenti smarrite in una deriva disperante» (p. 93).
I mafiosi, peraltro, si pongono in sintonia con i valori dominanti del sentire popolare, ne mutuano il linguaggio e attingono alle medesime simbologie, cosicché il rapporto con loro, nella percezione comune, va perdendo ogni carattere di riprovevolezza e viene considerato una relazione come le altre. È lecito chiedersi, a questo punto, quanto ha inciso sul consenso alle mafie un relativismo che ha ridotto o annullato la differenza fra il bene e il male. «In altri termini, la questione mafiosa sembra porsi come parte della più ampia questione antropologica» (p. 97) e la sua soluzione passa non solo attraverso un recupero della legalità, cioè il rispetto di norme e di codici, ma anche per la formazione di persone «capaci di restaurare il volto, che la mafia ha sfigurato, dell’amicizia, della famiglia, dell’onore, della religiosità. “Sub tutela Domini”, come amava scrivere Rosario Livatino[1952-1990]» (p. 98), il magistrato ucciso dalla mafia, di cui nel 2011 è stato avviato il processo diocesano di beatificazione.
Per questi motivi nel terzo capitolo, pure redatto da Mantovano, si sottolinea la radicalità della condanna che il beato Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) pronunciò il 9 maggio 1993, nella Valle dei Templi ad Agrigento, contro la mafia, individuata come una vera struttura di peccato. Dalle parole del Papa emerge in modo chiaro che essa «è un organismo che sorge e opera allo scopo di ledere i diritti di chi non vi si assoggetta, a cominciare da quello fondamentale all’esistenza in vita. È un porsi contro Dio in modo non occasionale, bensì pianificato e strutturato» (p. 128). Anche Papa Francesco ha usato concetti simili in occasione della beatificazione di don Giuseppe «Pino» Puglisi (1937-1993), il «sacerdote e martire, ucciso dalla mafia» (p. 129).
Vi sono non pochi elementi di somiglianza fra la mafia e quei regimi totalitari che Papa Giovanni Paolo II ha contribuito a far cadere: la pretesa di regolare nei dettagli la vita di quanti sono loro sottoposti; le dure sanzioni comminate ai recalcitranti e ai disobbedienti; la ricerca del consenso sociale, anche mediante l’appropriazione di simboli del consenso stesso. È un errore, inoltre, svilire le forme di devozione popolare solo perché strumentalizzate dalle mafie, oppure attaccare la famiglia tradizionale perché a essa s’ispira l’organizzazione mafiosa:«[…] l’opera di bonifica sociale passa dalla riconquista dei luoghi e dei simboli della religione e dal recupero del senso vero della famiglia» (p. 130).
Questa operazione culturale va affiancata da interventi di tipo tecnico, oltre la pur necessaria repressione giudiziaria, che restituiscano allo Stato il controllo del territorio e ai cittadini la fiducia nello Stato stesso. Il mafioso non teme tanto l’arresto e il carcere, considerati come possibili incidenti di percorso, quanto piuttosto il sequestro e la confisca dei propri beni, nonché l’affronto di vedere i segni del proprio predominio — case, terreni, aziende — posti al servizio delle istituzioni e, attraverso esse, della comunità, con una conseguente perdita di prestigio. «Vuol dire metterlo in ginocchio, e non solo simbolicamente»(p. 103). Ben venga, quindi, un sistema di sequestro, di confisca e di destinazione dei beni accumulati dai mafiosi, purché sia pienamente funzionale e depotenzi la capacità di attrazione della mafia. Ugualmente è necessario che siano del tutto operativi i meccanismi di ristoro dei danneggiamenti subiti dalle vittime del racket e che i destinatari di richieste estorsive siano adeguatamente supportati dalle associazioni antiracket nella denuncia e nella volontà di resistere alle prevaricazioni. Infine, l’«educazione alla legalità» deve concretizzarsi in progetti che sappiano trasmettere princìpi solidi e positivi, fondati su esempi concreti e non su astratte teorie o solo su richiami allo stretto diritto positivo, affinché gl’interessati siano indotti a recitare la propria parte in prima persona. «[…] nella lotta alle mafie ci sono pochi giocatori e molti spettatori, e di questi troppi fanno il tifo per la squadra sbagliata» (p. 138). Ma «[…] quando dalle tribune qualcuno prova a scendere in campo e a giocare dalla parte giusta, i risultati non si fanno attendere» (ibidem).
Vi è una linea di confine che non sempre viene tirata in modo chiaro e netto fra l’attività delle organizzazioni mafiose e la vita delle persone normali, molte delle quali, pur non essendo né complici né colluse, non sempre mantengono le dovute distanze. Questo libro insegna a riconoscerla.
Francesco Pappalardo