Il 19 luglio 1992, a Palermo, veniva ucciso, insieme alla scorta, il magistrato Paolo Borsellino. La strage, che seguiva di poche settimane quella nella quale aveva perso la vita un altro magistrato, Giovanni Falcone, sembrava sanzionare la definitiva soccombenza dello Stato sul fronte della lotta alla mafia e, più in generale, del contrasto alla criminalità organizzata e comune; di uno Stato che — soprattutto dopo l’entrata in vigore, a partire dal 1989, del nuovo codice di procedura penale, che si aggiungeva a una legislazione lassista e ipergarantista — si era mostrato sempre più tragicamente incapace, sul piano delle leggi e dell’operatività concreta, di fronteggiare l’aggressione della delinquenza di ogni tipo.
I giorni e i mesi successivi a quei terribili eventi hanno però offerto all’attenzione generale segnali contrastanti, comunque non univocamente orientati a rendere più fosco il quadro: la cattura di pericolosi latitanti, l’apertura di interessanti piste d’indagine, soprattutto a seguito delle informazioni fornite dai cosiddetti “pentiti”, che portavano alla luce gli scenari delle complicità, di cui godeva la delinquenza organizzata nelle istituzioni, e gli esiti, anche clamorosi, delle indagini su Tangentopoli, sembravano contraddire la conclusione della definitiva resa di fronte al crimine.
Proprio dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio prende inizio la riflessione di Alfredo Mantovano, giudice alla 1a sezione penale del Tribunale di Lecce, responsabile per la Puglia di Alleanza Cattolica, nell’opera Giustizia a una svolta. Verso il ricupero o verso il tramonto della legalità?, per operare una ricognizione sullo stato della giustizia in Italia.
Lo studio porta una Prefazione di Mario Cicala, consigliere di Cassazione, già presidente dell’ANM, l’Associazione Nazionale Magistrati (pp. 5-9). In essa viene sottolineata l’importanza degli scritti di Alfredo Mantovano, perché al “crollo di un sistema intrinsecamente erroneo” (p. 7) segua un’autentica “cultura della giustizia” (ibidem), cioè nella formazione di una cultura giuridica cattolica, di “una cultura che pone a proprio fondamento valori oggettivi di giustizia e di verità” (p. 6) da contrapporre a quanti, giudici e avvocati, ergendosi a “sacerdoti di un dio laico” (p. 8) e pretendendo di “attingere giustizia da un diritto positivo disancorato totalmente dal diritto naturale ed ancor più dal diritto divino” (p. 9), giungono a elaborare “le tesi più assurde, più lontane dalla logica comune” (ibidem).
Proseguendo il discorso iniziato nel 1992 con l’opera La giustizia negata. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale (Cristianità, Piacenza 1992; cfr. recensione di Giuliano Mignini, in Cristianità, anno, XX, n. 205-206, maggio-giugno 1992), nel primo capitolo — Dopo Capaci e via D’Amelio: Giustizia a una svolta (pp. 11-33) — Alfredo Mantovano espone anzitutto i dati qualitativi e quantitativi — aggiornati alla fine del 1993 — della sfida criminale, dati che ricava, oltre che dalla personale osservazione, dalle statistiche ISTAT, dalle rielaborazioni Eurispes e dalle relazioni dei Procuratori Generali in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Quindi, nel secondo capitolo — Segnali positivi: la revisione del codice di procedura penale (pp. 35-74) —, nell’esame degli aspetti positivi che gli ultimi due anni di vita giudiziaria rivelano, l’autore prende in considerazione le modifiche che in questo periodo hanno riguardato il piano legislativo, con particolare riferimento alla riforma che ha interessato il codice di procedura penale, anche a seguito degli interventi della Corte Costituzionale: pur se la gran parte dei processualpenalisti continua a essere legata a una visione del processo disancorata dalla realtà, frutto di un’ideologia relativistica ostile allo sforzo di accertare la verità del fatto, dapprima i giudici di Palazzo della Consulta e poi il legislatore sono stati in qualche modo costretti a sensibili interventi sul regime del nuovo processo, di fronte alla pratica impossibilità di perseguire gli illeciti di ogni tipo, e soprattutto quelli della criminalità organizzata, con il regime processuale introdotto nel 1989.
L’interesse delle pagine dedicate all’argomento deriva dalle riflessioni che vengono svolte sul collegamento fra una precisa scelta ideologica — quella secondo cui la verità non esiste, ed è perciò pericoloso pretendere di scoprirla — e le norme del processo penale in vigore dal 1989, che di tale ideologia hanno costituito concreta attuazione. Gli oltre due anni di sostanziale impunità, conseguenti alla operatività delle nuove regole, hanno dimostrato quanto la realtà si ribelli alla pretesa di sovrapporle schemi utopistici, comunque a essa estranei.
Però, la ricognizione dell’ora presente non manifesta soltanto l’esistenza di misure efficaci nella direzione della lotta al crimine, bensì pure di altre, che sono di segno opposto e che, quanto meno, apportano confusione: nel terzo e nel quarto capitolo — Segnali negativi: la “malalegislazione” (pp. 75-120) e Segnali negativi: le proposte da non accogliere (pp. 121-155) —, sotto la voce di “segnali negativi” sono passate in rassegna l’introduzione di ulteriori misure premiali per i condannati a pena definitiva, le modifiche, anche referendarie, alla legislazione sugli stupefacenti, l’approvazione della legge contro i cosiddetti naziskin e una serie di proposte delle quali si discute, in vista della loro eventuale traduzione in norme, a cominciare da quelle sul mutamento dello status del pubblico ministero e sulla “soluzione” politica a Tangentopoli.
Il dibattito sui possibili rimedi giudiziari all’inarrestabile moltiplicarsi delle indagini in materia di “tangenti” offre all’autore lo spunto per svolgere una riflessione sull’intero sistema, sulla sua legittimazione, sui criteri attuali di formazione del consenso politico: “La lezione offerta dall’ora presente è che una democrazia secolarizzata, in cui tutto quanto intacca anche marginalmente i dogmi relativistici viene considerato un pericolo, e in cui nessuna forza politica fa riferimento serio e programmatico a valori oggettivi, ha come esito obbligato che le modalità di manifestazione del consenso passino, in via quasi esclusiva, attraverso l’uso largo del denaro; dal che deriva la fame insaziabile dimostrata dai partiti e la ricerca di fondi a tutti i costi e senza scrupoli” (pp. 134-135).
Ulteriore dato negativo, illustrato nel quinto capitolo — Segnali negativi: l’applicazione delle leggi (pp. 157-169) — è costituito dall’esecuzione delle leggi, resa difficile dal ritmo alluvionale con il quale vengono promulgate e dal tenore spesso oscuro delle norme, mal coordinate con il pre-esistente ordito sistematico e, talora, addirittura superflue rispetto allo stesso.
Al lassismo nella fase dell’esecuzione delle leggi sovente si accompagna lo scarso impegno dei pubblici poteri nell’incrementare la funzionalità dei servizi giudiziari, nonostante la straordinaria difficoltà della congiuntura e, più in generale, il cattivo funzionamento degli uffici pubblici, per ragioni anche strutturali.
Completa il quadro la constatazione delle polemiche, ormai quotidiane, che, negli ultimi anni, vengono infiammando i rapporti fra le più alte cariche istituzionali dello Stato, e che confermano la sensazione, sottesa all’intera trattazione, di uno scenario che va cambiando rapidamente, pur fra le sofferenze di chi non è disposto ad abbandonare le vecchie “quinte”.
Nello sforzo di non annegare nel cronachistico e — invece — di leggere gli eventi in collegamento con i princìpi, che dovrebbero orientare tutti i settori della vita pubblica, l’ultimo capitolo dell’opera — Il tempo del coraggio (pp. 171-185) — segnala episodi di coraggio di singoli e di comunità, che convivono con il degrado della moralità. Le pagine dedicate alla figura di Paolo Borsellino e sulla lotta alla criminalità a San Vito dei Normanni, nel Brindisino, ricordano a tutti che non è corretto attendere che altri facciano il primo passo: i risultati positivi vengono conseguiti quando concorrono l’esempio illuminante, fino al sacrificio personale, di quanti svolgono funzioni pubbliche autorevoli, il sostegno delle comunità e l’intervento delle istituzioni. Se, come ha affermato Papa Giovanni Paolo II — ricevendo il presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro — in un discorso richiamato nel testo, “l’Italia possiede energie umane e risorse materiali largamente sufficienti per superare le difficoltà dell’attuale momento”, l’opera di Alfredo Mantovano — chiusa da una Nota bio-bibliografica (p. 187) — costituisce un contributo alla valutazione dei fatti che hanno interessato, sul terreno giudiziario, ma non solo su quello, gli ultimi due anni di vita nazionale, senza che ai fatti si sovrappongano le speranze, ma anche senza nascondere gli elementi positivi manifestati dalla realtà.
Ne La giustizia negata. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale l’autore concludeva osservando che l’omissione delle “indispensabili radicali modifiche alle norme, anche di procedura, più permissive” (p. 139) e la persistente dilapidazione del denaro pubblico “nei mille rivoli dell’assistenzialismo e nel finanziamento della corruzione” (ibidem) sarebbero stati “segni ulteriori sempre più evidenti della volontà di sostenere la malavita e l’illegalità” (ibidem).
In Giustizia a una svolta. Verso il ricupero o verso il tramonto della legalità? vengono registrati alcuni segnali di ripresa, nella consapevolezza che “la svolta sarà effettiva solamente quando […] la legalità sarà stabilmente fondata — a tutti i livelli — sulla morale oggettiva, nella prospettiva del bene comune” (p. 185).
Domenico Airoma