Domenico Airoma, Cristianità n. 299 (2000)
Alfredo Mantovano, nato a Lecce 42 anni fa, magistrato, è deputato dal 1996 e componente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Dal dicembre del 1997 al marzo del 1998 è stato coordinatore di Alleanza Nazionale — cui è iscritto dal febbraio del 1997 — per le Politiche dello Stato e della Famiglia; nel marzo del 1998 è entrato a far parte dell’esecutivo nazionale della stessa formazione politica con l’incarico di responsabile per i Problemi dello Stato.
Giornalista pubblicista, collabora con i quotidiani Secolo d’Italia e Quotidiano di Lecce e con la rivista Cristianità; per l’editrice omonima ha pubblicato La giustizia negata. L’esplosione della criminalità fra crisi dei valori ed emergenza istituzionale (Piacenza 1992) e Giustizia a una svolta. Verso il tramonto o verso il ricupero della legalità? (Piacenza 1993).
Nella veste di componente della Commissione Antimafia, e in particolare di coordinatore del 1° Comitato di Lavoro sul Riciclaggio, il Racket e l’Usura, si è occupato dei problemi relativi ai “testimoni di giustizia”, procedendo all’audizione di alcuni di questi soggetti, che hanno vissuto l’esperienza della protezione, acquisendo documenti e assumendo informazioni dai responsabili istituzionali del Servizio Centrale di Protezione, l’organo appositamente istituito nell’ambito del Dipartimento della Pubblica Sicurezza con il compito di realizzare i programmi di protezione deliberati in favore dei testimoni stessi.
Testimoni a perdere prende spunto dalla relazione sul tema dei testimoni di giustizia, svolta dall’autore e approvata all’unanimità dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Fenomeno della Mafia e delle Altre Associazioni Criminali Similari — la cosiddetta Commissione Antimafia — nella seduta del 30 giugno 1998.
L’opera, oltre a fornire un ampio resoconto degli elementi informativi raccolti dal 1° Comitato della Commissione Antimafia, descrive chi sono i testimoni di giustizia, come dovrebbero e come sono trattati dagli organi istituzionali, quali i possibili interventi riformatori. Non si tratta di un’esposizione casistica né di una semplice raccolta di documenti, che pure si trovano nell’Appendice (pp. 91-110); l’autore si propone “un obiettivo più ambizioso” (p. 19): quello, nel dar voce ai protagonisti di “storie tanto esemplari quanto estreme” (p. 8) — così le qualifica nell’Introduzione (pp. 7-11) Tano Grasso, dall’agosto del 1999 commissario straordinario del Governo per il Coordinamento della lotta al Racket ed all’Usura —, “[…] di sollevare il problema e di immaginare […] un’ipotesi di ragionevole soluzione” (p. 19); in ciò lasciando trasparire le cause culturali e sociali di un rapporto, così difficile e talora vessatorio, delle istituzioni verso i testimoni protetti.
Chi sono i testimoni di giustizia? Secondo la relazione alla Commissione Antimafia, presentata dall’autore nel giugno del 1998, “si tratta di persone non provenienti da ambienti malavitosi, del tutto incensurati, perfettamente inseriti nella normale vita economica e sociale, spesso con avviate attività imprenditoriali; costoro sono diventati “testimoni di giustizia” per aver assistito a gravi eventi criminosi e per aver reso testimonianza, sempre decisiva, che ha consentito l’individuazione dei colpevoli e la loro condanna penale, oppure per essere parti offese di reati — di norma operatori economici vittime del racket e dell’estorsione o di attività usuraie — che hanno deciso di opporsi e di collaborare con l’autorità giudiziaria, fornendo un rilevantissimo apporto alla disarticolazione di gravi forme di attività criminali”.
La definizione non può dirsi completa. Rimangono da chiarire le ragioni per le quali i testimoni di giustizia si differenziano dai testimoni in genere e i motivi che giustificano la previsione, per tale categoria di soggetti processuali, di una disciplina speciale.
Infatti, l’obbligo di non tacere e di riferire il vero grava su chiunque abbia assistito o sia venuto a conoscenza di fatti penalmente rilevanti; la veste di testimoni di giustizia viene assunta allorché, a seguito delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria in ordine a reati di particolare allarme sociale ovvero espressione di criminalità organizzata, il teste venga a trovarsi in una condizione d’imminente pericolo.
L’articolo 9 del decreto legge 15-1-1991, n. 8, convertito, con modificazioni, nella legge 15-3-1991, n. 82, prevede che “nei confronti delle persone esposte a grave ed attuale pericolo per effetto della loro collaborazione o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e del giudizio […] possono essere adottate misure di protezione idonee ad assicurarne l’incolumità, provvedendo, ove necessario, all’assistenza”.
La norma richiamata, nel far riferimento alle “persone esposte a pericolo”, non opera distinzioni a seconda della veste processuale del dichiarante; sia esso, cioè, testimone o imputato, la disciplina è la stessa. Non è un’anomalia di poco conto.
Anzitutto, radicalmente differenti sono le cause della situazione di pericolo.
Infatti, l’esposizione a rischio per la propria incolumità personale deriva per il testimone da una deficienza non contingente delle istituzioni statali, incapaci di assicurare, soprattutto in aree geografiche sottoposte all’egemonia della criminalità organizzata, protezione a quanti sono chiamati a riferire le informazioni in loro possesso, necessarie per l’accertamento giudiziario di fatti-reato.
Viceversa, il “collaboratore di giustizia” — il cosiddetto “pentito” — deve la propria condizione d’insicurezza certamente alla scelta di abbandonare la consorteria criminale di appartenenza, consentendo, attraverso le proprie dichiarazioni, di penetrare in circuiti delinquenziali caratterizzati da un grado sempre maggiore d’impermeabilità rispetto ai tradizionali metodi investigativi; ma, soprattutto, è in pericolo per il suo stesso passato criminale e per il fatto di aver infranto il patto di fedeltà associativa.
Non può essere indifferente per il legislatore distinguere fra la condizione di assoluta incolpevolezza tipica del testimone, imbattutosi nella vicenda processuale quale vittima o addirittura per semplice casualità, e quella del collaboratore di giustizia, che è, invece, fra i protagonisti di quei fatti criminosi. L’eterogeneità delle posizioni, non solo processuale ma morale, avrebbe dovuto imporre al legislatore di disciplinare diversamente il trattamento tutorio e assistenziale per tali soggetti, essendo lo stesso, quanto al pentito, sorretto da una logica premiale e, perciò, condizionato dal permanere della disponibilità alla collaborazione, dall’accertata attendibilità delle dichiarazioni e dall’assenza di legami con ambienti criminali; e trovando, di contro, giustificazione, per il testimone, nella necessità di risarcire lo stesso per il danno — personale e patrimoniale — subìto a causa dell’inadeguatezza degli ordinari strumenti istituzionali di tutela.
Tale uniformità di disciplina poteva solo produrre norme irrazionali nonché comportamenti attuativi altrettanto ingiusti. Fra le prime, merita di essere segnalata la norma — contenuta nell’articolo 12 della legge n. 82 del 1991 — che prevede che gli ammessi al programma di protezione “[…] si impegnano personalmente a […] adempiere agli obblighi previsti dalla legge” e a “non rilasciare a soggetti diversi dall’autorità giudiziaria o dalle forze di polizia dichiarazioni concernenti fatti comunque di interesse per i procedimenti in relazione ai quali hanno prestato o prestano la loro collaborazione”. Si tratta di una disposizione davvero mortificante per chi ha accettato di esporsi al rischio di gravi ritorsioni pur di adempiere al dovere civico di testimoniare, con ciò prestando ossequio non solo a un dettato normativo positivo, codificato cioè da una legge dello Stato, ma a un principio di giustizia.
Quanto all’attività amministrativa di attuazione, rileva il fatto che le misure assistenziali non considerano il tenore di vita in concreto tenuto in precedenza dalla persona sottoposta a protezione; il che, se ha senso in presenza di soggetti, quali i pentiti, solitamente provenienti da sodalizi alimentati da risorse finanziarie illecite, diventa immotivatamente vessatorio nei confronti dei testimoni, soprattutto quando essi sono titolari di attività commerciali o imprenditoriali, costretti a dismettere a seguito della collaborazione.
Ciò che arreca maggiori sofferenze ai testimoni di giustizia è, tuttavia, la prassi applicativa degli organi chiamati a dare attuazione alle misure tutorie, che risentono della confusione normativa descritta e finiscono con il trattare i testimoni al pari dei pentiti, esponendo i primi a quella stessa ostilità, non dichiarata ma ugualmente palpabile, che accoglie i secondi nelle località protette dove vengono trasferiti, una volta sottoscritto il programma di protezione.
Di questa nuova categoria di déraciné, espressione non secondaria della crisi della sovranità statale e dello Stato di diritto, Mantovano offre uno spaccato illuminante, soffermandosi sulle innumerevoli mortificazioni che hanno segnato le vicende di alcuni testimoni di giustizia e che vanno ad aggiungersi al disagio creato dal traumatico abbandono del proprio ambiente, sociale e familiare, del proprio lavoro e delle proprie generalità. Gli effetti sono devastanti: sotto il profilo esistenziale, la recisione dei legami con la propria storia personale conduce sovente a lacerazioni intra-familiari e alla coltivazione di propositi suicidari; per i figli minori, gravi sono le ricadute psicologiche, a causa dell’assenza di stabili contesti di riferimento. Questi elementi emergono soprattutto nella vicenda emblematica di Mario Nero, narrata nei primi due capitoli, Il guinzaglio di Charlie (pp. 13-30) e Figli di nessuno (pp. 31-51), e in quelle di tre altri testimoni di giustizia, prese a campione da aree geografiche differenti e da contesti criminali fra loro diversi, raccontate nel terzo capitolo, Da Eurodisney a Strongoli (pp. 53-73).
Si tratta di un sacrificio elevato, per il quale ci si attenderebbe, da parte dei responsabili, politici e amministrativi, delle istituzioni interessate alla sorte dei testimoni, quanto meno un atteggiamento di riconoscenza. Nulla di più illusorio. L’on. Giannicola Sinisi, sottosegretario di Stato per l’Interno del Governo Prodi, nell’audizione resa al 1° Comitato della Commissione Antimafia, si è, sul punto, così espresso: “Mi rendo conto che il disagio sociale, la disperazione individuale possano essere causati dal disservizio nell’attuazione del programma di protezione, però un pizzico di sano scetticismo a mio avviso ci deve orientare nell’esercizio prudente di organi che per dovere costituzionale devono mantenere la loro imparzialità” (p. 49).
Non è senza fondamento, dunque, ritenere che l’aver accomunato testimoni e pentiti sia stato non l’effetto casuale di una delle tante contraddizioni legislative, bensì il risultato consapevole di una considerazione della questione improntata a “scetticismo”, cioè a “un atteggiamento negativo e di sfiducia nei confronti di ogni principio, valore e verità” (p. 49); impostazione culturale che conduce a concepire il testimone in termini esclusivamente strumentali rispetto al processo, come fonte d’informazioni da gettare dopo l’uso: “testimoni a perdere”, appunto.
Non è un caso, ancora, che il numero dei testimoni di giustizia sia di gran lunga inferiore a quello dei pentiti, e registri un progressivo calo: dai 67 nel 1995 ai 59 nel 1996. Eppure molteplici sarebbero i vantaggi di un deciso investimento nei testimoni di giustizia, sia per l’elevato valore probatorio posseduto dalla testimonianza, di per sé sola sufficiente, a differenza delle dichiarazioni dei pentiti, a dimostrare la responsabilità per un fatto-reato, sia, soprattutto, per l’insostituibile valore simbolico che essa possiede, insito nella scelta d’infrangere la condizione di omertà propria della comunità di provenienza, sottoposta all’egemonia della criminalità organizzata.
Per tali motivi l’autore, nell’indicare — nel quarto e ultimo capitolo, Investire in testimoni (pp. 75-87) — alcune proposte normative in grado di porre riparo all’ingiustizia di una disciplina del tutto irrispettosa della specificità della posizione, sociale e giuridica, del testimone di giustizia, si dice nello stesso tempo “[…] convinto che il problema “testimoni di giustizia” non si risolve per legge” (p. 83). Infatti la soluzione presuppone che il cittadino ricuperi la fiducia verso le istituzioni e consideri la testimonianza non eroico esercizio di virtù, ma normale adempimento di un dovere civico. E le istituzioni diventano affidabili se vengono costruite attorno a princìpi di verità e di giustizia, oggi smarriti, ma mai irrimediabilmente perduti.
Domenico Airoma