Salvatore Calasso, Cristianità n. 391 (2018)
Alle origini del Sessantotto. La Beat Generation
1. Il beat come anteprima del Sessantotto
1.1 La nuova fase rivoluzionaria
Cinquant’anni fa esplose nel mondo e in Italia la rivoluzione culturale del Sessantotto — cosiddetto dall’anno-simbolo di un’intera stagione, il 1968—, a conclusione di un decennio di grandi cambiamenti nei costumi e nella mentalità.
Gli anni 1960 furono attraversati da un clima di ottimismo. Dopo la grande sciagura della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) l’Italia aveva compiuto uno sforzo enorme per risollevarsi dalle macerie e sembrava avviarsi verso un’era di pace, sicurezza, ricchezza e agi. Ciò, però, secondo Enzo Peserico (1959-2008), di Alleanza Cattolica, nascondeva «[…] una diffusa situazione di insoddisfazione, soprattutto giovanile, derivante dalla disgregazione dei valori dominanti, progressivamente erosi da un modello di “società opulenta” incapace di rispondere ad attese di profilo diverso dall’innalzamento del livello materiale di vita, peraltro ottenuto attraverso un disordinato processo di industrializzazione e di allargamento artificioso dei consumi, che aveva portato rapidamente a una squilibrata espansione delle periferie urbane dell’Italia Settentrionale e allo sradicamento culturale di ampie fasce della popolazione.
«In questo humus sociale carico di insoddisfazione e insieme di attesa di un “mondo nuovo”, liberato da costrizioni e ingiustizie, cresce il rifiuto della new wave of life vagheggiata dalla cultura liberal-illuminista predominante in Occidente» (1). Questo rifiuto si manifesta nelle giovani generazioni con un desiderio di libertà dal mondo e dalle regole ereditate dai padri. Scrive l’archivista e storico contemporaneista Marco Grispigni: «Le inquietudini e le irrequietezze, presenti in larghi settori giovanili e testimoniati perfino dalle pagine delle riviste “per i giovani”, si accentuano fra alcuni ragazzi che fanno dell’incomunicabilità con la società adulta un assioma che li spinge ad allontanarsi definitivamente dai percorsi della socialità e dell’integrazione» (2).
Nasce così la cultura della «contestazione giovanile», che si propaga liberamente nelle scuole, nella letteratura, nel giornalismo, negli spettacoli e soprattutto nella musica, che diviene il vero veicolo di questa rivoluzione culturale. Vengono propagandate nel mondo e in Italia, soprattutto dalla Sinistra, idee, personaggi e comportamenti «trasgressivi», che innescano nuove conflittualità, le quali allargano il quadro di azione della «lotta di classe» comunista, proletari contro borghesi, coinvolgendo nuovi soggetti: giovani contro vecchi, studenti contro insegnanti, figli contro genitori, moglie contro marito, uomo contro donna. Questa conflittualità allargata è diretta verso un nuovo obiettivo: la famiglia come luogo in cui si forma l’uomo e, di conseguenza, l’educazione quale modo di trasmissione di valori condivisi. Infatti, quest’ultima, e la scuola in senso ampio, sono i bersagli della contestazione, poiché vengono considerate strutture autoritarie, gerarchiche e obsolete, inadeguate a dare risposte ai bisogni dei giovani. È interessante, a questo proposito, leggere quello che è scritto in un rapporto stilato nel 1967 dal prefetto di Milano Libero Mazza (1910-2000) a proposito di alcuni di questi giovani che «provocatoriamente» si autodenominavano «provos» (3): «Singolarmente i “provos” sono soliti chiamarsi per nome o col solo pseudonimo, vestono con abbigliamento strano e dormono nei posti più disparati, in promiscuità; la maggior parte di essi ha abbandonato gli studi e la casa paterna. I “provos” in più occasioni hanno organizzato o si sono inseriti in manifestazioni politiche promosse dai partiti di sinistra, dal movimento anarchico e dalle organizzazioni pacifiste, contro il “regime di Franco [Francisco, 1892-1975]”, contro il “servizio militare obbligatorio”, nonché per l’abolizione della diffida e del “foglio di via obbligatorio”. Tuttavia, i “provos” hanno, finora, sempre rifiutato di essere strumentalizzati dai partiti politici, dai sindacati e dai gruppi economici e culturali. Essi dichiarano di “operare col proprio cervello” contro tutte le forme di “paternalismo borghese”: professano il rifiuto della famiglia con tutte le sue costrizioni e repressioni sessuali nonché il rifiuto di ogni forma di collaborazione, per staccarsi dalle vecchie generazioni, al fine di dimostrare agli altri la validità della “provocazione”, definita come “nuova metodologia”» (4). Ribellione giovanile, contestazione scolastica e soprattutto rivoluzione sessuale, furono alcuni dei grimaldelli con cui si iniziò a scardinare la cellula fondamentale della società.
La rivoluzione culturale giovanile ebbe obiettivi ben precisi, descritti così dalla scrittrice italo-canadese Dara Mancini Kotnik: «L’Onda Verde è nata a Milano nel novembre del ‘66. Il nome non ha riferimenti letterari, né allusioni sentimentali alla giovane età dei suoi membri […]. L’idea è sorta in un gruppo di amici, e non c’è nessuno che rivendichi il merito di aver fondato il movimento […]. Per che cosa si impegnano? Per la conquista dei «diritti civili» […]. Il primo obiettivo da colpire, dicono, è l’istituzione militare: è di questi giorni la notizia che due di loro, Andrea Valcarenghi e Ottavio Vassallo, hanno rifiutato di indossare la divisa, ripresentandosi all’opinione pubblica come un nuovo caso di “obiezione di coscienza” […]. Ma l’Onda Verde non si ferma qui. Vuole il divorzio, la libertà sessuale, l’arretramento della maggiore età dai 21 ai 18 anni, la revisione della legislazione sui minori, la revisione dell’istituto familiare sia dal punto di vista giuridico che sociale, e infine una scuola libera all’interno della scuola ufficiale: una specie di antiscuola senza professori e senza voti, senza lezioni e senza compiti, affidata agli studenti» (5). Come si può notare, quasi tutti i «diritti civili» qui elencati hanno trovato in seguito accoglienza nella società.
Il Sessantotto inaugura, dunque, una nuova fase rivoluzionaria, che si esprime in Italia in due tendenze di fondo, come osserva Peserico: «La prima può essere definita rivoluzione in interiore homine, che mostra il volto del Sessantotto a livello dei comportamenti individuali e collettivi; il tipo che la incarna è il rivoluzionario d’elezione: “La mia vita come rivoluzione”. Egli fa la rivoluzione rovesciando lo stile di vita dell’uomo naturale e cristiano, in un processo di progressiva distruzione di ogni legame vitale — con Dio, con gli uomini e con sé stesso — fino all’esito coerentemente drammatico dell’autodistruzione attraverso la tossicodipendenza o il suicidio. La seconda tendenza si manifesta nella rivoluzione politica, che mostra il volto del Sessantotto a livello macrosociale: il tipo antropologico che la incarna è il rivoluzionario di professione: “La mia vita per la Rivoluzione”. Egli realizza il suo progetto attraverso due vie: la lotta politica — anche violenta — e la lotta politica armata, cioè il terrorismo» (6).
Queste tendenze sono rivolte a distruggere ciò che resta della società naturale e cristiana, frutto dell’inculturazione della fede in Occidente, fondata sulla concezione dell’essere umano come «essere in relazione» rispetto ad altri esseri umani, al mondo e a Dio (7). Secondo tale concezione l’uomo trova la sua personalità vera in queste relazioni: ciò è il riflesso della verità biblica sull’essere umano quale immagine di Dio. A essa si cerca di sostituire uno stato di cose basato su una visione del mondo, che — secondo la sintesi del filosofo liberal-socialista Norberto Bobbio (1909-2004) — considera l’uomo «in se stesso una totalità» (8). Ne consegue che l’altro non è visto più come un aiuto per comprendere e per realizzare sé come persona, ma come una minaccia alla propria identità considerata appunto come totalità che in sé si conclude e in sé si esaurisce (9). L’individuo, infatti, è l’istanza fondamentale; da lui scaturisce il tutto. Il fine della rivoluzione, spiega Franco Piperno — fisico, co-fondatore del gruppo della Sinistra extraparlamentare Potere Operaio con Antonio «Toni» Negri, fiancheggiatore del «partito armato» e per questo condannato a due anni di reclusione poi prescritti —, è quello di formare il cittadino come individuo sociale, «[…] che consiste nella capacità di divenire multiplo pur restando uno, senza rompersi psichicamente» (10). Perciò non vi deve essere nulla che ne limiti l’agire. Il dato naturale, che è un limite oggettivo al desiderio di onnipotenza dell’uomo, deve essere superato. Da qui la lotta contro ogni istituzione naturale e sociale, e contro ogni legame fra gli individui, visti come dialetticamente contraddittori, in quanto generatori di opposti, e dunque considerati un limite alla «libertà» del singolo. Ecco, in quest’ottica, la volontà di distruggere il legame familiare e la sua sostituzione con il single.
1.2 Il beat e l’invenzione dei «giovani»
La rivoluzione culturale del Sessantotto non fu un fenomeno improvviso, ma venne preparata da una gestazione anomala: la diffusione in Occidente di una cultura veicolata principalmente da un nuovo fenomeno musicale, nato negli anni 1950, il rock and roll — spesso scritto anche rock’n’roll o rock & roll e abbreviato in rock —, che negli anni 1960 si manifesta con una variante pop — influenzata anche da rhythm and blues, o rhythm’n’blues o rhythm & blues, soul music e swing — che prende il nome di beat, dal verbo inglese to beat, battere, percuotere, detto in relazione alla sua ritmica particolare. Scrive il musicista pop–rock, insegnante di canto, nonché storico della musica e della cultura giovanili Tiziano Tarli: «essa ha rappresentato un punto di svolta, sia sociale sia culturale, grazie a tutte le sue stelle, ai suoi modi, ai luoghi, al linguaggio e allo spirito di ribellione» (11).
La musica beat si presenta come elemento nuovo, capace di scuotere con i propri messaggi libertari una società ancorata alle proprie tradizioni sociali, iniziando un’opera di indebolimento e di allontanamento da esse che porterà alla crisi del 1968. Nella propria essenza rivoluzionaria rappresenta un esempio pregnante di quella che il pensatore e uomo di azione cattolico contro-rivoluzionario brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) definisce «una crisi delle tendenze» (12). Pur restando tecnicamente in auge solo qualche anno, la musica beat esercita sulle giovani generazioni un fascino tale da imprimere su di esse un’identità «antagonista», capace di farne un nuovo gruppo sociale. Infatti, fino ad allora, «i giovani» come tali non esistevano nella «cartografia» sociale del Novecento. Certo, si era ragazzi, si andava a scuola, si cresceva, si diventava giovani, ma tutto accadeva senza che gli adolescenti possedessero una propria identità sociale alternativa a quella degli adulti. Invece, negli anni 1960, le cose cambiano radicalmente, perché i ragazzi, soprattutto nelle grandi città investite dal boom economico, iniziano ad avere una disponibilità di denaro e di tempo libero maggiore di quanta ne avessero avuta tutte le generazioni precedenti. «Il paradigma di una gioventù ideale — scrive Grispigni a proposito dell’apparizione sulla scena sociale dei «giovani» — cominciò a definirsi nelle pubblicità e nei nuovi consumi (abbigliamento casual, musica, cinema, radio); in una società poco dinamica come quella italiana la gioventù, che aveva avuto un momento di gloria solamente nella propaganda retorica e bellicista del regime fascista, assunse il ruolo di rappresentare con la sua parzialità l’intero Paese alle prese con la “grande trasformazione”» (13). Il mix tra denaro e tempo libero che si viene a creare serve ai «giovani» per dare corpo a sogni e a desideri, e per costruire una propria identità generazionale, caratterizzata dal rifiuto della società e delle regole personali e sociali ereditate: «Rifiutiamo la società costituita con la speranza di formarne una migliore» (14), si legge in una lettera di un giovane beat. Essi, a differenza delle generazioni precedenti, non volevano lavorare nelle fabbriche e negli uffici, «mettere su» famiglia, vivere per ottenere sempre maggiori beni di consumo. Rifiutavano l’etica fondata sulla patria, sulla famiglia e sul lavoro, cercando disperatamente qualcosa che desse un senso al vivere «in opposizione» ai valori dei padri. I giovani, che riprendevano le influenze del beat angloamericano, «[…] tentano un vero e proprio esodo dalla società, ipotizzando la creazione di un proprio mondo alternativo a quello esistente» (15).
Nel contesto della nuova realtà giovanile ogni oggetto ha un valore proprio e comunica qualche informazione, sia esso una motocicletta, un taglio di capelli, una giacca o una spilla. L’abbigliamento e il comportamento servono ai ragazzi per riconoscersi e per ribadire una diversità; sono strumento di comunicazione che marcia di pari passo con la musica, che fa da catalizzatore e che viene «vissuta», ancor prima che suonata, ascoltata o ballata.
Questa diversità fatta di scelte «anticonformistiche», come il farsi crescere i capelli e il vestirsi in modo trasandato, usare droghe per «ampliare la coscienza» e «viaggiare verso mondi paralleli», è il modo che i giovani usano per separarsi dalla società del «consumismo».
A livello politico, il movimento beat pone le basi per il superamento dello Stato nazionale moderno. I suoi protagonisti sfidano i controlli alle frontiere, poiché si sentono «cittadini del mondo» e rifiutano l’appartenenza a una singola patria. A unirli sono le idee piuttosto che i vincoli di appartenenza a un Paese. Propugnano, dunque, una nuova idea di spazialità politica, senza più confini, che trova la sua ragion d’essere nella minaccia — vera, presunta o solo «percepita» — di una guerra nucleare, capace di mettere a repentaglio l’umanità intera. Il rischio di una distruzione totale fornisce ai «giovani» di quegli anni la consapevolezza di essere parte di un destino comune, al di là delle nazioni di appartenenza; da qui la loro ribellione verso lo Stato, la società e l’establishment internazionale, in cui non vogliono integrarsi.
Il «movimento beat» è uno snodo fondamentale per capire la storia recente e l’attualità, nel quale la nascita dei «giovani» come soggetto sociale si allaccia al desiderio di una libertà senza limiti e all’insofferenza per l’autorità. «Il beat contribuì a fondare il modello di una nuova microsocietà, di una società parallela a quella istituzionalizzata, avente un assetto sociale di tipo comunitario fondato su valori di reciproca solidarietà ed egualitarismo, dove “l’abbandono” del vecchio mondo e dei suoi falsi valori rappresentava una condizione indispensabile per costruire una nuova civiltà e nuove dinamiche di scambio» (16). In questo senso, la musica beat può essere considerata rivoluzionaria, dal punto di vista non solo musicale ma anche culturale, perché è riuscita a creare movimenti di aggregazione portatori di nuovi gusti e di tendenze «sregolate». «Queste tendenze disordinate — scrive Corrêa de Oliveira —, che per loro propria natura lottano per realizzarsi, non conformandosi più a tutto un ordine di cose che è a esse contrario, cominciano a modificare le mentalità, i modi di essere, le espressioni artistiche e i costumi, senza incidere subito in modo diretto — almeno abitualmente — sulle idee» (17).
È quanto accaduto con l’affermarsi di questa musica, una delle facce del poliedrico movimento beat, pieno di estremismi e di ideologie radicali, che contaminò diversi spiriti, molti dei quali impreparati o per nulla interessati a essere «rivoluzionati». La musica beat è stata cioè un prodotto singolare, poiché è riuscita anche a dettare atteggiamenti e filosofie di vita che hanno cambiato il modo di concepire il mondo e l’uomo.
2. La Beat Generation
Parlare del fenomeno beat come rivoluzionario, pur nel breve periodo della sua esistenza, vuol dire analizzarne le radici culturali, che vanno al di là delle forme espressive della sola musica beat e affondano nel terreno del movimento intellettuale statunitense noto come Beat Generation. Le idee di questo movimento influenzano i gruppi giovanili non solo negli Stati Uniti d’America, ma in tutto l’Occidente, rappresentando un modo «alternativo» di vivere l’american way of life e propagando nuove mode e nuovi stili di vita, che portano l’individualismo all’estremo. Il mito della strada rivive allora come un vagabondare, dove la meta è lo stesso viaggiare; le frontiere non più fisiche divengono interiori, oltrepassandosi con l’uso di sostanze stupefacenti.
Prima, però, di addentrarsi nell’esposizione di questo fenomeno culturale è bene spiegare l’origine e il significato della parola beat in questo contesto, oltre cioè quanto già detto in riferimento alla musica. Il termine circola nel mondo occidentale dalla fine degli anni 1940 ed è riferito al movimento letterario nordamericano formato da poeti e scrittori statunitensi, quali Jack Kerouac (1922-1969), William Burroughs (1914-1997), Neal Cassady (1926-1968), Allen Ginsberg (1926-1997), Gregory Nunzio Corso (1930-2001), Lawrence Ferlinghetti, Carl Salomon (1928-1993), Ken Kesey (1935-2001) ed altri, espressione di una «generation» caratterizzata da una netta posizione di protesta nei confronti della «società», alla cui esperienza artistica e ideale si ispira gran parte degli autori musicali del periodo beat, in Italia e all’estero. Questi autori, protagonisti di quella che presto viene chiamata appunto Beat Generation, rivoluzionano il modo di scrivere sia come forma sia come contenuto. Partendo dal rifiuto degli aspetti tradizionali della cultura nordamericana, i beat costruiscono una «controcultura» che esalta i temi della riscoperta della libertà individuale attraverso l’istinto, l’occasionalità, il misticismo orientale e l’uso della droga, fissando un canone poetico in cui il discorso manifesta un rapporto viscerale con il linguaggio. Questi valori, o, meglio, «controvalori», fatti presto propri anche dalla nuova musica rock intesa soprattutto come «vissuto» e come costume, trovano una rapida diffusione nei movimenti giovanili per poi finire assorbiti dalla cultura di massa e dalla classe media alla fine degli anni 1950 e 1960, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione che ne amplificano la circolazione. In rapporto alla rivoluzione culturale del 1968 giocano lo stesso ruolo che ebbero gli enciclopedisti in rapporto alla Rivoluzione Francese del 1789.
2.1 Il be-bop
Gli scrittori della Beat Generation erano assidui ascoltatori del be-bop (18). La caratteristica di questo stile musicale jazzistico è che la forma dei brani prevede l’esposizione di un tema, generalmente all’unisono, numerose improvvisazioni e la riproposizione del tema come finale. Le improvvisazioni sono però il fulcro dell’esibizione concertistica, tanto che le melodie vengono spesso appena accennate, mentre le improvvisazioni sono sempre molto estese: addirittura, in alcune performance dal vivo, il tema non viene nemmeno eseguito.
Il be-bop è una rivoluzione che va al di là dell’aspetto strettamente musicale, anche se di per sé fu un movimento elitario, nero e tutto sommato di nicchia. I suoi attori vennero chiamati bopper e, oltre al gusto musicale, li accomunava la voglia di ribellione. Il loro jazz era frenetico, sudato, vissuto e catartico, carico cioè di un’«ansia di liberazione»: tramite la musica, i bopper cercavano di esprimere il proprio «io» autentico e di evadere da tutte le situazioni della vita considerate oppressive. Caratteristica peculiare, che si sposava bene con lo stile musicale, era quella di vivere senza sottostare a regole o a limitazioni. Questo stile libertario portò i bopper a condurre vite di stenti, soprattutto a causa delle droghe pesanti di cui facevano largo uso. Per colpa dell’eroina morirono nel giro di pochi anni i migliori talenti: «Charlie» Parker Jr., trentacinquenne, e Theodore «Fats» — o «Fat Girl» — Navarro (1923-1950), ventisettenne, mentre Tadley Ewing Peak «Tadd» Dameron (1917-1965) finì in carcere. Molti altri seguirono la loro sorte.
Lo stile musicale del be-bop fornì agli scrittori della Beat Generation il modello per le proprie performance artistiche basate sull’improvvisazione: scrivere di getto seguendo il libero fluttuare della mente per creare frasi ritmiche, colorate e musicali come in una sessione di free jazz. Al be-bop essi diedero anche una valenza «antagonistica», leggendolo come l’espressione intellettuale, impegnata e deliberatamente rivoluzionaria, della popolazione nera, messa ai margini della società statunitense: per loro era una musica di protesta, che aveva i connotati dell’irrazionalità istintuale e liberatoria. Ciò che, però, li attraeva maggiormente era proprio la vita sregolata dei protagonisti del «momento be-bop», incarnata nella loro musica.
Il miraggio degli scrittori della Beat Generation era, del resto, quello di restituire alla parola la vitalità, la forza e il colore della voce umana, quest’ultimo ritenuto per certi versi simile a quello sprigionato dagli strumenti musicali in un’improvvisazione jazzistica. Per ottenere questo scopo inventarono i reading di poesia collettivi, performance che combinavano versi e musica dal vivo, «[…] con l’intento di liberare la parola dalla “prigione” della carta stampata, per farla librare armoniosamente come un fraseggio bop» (19). I reading si propagarono successivamente anche in Europa e in Italia, dove un cantautore beat, Gian Pieretti — pseudonimo di Dante Luca Pieretti —, accompagnò Kerouac nel 1966 in tre performance promozionali.
2.2 Cos’è il beat?
L’espressione Beat Generation viene coniata nel 1947 da Kerouac, insieme al poeta statunitense John Clellon Holmes (1926-1988) e a Ginsberg, come spiega lo stesso Kerouac: «La beat generation è una visione che abbiamo avuto, J.C. Holmes e io e Ginsberg in un modo ancora più incredibile, alla fine degli anni Quaranta, la visione di una generazione di splendidi hipsters illuminati che di colpo si levano e si mettevano in viaggio attraverso l’America, seri, curiosi, vagabondando e arrivando dappertutto in autostop, cenciosi, beati, belli nella loro nuova bruttezza piena di grazia — una visione che traeva spunto dal modo in cui avevamo sentito usare la parola beat agli angoli di Times Square o al Village, in altre zone della città nelle notti trascorse a Downtown nell’America del dopoguerra — beati, nel senso di battuti ma pieni di ferme convinzioni […]. Non designò mai i giovani delinquenti, designava gli individui dotati di una spiritualità diversa che non formarono mai una banda ma rimasero solitari a guardare fuori dalla finestra cieca della nostra civiltà, gli eroi sotterranei che avevano finalmente voltato le spalle all’occidentale “macchina della libertà”» (20).
L’idea che soggiace alla parola beat così come definita da Kerouac esprime una visione nomade dell’esistenza, dove vengono rifiutati i sistemi morali e sociali tradizionali, considerati causa della crisi dell’uomo moderno e della sua incapacità di comunicare, a favore di una ricerca incessante di nuove esperienze e capace di ispirare nuovi valori libertari che restituiscano all’uomo la gioia di vivere, portandolo fuori da una società giudicata preda della violenza e della paura indotte dal potere. Scrive Ginsberg: «aiuteremo a modificare le leggi che governano i cosiddetti paesi civili di oggi: leggi che hanno coperto la Terra di polizia segreta, campi di concentramento, oppressione, schiavitù, guerra, morte» (21). È una vera affermazione politica: infatti, anche se composta solo da un gruppo di amici letterati, la Beat Generation ha contribuito a ispirare i movimenti pacifisti, quelli per i diritti civili e quelli per le libertà sessuali.
Beat è un termine inglese dai significati molteplici, che in più si carica di molte accezioni.
Beat viene infatti inteso anzitutto come abbreviazione di Beatitude, la salvezza ascetica ed estatica dello spiritualismo zen e delle religioni orientali percepite come nuova religiosità composita, individuale e cosmica insieme, capace di unire l’«io» con l’universo e così fondere l’«io» individuale nell’«io» totale. Questa religiosità è contrapposta al cristianesimo visto come «religione istituzionale» che ingabbia l’uomo nelle regole, rivelandogli di essere creatura limitata, e che ne condiziona la salvezza, la realizzazione e la felicità all’adesione a una persona, Gesù Cristo, portatore della verità rivelata, nonché al rispetto della legge divina riflessa nella legge morale naturale. Alla liberazione estatica si perviene non solo per mezzo della religiosità orientale, ma anche tramite un «misticismo artificiale» indotto dalle droghe più svariate «[…] come chiavi per aprire “le porte della percezione” ed allargare la conoscenza» (22). Con gli scrittori beat la droga viene nobilitata quale strumento per ottenere visioni e indagare le profondità dell’animo. Altro mezzo di «conoscenza» è l’esercizio senza regole della sessualità propria e altrui. Si vuole trovare la «beatitudine» nell’incontro carnale e frenetico, cercando nell’orgasmo l’affermazione di sé. Il piacere diventa «uno scopo in sé, indipendente dalla procreazione e da ogni legame affettivo o legale tra individui» (23). Infine, vi è l’uso «libero» della parola, non più sottoposto a canoni e a regole grammaticali ed estetiche, in quello scrivere e in quel parlare incessanti, che pretendono di sviscerare tutto quanto la mente racchiude, come nella poesia di Ginsberg declamata fino a tarda notte o nei versi sconnessi affidati da Kerouac al poema Mexico City Blues (24) e alla poesia Mare suoni dell’Oceano Pacifico a Big Sur che fa da appendice al romanzo Big Sur (25).
In secondo luogo, beat viene inteso come persona «battuta», «delusa» e «sconfitta» dalla società in cui vive. Nell’introduzione a Jukebox all’idrogeno di Ginsberg, la traduttrice, scrittrice e giornalista Fernanda Piva, a cui massimamente si deve l’importazione in Italia degli scrittori della Beat Generation, precisa che il termine «beat» «[…] designa il senso di sconfitta (più ancora che il senso, mistico, di beato o, musicale, di ritmo) coinvolto nella parola. La sconfitta è quella dell’uomo moderno di fronte alla falsa comunicazione, all’avidità di denaro, alla sete di potere, all’amore della violenza; di fronte al gusto di una guerra verso la quale da alcuni decenni stampa e televisione, cinematografo e propaganda, abiti mentali e modi di vita stanno convogliando masse di gente narcotizzate dagli slogan del “benessere per tutti”» (26). Lo scrittore beat si sente insomma vinto dalle costrizioni sociali e dagli schemi imposti, che considera inattaccabili, ma da cui vuole fuggire: da qui il continuo vagabondare per le strade, cioè una vita on the road, segno esteriore di un vagare anche interiore. Questa dimensione raminga racconta di una fuga da tutto quanto la persona è realmente per andare verso l’«alternativa». Lo scrittore beat vuole però ribellarsi anche alle regole sociali. Da qui nasce la sua simpatia per gli «eroi negativi», i piccoli delinquenti che ai suoi occhi diventano modelli poiché capaci di sfidare le regole e di vivere al di là e contro di esse. Sono infatti questi i protagonisti di molte delle storie e delle poesie della Beat Generation.
Per terzo, beat viene inteso come ribellione verso l’ordine sociale e come richiamo a un’esistenza fatta di sesso e droga, nella consapevolezza che tutto si gioca nell’istante e che come tale tutto va vissuto intensamente, senza limitazioni né costrizioni di sorta. Beat significa quindi uscire dalle regole, anche a rischio di rasentare l’autodistruzione, «flirtando» con lo sbandamento in una esaltazione edonistica e narcisistica dell’«io».Il termine «beat», in fondo, non ha un significato univoco che possa imprigionarne il concetto in una definizione esatta, ma ha un significato plurale, fluttuante tra varie semantizzazioni: «ritmato», «beato», «battuto» e «ribelle» per esprimere l’idealtipo «nomade» dell’uomo della Beat Generation.
2.3 Il contesto storico della Beat Generation
L’atto di nascita ufficiale del movimento beat è il 1952, anno di pubblicazione di due testi del poeta statunitense John Clellon Holmes (1926-1988): Go, «Vai» (27), che viene considerato il primo racconto beat, e l’articolo This is the Beat Generation, uscito su The New York Times Magazine il 16 novembre (28).
Il movimento si forma e si sviluppa in un contesto storico particolare, caratterizzato dal superamento definitivo della grande crisi economica del 1929 e dall’inizio di un’era di relativo benessere. Gli Stati Uniti d’America, negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, avevano conosciuto un notevole aumento dei redditi privati con una conseguente espansione dei consumi dei nuovi beni durevoli apparsi sul mercato, quali automobili, frigoriferi e televisori, e favorito così la crescita industriale del decennio successivo. Ma gli anni della guerra avevano prodotto anche altri effetti importanti: grandi masse di persone cominciano a spostarsi da ovest a est e una tale redistribuzione della popolazione determina la nascita di grandi sobborghi adibiti esclusivamente all’abitazione prima dei ceti medio-alti e poi degli strati popolari. Inoltre, al deflusso di gente bianca dalle zone centrali corrisponde un aumento della popolazione di colore che dal sud del Paese si dirige verso le aree urbane, a cui si aggiungeva un crescente flusso di immigrati provenienti dagli Stati caraibici e dal Messico. Questo miscuglio di fenomeni provoca un aumento della tensione e della conflittualità tra le varie componenti della popolazione.
Gli anni 1950 sono caratterizzati, sul piano economico, da una fase di crescita almeno fino al 1958, che permette il mantenimento di un clima sociale poco conflittuale. La progressiva stabilità economica maschera la perdita di valori che la cultura liberal-illuminista dominante cercava di sostituire con il mito dell’opulenza e con il culto del successo. Negli ultimi anni del decennio questo clima si va deteriorando, soprattutto poiché iniziano a farsi evidenti l’isolamento degli individui e la frammentazione delle relazioni che la nuova società consumista stava producendo. Ciò porta a cercare nuove forme collettive in cui identificarsi. Una di queste è il ghetto, che diviene un luogo identitario, in cui sperimentare nuove forme di appartenenza alternative a quelle socialmente riconosciute, che trovavano nella musica, soprattutto jazz, la forma principale di espressione. L’obiettivo è quello di creare un nuovo mondo chiuso, grazie al quale entrare in contrasto, piuttosto che in contatto, con gli altri. In questo periodo nascono i primi movimenti contro-culturali, anti-scientisti, anti-industriali e ambientalisti, che rifiutano la civiltà del progresso e cercano una «purezza originaria», non inquinata dalla civiltà. È il ritorno sulla scena del mito rousseauiano del «buon selvaggio», riproposto in modo aggiornato dai cantori della Beat Generation.
I beat costituiscono un’avanguardia culturale rivoluzionaria poiché si collocano consapevolmente in una cultura percepita come apertura verso il nuovo, l’inedito e l’autentico che si contrappone a quella tradizionale vista come inattuale, opprimente e falsa, giustificando così la propria sperimentazione di nuove vie per uscire dalla gabbia in cui lo spirito si sente rinchiuso: «Beat descrive uno stato d’animo spoglio di ogni sovrastruttura, sensibile alle vicende del mondo esterno, ma insofferente delle banalità. Essere beat significa essersi calati nell’abisso della personalità, vedere le cose dal profondo» (29).
Dal punto di vista sociale praticano l’antagonismo come forma che rende possibile, anzi obbligato, l’allontanamento dai valori etici e spirituali della tradizione, sentiti come un’imposizione esterna alla propria libertà interiore. Presagiscono, quindi, un futuro idealizzato che diviene scopo della loro opera, implicando, dal punto di vista politico, simpatie e alleanze con forze rivoluzionarie o comunque progressiste. Ciò si traduce in una militanza estetica, dove l’innovazione artistica è considerata espressione di rottura con la cultura dominante, spinta trasformatrice per la società ed elemento di liberazione individuale.
Inizialmente, la compagine beat era composta dalla triade Kerouac, Cassady e Ginsberg, che si incontravano con altri ragazzi come lo scrittore e poeta statunitense Herbert Huncke (1915-1996) e Holmes nel Greenwich Village, il quartiere residenziale di New York, discutevano, facevano baldoria e condividevano i propri lavori fino a tarda notte. Anche se più anziano, lo scrittore, saggista e pittore statunitense William Burroughs (1914-1997) può essere considerato un forte elemento «collante» di questa prima compagine beat, nonostante la sua figura sia meglio definibile come guida letteraria e filosofica dei giovani Kerouac e Ginsberg. Fu, questa, una fase ricca di viaggi per per tutti gli Stati Uniti d’America, con direzione specie verso San Francisco, in California. In seguito, aderiscono al movimento il poeta, saggista e ambientalista Gary Snyder, il poeta Philip Whalen (1923-2002), il poeta, drammaturgo e compositore Michael McClure, Ferlinghetti e Corso, tutti statunitensi.
Quando Ginsberg si trasferisce a San Francisco, residenza dello scrittore Henry Miller (1891-1980), idolo assoluto del movimento, inizia la fase della cosiddetta Scuola di San Francisco, in cui gioca un ruolo importante la libreria e casa editrice di Ferlinghetti, City Lights Bookstore, sita nel quartiere North Beach di San Francisco, che pubblica alcune opere beat, fra cui Howl, poema di Ginsberg, uno dei più famosi manifesti del movimento (30).
2.4 Howl (Urlo)
Howl è letto per la prima volta nel 1955 nella Six Gallery di San Francisco e pubblicato nell’autunno del 1956 dalla City Lights Books nella raccolta Howl and Other Poems. È un’opera famosa per la correlazione fra le storie e le esperienze degli amici e contemporanei dell’autore, per il suo stile decadente, allucinatorio — il tumbling hallucinatory style, dove tumbling significa «fare le capriole» —, e l’esplicito riferimento a pratiche erotiche sia eterosessuali sia omosessuali. Howl contiene anche molti riferimenti alle droghe. È dunque un viaggio nelle profondità della mente del poeta e nella visione dei «sotterranei» in cui vivono gli emarginati — veri o presunti —, eletti a nuovi eroi dell’«epica» beat (31).
Il poema di Ginsberg esprime peraltro un sottofondo religioso di matrice gnostica. La prima parte, infatti, racconta l’insoddisfazione della folla dei protagonisti verso quanto è attuale e quanto esiste hic et nunc. Poi aggiunge l’idea che gli aspetti insoddisfacenti del reale siano il prodotto di un’organizzazione errata del reale stesso a opera del Moloch. Infine, veicola l’idea che la situazione non sia priva di speranza e che dunque, per operare la salvezza, ci si debba impegnare nella trasformazione della costituzione del proprio essere, allargandone la coscienza.
Howl fu sequestrato per oscenità, ma alla fine di un processo fu dissequestrato grazie all’intervento di autorevoli letterati dell’epoca. In favore dell’opera si schierarono molti intellettuali di San Francisco, tra cui il poeta, direttore del mensile Poetry di Chicago, Henry Rago (1915-1969); Thomas Parkinson (1920-1992), professore nell’Università della California a Berkeley; James Laughlin (1914-1997), editore, promotore culturale e poeta; l’editore Barnet Lee «Barney» Rosset Jr. (1922-2012); nonché l’editore, direttore e traduttore Donald Merriam Allen (1912-2004). La tesi sostenuta fu che l’uso dei termini «volgari» non ha nulla a che vedere con la pornografia. «Come altri poeti ispirati, Ginsberg lotta per includervi tutto della vita, soprattutto gli elementi della sofferenza e dello sgomento dai quali si leva la voce del desiderio. Solo la mancata comprensione di queste tormentate grida di protesta in favore di una comprensione sessuale e spirituale può portare a considerarle lascive. Il poeta ci fornisce i dettagli più dolorosi; ci porta a ratificare un’esperienza che è provocatoria e in definitiva “nobile”» (32): così scrisse il poeta statunitense omosessuale Robert Duncan (1919-1988) al giudice Clayton W. Horn (1904-1981) quando si trattò di emettere la sentenza. Horn espresse il proprio parere favorevole al dissequestro e diventò famoso, dicendo: «Non ritengo che Howl non abbia la minima “importanza sociale che lo riscatti”. […] Le “Note a Howl” sembrano declamare che ogni cosa al mondo è sacra, compresa ogni singola parte del corpo. Si conclude con una supplica per una vita sacra» (33). In questo modo il brutto e l’osceno diventarono «opere d’arte» con sentenza passata in giudicato.
2.5 Beat Generation e movimenti «alternativi»
I primi scrittori beat si inseriscono nella corrente di opposizione degli hipster (34), che rappresenta la scelta esistenzialistica in seno alla società statunitense, di cui sentono in modo oppressivo il peso del consumismo e della standardizzazione delle masse. Gli hipster sono infatti angosciati dal pensiero di vivere sotto la continua minaccia di una morte istantanea a causa di una guerra atomica o di patire una fine lenta ma certa a causa del consumismo, essendo riuscita la società, secondo loro, a soffocare ogni istinto di creazione e di rivolta. Davanti a questa situazione, si estraniano dalla società per inseguire un’esistenza «profonda» attraverso i «viaggi mistici» regalati dall’eroina: è l’esistenza descritta da Kerouac nella prima parte del romanzo I sotterranei (35). Accanto a loro emergono quindi i giovani beat, sofferenti e focosi, dediti all’alcool e alla marijuana, poeti e romanzieri, che avrebbero voluto condividere con l’umanità la propria esigenza di pace e di libertà, e l’amore per l’incontro dell’«io» con «il Tutto», e che invece si sentono incompresi. Per il loro stile di vita sono stati accomunati, spesso, alla cosiddetta «Lost Generation» (36). La loro esistenza, infatti, è una sorta di dramma in cui la vita diviene arte e l’arte vita, in una fusione dove gli orizzonti si confondono e l’artista non sa più dove sia il limite fra l’una e l’altra.
Gli autori beat fanno da battistrada ai temi della contestazione giovanile del Sessantotto, che negli Stati Uniti, partendo da una critica radicale alla Guerra del Vietnam (1955-1975) combattuta contro il comunismo, si estendono all’intero sistema statunitense per mettere in discussione la discriminazione dei neri, la condizione della donna e l’ostilità all’orientamento omosessuale. La contestazione giovanile ha il punto di coagulo nel movimento underground, sicuramente l’aspetto più caratteristico del fermento pre-sessantottino. Il dissenso viene espresso con le armi della non partecipazione, della rivoluzione psichedelica (cioè basata sulla liberazione della psiche attraverso allucinogeni), dell’emancipazione dell’individuo, dell’abbandono della società «borghese» e del pacifismo, che però, verso la fine del decennio, tende a confluire in associazioni radicali dedite a un attacco palese e aggressivo al sistema. Da una condizione di disaffiliation, cioè di «rescissione», si passa alla ricerca di soluzioni al di fuori della società, fatta di pratiche alternative fondate sull’individualismo libertario, la fuga-esilio nella natura e le soluzioni d’impronta collettivista in ambito economico e sessuale.
Fra la Beat Generation e il movimento underground è esistita una relazione basata sulla comunanza di idee, che da un’avanguardia ristretta passa a tutta la popolazione giovanile nordamericana ed europea a partire dalle città. Si creano cioè strutture e aggregazioni come, per esempio, l’underground press o il living theater, ovvero la «stampa alternativa» e il «teatro espressionista». Nascono poi le «comuni», dove si tenta una sintesi fra lo spontaneismo libertario del beat e la convivenza fra individui. In quel periodo, infatti, si costituiscono — come già uso in alcune culture progressiste della East Coast statunitense all’inizio dell’Ottocento — comuni agricole in cui si sperimentano l’abolizione della famiglia e l’autosostentamento, senza rendersi conto della provvisorietà di un tale tipo di soluzione: pertanto, dopo l’esplosione entusiastica dei primi anni, il fenomeno si va presto esaurendo, pur rimanendo però nell’immaginario collettivo come un’esperienza di libertà. Il rapido declino di questo tipo di vita, vissuto in modo estremo, ne rivela il carattere contrario alla vera natura dell’uomo. Ma resta un esempio tipico di «marcia veloce» (37) della Rivoluzione, la quale così punta una bandiera vistosa che sarà poi lentamente seguita dal resto della società. Oggi, a cinquant’anni di distanza, si può dire che tutti i rapporti sociali sono improntati all’orizzontalismo della «comune», per cui non si ha più una «comune» alternativa alla società, ma una società a forma di «comune».
2.6 Neal Cassady, eroe negativo
Simbolo del beat fu di certo Cassady, ispiratore di alcune opere di Kerouac, ma anche di Ginsberg, e celebrato da altri scrittori statunitensi — compreso il tedesco-statunitense Charles Bukowski (Henry Charles «Hank» Bukowski Jr., nato Heinrich Karl Bukowski, 1920-1994) nella raccolta di articoli Taccuino di un vecchio sporcaccione (38) —, per la personalità eccentrica che riusciva a far esplodere.
Cassady fu il driver della Beat Generation. Nato nel 1926 a Salt Lake City, nello Utah, mentre i genitori erano in viaggio, rimasto orfano di madre a dieci anni, trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Denver, in Colorado, a seguito del padre alcolizzato, conducendo una vita randagia e disagiata. Fa un gran numero di mestieri, dal parcheggiatore al frenatore di treni, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, che in seguito riesce a evitare con un certificato falso di licenza liceale. Ha ben presto problemi con la legge e viene più volte arrestato per furto d’auto. Ruba circa cinquecento macchine solamente per il gusto di fare un giro in automobile e mai ne rivende una. Questa «passione» lo porta in riformatorio, a Denver, fino a 17 anni. Nel 1946, poco dopo esserne uscito, parte per New York dove stringe amicizia con Burroughs, Ginsberg e Kerouac, conosciuti nella Columbia University. È proprio lui una delle fonti ispiratrici più importanti di Kerouac, che lo immortala sia nel romanzo Sulla strada (39), nel personaggio di Dean Moriarty, sia in Visioni di Cody (40). Nel primo romanzo è presentato come un uomo folle, in viaggio per gli Stati Uniti d’America alla ricerca del padre alcolista scomparso anni addietro, ma anche di qualcosa che non conosce ancora, tra donne e droghe, automobili rubate e alcool.
Amante della libertà senza regole e dell’arte, grande seduttore, si sposa tre volte e ha un’infinità di avventure erotiche, anche omosessuali, pure con Ginsberg. Uomo istintivo e impetuoso, deborda anche negli scritti. Le sue lettere, lunghissime, spontanee, esplicite sul sesso, piene di gerghi di strada, di sfrontata ricerca del piacere e di confidenze personali, definiscono il tono della scrittura beat. Cassady inizia a scrivere anche un’autobiografia (41), di cui completa però solo il prologo e tre capitoli, raccogliendo esperienze di un sé trentenne che di fatto non riesce ad andare molto oltre questa prima tappa.
Nell’estate del 1967 si reca da solo e senza soldi in Messico. Una notte, agli inizi di febbraio del 1968, si mette in cammino lungo i binari di una ferrovia fuori San Miguel de Allende, nello Stato di Guanajuato, nella zona centrale del Paese, per andare a una festa di nozze. Aveva preso barbiturici per calmare i sintomi di astinenza dall’anfetamina. Viene trovato morto per assideramento il giorno dopo all’età di 36 anni. La Pivano lo descrive come «[…] una specie di messaggero di amore e di schiettezza, una specie di campione di vitalità. Il suo modo di parlare ansioso, ardente, sincopato, le sue immagini sempre aderenti alle cose belle o brutte, povere o splendide della realtà spicciola, la sua totale incapacità di astrazione e di generalizzazione, il suo essere completamente, irriducibilmente un uomo sempre intento a respirare col fiato corto ogni attimo della sua esistenza, gli avevano creato attorno un’atmosfera un po’ misteriosa di fascino, come se Neal Cassady fosse un angelo che i giovani aspettavano a indicare la strada della loro libertà» (42).
Cassady è insomma il prototipo dell’eroe negativo, che tanta fortuna ha nella cultura giovanile: basti pensare all’attore James Byron Dean (1931-1955) o al cantante e poeta Morrison, figure che sul palcoscenico mediatico mascherano la mancanza d’ideali più alti. Ebbene, questi ultimi sono ignorati o bistrattati sia dalla cultura underground sia da quella liberal-illuministica dominante, così che a chi si affaccia alle soglie della vita restano solo solitudine, infelicità e morte.
2.7 L’artista beat
Il movimento beat si presenta come momento di rottura non solo sul piano letterario, ma anche rispetto alla società occidentale coeva e al suo sistema di valori. Sostanzialmente è il frutto di un’utopia nata all’interno di un gruppo di intellettuali, amanti della letteratura e del be-bop, completamente nauseati della società in cui vivono e delle regole che sentono come un limite alla propria libertà e non come un mezzo per realizzare la propria umanità. Il movimento si autodefinisce dunque come una minoranza all’opposizione; ha la certezza dell’emergere imminente di un nuovo tipo umano di cui si considera modello precursore; cerca l’ampliamento della coscienza attraverso l’uso di droga e alcool, ma anche attraverso esperienze sessuali e musicali; idealizza un comportamento istintivo e senza regole, scambiandolo per spontaneo e appassionato, e considerandolo un obiettivo da raggiungere; adotta una religiosità non cristiana o comunque primitiva; e si autoelegge portavoce dei gruppi sociali emarginati.
La prima accusa che il movimento rivolge agli Stati Uniti d’America e all’Occidente è di aver svuotato di senso il linguaggio, trasformandolo in un mezzo a servizio di chi gestisce il potere e non più di tutti gli uomini; quindi passa ad attaccare i princìpi che lo costituiscono e cerca di distruggerne la logicità, vista come il modo con cui il linguaggio domina la realtà. Da qui l’attenzione agli slang, i gerghi dei bassifondi della società, visti come lingua pura e immediata.
L’artista beat allora è colui che, una volta constatato il divario tra rappresentazione e realtà nel mondo occidentale, assume il compito di ricostruire tale unità configurandosi come un mago: «L’artista è colui che partecipa dell’inconscio e che quindi coglie la totalità dell’essere e del mondo manifestandoli attraverso parole e ritmi magici» (43). Diviene l’illuminato e la sua arte rito salvifico. Il suo stesso stile di vita si fa elemento di questo rituale di opposizione. Il suo desiderio di ribellione all’ordine si manifesta attraverso la scelta di un’esistenza vagabonda. Vuole fuggire, viaggiare, fare l’autostop fin dove può per ricercare nuovi stili e nuove regole di cui essere l’unico legislatore. Oltre al viaggio fisico, saggia anche quello mentale con la «sperimentazione psichedelica» per sedare la sofferenza della vita.
Proprio il tema della droga, della visione alternativa della realtà e della liberazione dell’individuo attraverso il consumo di sostanze stupefacenti, ma soprattutto di psicodislettici, i comuni allucinogeni, costituisce sicuramente un punto nodale per il movimento beat. Sono, queste, le sostanze «consciousness-expanding», cioè le droghe che «espandono la coscienza» e che servono per «sentirsi uniti». Con la Beat Generation si inaugura cioè una netta distinzione tra droghe «pesanti», hard, e cosiddette «leggere», soft, che poi passerà al successivo movimento underground e costituirà la base della richiesta di liberalizzazione delle seconde propria di ogni movimento antiproibizionista. Le prime, come gli oppiacei, danno assuefazione e creano dipendenza, mentre le seconde alterano lo stato normale della mente, inducendo vari tipi di allucinazioni. La definizione di tale linea di demarcazione si è basata non solo su questioni mediche, ma soprattutto su motivazioni sociali: mentre le droghe pesanti allontanano l’individuo dalla realtà, chiudendolo nel proprio io, le droghe cosiddette «leggere», come marijuana e hashish, avvicinano artificialmente le persone, eliminando le inibizioni e facilitando i rapporti tra i sessi e non solo. Le droghe cosiddette «leggere» permettono di entrare in una realtà in cui non vi sono individui chiusi in sé, ma una «tribù», e aiutano a liberare la mente dalle tenebre, mettendola in comunicazione con forze «soprannaturali».
Fin dall’inizio il movimento beat accoglie quasi indifferentemente riti e tecniche di meditazione dell’induismo e del buddismo zen e tibetano in un sincretismo che trae origine dal rifiuto del pensiero logico-razionale occidentale in favore della rinascita dell’uomo professata dalla cultura orientale. Dallo zen deriva in primo luogo la concezione «olistica» dell’uomo come componente del «tutto» e il rifiuto della razionalità vista come elemento sovvertitore del rapporto individuo-natura, con la conseguente svalutazione del discorso razionale in favore dell’istintività. Dal tantrismo, in cui l’unione sessuale è il simbolo dell’atto creativo e dell’unità di fondo tra cosmo e uomo, il movimento beat riprende, invece, il concetto di identificazione del sesso con la creatività artistica. Infine, l’induismo lo conduce a rivalutare l’importanza del suono e del ritmo nella creazione artistica e non. Influenzati dai mantra, suoni mistici e formule rituali orientali, i beat attribuiscono al suono una potenza superiore a quella delle immagini. Del resto, l’immagine non è più descrizione del reale, ma creazione vera e propria; non è più riproduzione di qualcosa, ma proiezione della parola. Lo scrittore o il poeta, creando la parola, creano il mondo. La parola diventa quindi ritmo ammaliante e combinazione, a volte armonica e a volte stonata, di vocali e di consonanti che rivelano l’emozione dell’artista di fronte al mondo. E l’arte si fa manifestazione dell’esplorazione della struttura della coscienza, capace di conseguire la liberazione spirituale intesa come superamento di ogni limite e di ogni distinzione tra bene e male.
L’equivalente di ciò che accade con la parola accade con il corpo, che viene slegato da ogni finalità per essere vissuto come puro elemento di godimento. Da qui nasce l’obiettivo della liberazione sessuale. Il sesso è svincolato dal rapporto stabile di coppia eterosessuale, finalizzato alla comunione delle persone e alla procreazione, e si trasforma in un gioco che manifesta la libera espressione dell’«io» all’apice della propria nudità totale. In quest’orizzonte, acquista finalmente cittadinanza l’omosessualità come forma «alternativa».
Droga, sesso ed esperienze religiose di matrice orientale formano un mix che dà sostanza piena alla «rivoluzione psichedelica» e che supera il vecchio socialcomunismo perché non punta più a cambiare le strutture sociali per cambiare l’uomo, ma punta direttamente a quest’ultimo, cercando di alterarne la fisionomia interna. Dall’esplorazione della struttura della coscienza si sviluppa un atteggiamento di totale sfiducia nelle vie politiche tradizionali e una concezione che dà origine al multiculturalismo e al pacifismo, con l’assorbimento della cultura «nera» nella letteratura e nella musica delle tendenze più avanzate. Da qui l’idea di trovare nei cosiddetti Paesi sottosviluppati la possibilità di una vera comunicazione tra gli uomini. L’idea beat di «terzo e quarto mondo» risponde più a un’immagine «ideale», frutto del pensare «alternativo», che non alla realtà vera e propria di quei Paesi. I beat immaginano quei territori «liberi» dalla civiltà del «consumo» e dalla «civiltà razionale» viste come schiavizzanti per l’uomo; perciò vi si dirigono, cercando una libertà e un’autenticità perdute che però sono esistite solo nella loro mente.
Rispetto a tutto il vasto movimento della contestazione giovanile che verrà in seguito, il minuscolo gruppo di poeti e di scrittori beat degli anni 1950 può essere visto come il motore di un’utopia che aveva l’obiettivo di ottenere la liberazione da ogni tabù e da ogni costrizione, ma soprattutto di proporre un tipo umano nuovo, privo di legami che non siano quelli tra l’«io» e il «tutto».
Il movimento, anche grazie al successo del romanzo di Kerouac Sulla strada, raccoglie un consenso ampio. Ispirandosi a esso, nascono movimenti come gli hippie — o hippy — e i beatnik (44), che ne portano a livello di massa le idee e gli stili di vita. Ne deriva un malcontento grave nella società statunitense, che ha negli scrittori beat i cattivi maestri di una intera generazione di contestatori.
2.8 Il beat in Italia
Come altri fenomeni sociali e culturali, in Italia il beat giunge solo in maniera marginale, quantunque gli scrittori statunitensi appartenenti a quel movimento visitassero la nostra penisola, alcuni per trovarvi ispirazione, altri invitati a rassegne come il Festival dei Due Mondi di Spoleto del 1965.
È la Pivano a trasferire in Italia la Beat Generation. Con lei la traduzione di opere straniere diventa un atto creativo. Oltre a essere amica degli autori che traduce, firma le introduzioni alle loro opere pubblicate in Italia. Negli anni 1960, la sua casa nella centrale via Manzoni a Milano si trasforma in un importante punto di riferimento per chi gravita intorno al movimento beat. Non a caso è lei a suggerire al poeta campano Vittorio Di Russo e agli altri giovani italiani «in viaggio» il titolo della prima rivista underground italiana, che inizia le pubblicazioni nel novembre 1966: Mondo Beat.
Ben presto Mondo Beat diventa il riferimento e la voce di un movimento di «capelloni» che nella periferia di Milano erige la famosa tendopoli di via Ripamonti, dove si pratica l’«amore libero» e si tenta d’incarnare gli ideali del movimento in una «comune» «alternativa», così descritta in una raccolta di testimonianze e di documenti di allora: «Nata alla fine dell’aprile del 1967 a Milano, la tendopoli di via Ripamonti era, oltre che una critica pratica all’architettura urbana, la presenza palpabile di un dissenso radicale che la società italiana non riusciva a contenere nei limiti geografici della politica spettacolare. […] I capelloni […] erano ragazzi scappati di casa, studenti ed ex-studenti, ex-operai, sbandati, pacifisti […]. Le azioni che questi ragazzi in gruppo o separatamente innescavano nella città con una chiara pratica provocatoria dell’assurdo era inaccettabile in una situazione in cui l’assurdità dell’umano era generalizzata. Nonostante che l’ala moderata della borghesia italiana cantasse le odi di costume di questi ragazzi (vedi Camilla Cederna [1911-1997] sull’«Espresso» insieme ad Umberto Eco [1932-2016] vedi Giorgio Bocca [1920-2011] su «Il Giorno», ecc…) la nascita di Barbonia City, come zona liberata nel cuore di Milano, fu considerata un vero e proprio atto di guerra» (45). Questa esperienza finisce con lo sgombero da parte della polizia il 12 giugno 1967: «Così, il primo tentativo di “comune urbana” muore vittima di uno scontro a cui per motivi storici culturali non aveva saputo militarmente adeguarsi, pagando il lusso che si era presa di non considerarsi una roccaforte d’assalto del paesaggio urbano, ma una dolce, pacifica, un po’ stonata isola giovanile» (46). L’esperienza della «comune» milanese può considerarsi un esempio di «centro sociale» ante litteram (47), di cui annuncia lo stesso linguaggio e gli stessi temi. Lo sgombero da parte della polizia costituisce del resto una lezione che i futuri frequentatori dei centri sociali imparano bene, imparando a rispondervi militarmente attraverso la tecnica della guerriglia urbana.
In Italia, però, la diffusione del beat è legata principalmente alla musica e in particolare alla popolarità del complesso inglese The Beatles (48), che di questo genere è il leader indiscusso, visto che la letteratura della Beat Generation resta un fenomeno di nicchia. Per la maggioranza dei giovani italiani che seguono il beat, il percorso è a ritroso: grazie all’ascolto e alla conoscenza dei Beatles, del cantautore statunitense Bob Dylan e della cantautrice pure statunitense Joan Chandos Báez, in arte Joan Baez, incontrano il mondo e le idee della Beat Generation, che quel tipo di musica veicola come alternativa ai valori e ai costumi della tradizione cattolica del Paese. Proprio sull’esempio dei poeti nordamericani, infatti, si formano anche in Italia gruppi di «capelloni» votati alla vita in comune, alla ribellione, al rigetto dell’ordine di cose ereditato dai padri e alla sostituzione di esso con l’«io» nomade. Portare i capelli lunghi, come si legge nel libro collettivo Vivere insieme!, è percepito allora come la «[…] testimonianza di un discorso di rigetto degli standard tradizionali del costume; così, i vestiti stracciati, maniera di esternare il rifiuto del concetto tutto esteriore e borghese del decoro, che rivelava altresì una povertà voluta rispetto al livello della base di appartenenza, solitamente alto. […] Il mocassino navajo, la camicia dell’altra India sono non solo mezzi relativamente economici di vestire ma anche affermazione pubblica della propria diversità. L’aspetto esteriore diventa mezzo di comunicazione che permetteva subito di distinguere l’amico dal nemico […]. Se tu sei sporco e stracciato difficilmente frequenterai una casa borghese, se hai i capelli talmente arruffati da non poterli pettinare difficilmente lavorerai nell’establishment» (49).
La provocazione dei capelloni, italiani e non solo, è dunque diretta contro un assetto sociale imperniato sulla famiglia e sul lavoro, che impone un modello di ribellione «nuovo», esistenziale, rivolto principalmente alla sfera personale, il quale non si propone più di cambiare l’ordine costituito, ma semplicemente se ne chiama fuori per trovare, all’interno di quell’ordine, spazi alternativi in cui vivere un significato «anticonformista» dell’esistenza basato sull’esaltazione dell’esperienza soggettiva. I nuovi ribelli propugnano cioè un modello di società diverso, anche se parallelo a quello dominante. Lo scopo non è tanto realizzare una rivoluzione che occupi violentemente il potere e sostituisca le istituzioni legittime con altre, quanto vivere privilegiando lo spontaneismo istintivo sulla razionalità e le emozioni sulla ragione per incoraggiare nuovi rapporti sociali e personali basati sull’individualismo e sull’orizzontalismo senza istituzioni né stabili né gerarchiche.
A questo proposito, scrive uno psicologo molto noto in quegli anni, Dino Origlia (1920-2012): «Allora, la rivolta non è quella specifica contro questa società così com’è, ma è contro la strutturazione in società. Ne dovrebbe venir fuori una nonsocietà… Allora, la stazione di arrivo dev’essere ancora retrodatata: è l’Eden. […] Questo ritorno alle origini è suggestivo, ed è per questo che ha successo anche tra molti adulti. Solletica in ognuno il dispetto per la condanna biblica e del piacere del ritorno alla natura immacolata» (50).
A mezzo secolo di distanza può ben dirsi che questa strategia di alterità irriducibile si è dimostrata vincente, anche se, invece dell’«Eden primordiale», ha realizzato un’anticamera dell’inferno con tanta solitudine e infelicità, soprattutto nei rapporti interpersonali, improntati a una fragilità estrema.
A livello sociale, si è assistito a un «imbarbarimento collettivo» (51) manifestatosi con la definizione di nuovi comportamenti relazionali estranei alle regole tradizionali e i cui effetti — non certo positivi — sono evidenti nelle società moderne. Questi hanno quindi delineato una nuova socialità che ha portato «all’indebolimento delle relazioni inter-generazionali e alla conseguente disgregazione del mondo valoriale di riferimento» (52), facendo emergere negli individui la «matrice indissolubilmente barbarica della natura umana, soprattutto nella sua fase giovanile» (53).
2.9 La fine del movimento beat
Il movimento beat va infine pian piano calando, di pari passo con la politicizzazione delle contestazioni studentesche. Come è stato notato, «mentre negli Stati Uniti una qualsiasi separazione tra movimento hippy e rivolta studentesca è senz’altro arbitraria, in Italia la rottura avviene rapidamente nel corso del ’68 ed è il risultato della forte politicizzazione ideologica, sia del “ceto politico” che si va formando nelle università che della gigantesca offensiva operaia. Troppo profonda e complessa era la cultura politica italiana per lasciare “spazio” ad altre forme di rivolta. Poteva, come in effetti è avvenuto, produrre una dura diaspora rivoluzionaria […], ma in quella fase lasciava poco spazio al proseguimento di una rivolta esistenziale che per altri sentieri della storia sarebbe continuamente riemersa negli anni successivi attraverso la pratica delle donne, nell’area della “critica radicale”, in quella “dell’autonomia diffusa” e del movimento del ’77» (54). È il trionfo della seconda tendenza, «la mia vita per la rivoluzione», descritta da Peserico. La politicizzazione della cultura giovanile, però, non pone fine alla dimensione controculturale che entra in essa e ne segna il percorso, sebbene carsicamente. La centralità dell’obiettivo rivoluzionario, con la sua carica ideologica che sfocia in scontri violenti nelle piazze e in azioni terroristiche, sembra mettere fra parentesi i fermenti controculturali del beat: essi riemergeranno con la sconfitta politica del terrorismo e del movimentismo, inaugurando la stagione dei cosiddetti «diritti civili», che ha visto il suo trionfo negli anni 2000.
La conquista di questi nuovi «diritti» è il risultato di un ciclo di lotte e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che prende l’avvio appunto negli anni 1950 con le idee della Beat Generation, veicolate attraverso nuovi canali di comunicazione e di produzione culturale quali la musica rock e tutta l’industria musicale costruita attorno a esso. Sono questi canali a mettere le basi per un «linguaggio comune a un’intera generazione, e di questa esclusivo patrimonio» (55). L’emergere di una cultura giovanile planetaria dai contenuti libertari, che crescerà con questa generazione, produrrà le condizioni culturali per la deflagrazione del Sessantotto e porterà alla dissoluzione dei legami sociali, configurando una società sempre più «liquida» in tutto l’Occidente.
Negli Stati Uniti d’America, invece, il beat genera anche una reazione di profonda disapprovazione sociale verso la «controcultura» che, sul fronte opposto, alimenta — non da solo, ma in maniera significativa tra i giovani — la nascita e lo sviluppo del movimento conservatore, capace poi di successi importanti anche a livello politico. Eppure, il beat segna comunque una strada, sapendo imporre il proprio radicalismo come punto di attrazione universale.
Salvatore Calasso
Note:
1) Enzo Peserico, «voce» Il Sessantotto italiano (1968-1977), in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di Giovanni Cantoni, presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 221-222.
2) Marco Grispigni, Angeli fottuti. La gioventù senza «3M», in Gianni De Martino (a cura di), Capelloni & ninfette. Mondo Beat 1966-1967. Storia, immagini, documenti. Con DVD-ROM, prefazione di Matteo Guarnaccia, Costa & Nolan, Milano 2008, p. 14.
3) «Provo» è un movimento contro-culturale e contestatario con forti venature libertarie ed ecologiste, nato nei Paesi Bassi e attivo politicamente fino agli inizi degli anni 1970. Da lì, per estensione, il nome — vuol dire «provocazione» in neerlandese — è stato fatto proprio dai movimenti giovanili di altri Paesi, come l’Italia, che a esso si ispiravano.
4) Rapporto del prefetto di Milano del 27 febbraio 1967, in ACS MI Gab., 1967-70, b. 39, f. 11001/98, in http://www.mondadorieducation.it/media/contenuti/multimediale/casilio_documenti/documenti_pdf/04casilio_capelloni.pdf, p. 16 (i siti web dell’articolo sono stati consultati il 21-6-2018).
5) Dara mancini Kotnik, Protestano sì, ma gentilmente i beat di buona famiglia, in Panorama, anno V, n. 64, Mondadori, Milano 6-7-1967, pp. 45-46.
6) E. Peserico, voce cit., pp. 222-223.
7) Cfr. il mio Dalla donna all’individuo femminile: un passaggio di civiltà, in Marisa Forcina, Angelo Prontera e Pia Italia Vergine (a cura di), Filosofia Donne Filosofie. Atti del Convegno Internazionale. Lecce, 27-30 aprile 1992, Milella, Lecce 1994, pp. 247-272 (p. 260).
8) Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, p. 28.
9) Cfr. il mio art. cit., p. 260.
10) Franco Piperno, Elogio dello spirito pubblico meridionale, manifestolibri, Roma 1997, p. 107.
11) Tiziano Tarli, Beat italiano. Dai capelloni a Bandiera Gialla, Castelvecchi, Roma 2007, p. 5.
12) Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009); con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura e con Presentazione di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009, Parte I, La Rivoluzione, cap. V, Le tre profondità della Rivoluzione: nelle tendenze, nelle idee, nei fatti, 1. La Rivoluzione nelle tendenze, p. 59.
13) M. Grispigni, op. cit., pp. 16-17.
14) Sandro Mayer (a cura di), Lettere dei capelloni italiani, Longanesi, Milano 1968, p. 21.
15) M. Grispigni, op. cit., p. 18.
16) Nanni Balestrini e Primo Moroni (1936-1998), L’orda d’oro. 1968-1977, Sugarco, Milano 1988, p. 38.
17) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., Parte I, La Rivoluzione, cap. V, Le tre profondità della Rivoluzione: nelle tendenze, nelle idee, nei fatti. 1. La Rivoluzione nelle tendenze, p. 59.
18) Il be-bop, o semplicemente bop, è uno stile del jazz sviluppatosi soprattutto a New York negli anni 1940. Era suonato da musicisti come Charles «Charlie» Parker Jr. (1920-1955), Thelonious Sphere Monk (1917-1982) e John Birks «Dizzy» Gillespie Gillespie (1917-1993).
19) T. Tarli, op. cit., p. 8. Alcuni scrittori della Beat Generation si offrono «a pagamento» per delle serate di letture di poesia, tramite annuncio sui giornali: «Rent a beat».
20) Jack Kerouac, Sulla beat generation, in Idem, Scrivere bop. Lezioni di scrittura creativa, trad. it., Mondadori, Milano 1996, pp. 41-48 (p. 41).
21) Allen Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, a cura e con introduzione di Fernanda Pivano (1917-2009), Guanda, Parma 1992, p. 20.
22) T. Tarli, op. cit., p. 12.
23) Marina Castañeda, Comprendere l’omosessualità, trad. it., Armando, Roma 2006, p. 179.
24) Cfr. J Kerouac, Mexico City Blues. Edizione integrale con testo inglese a fronte, trad. it., a cura di Carlo Coppola, Carlo A. Corsi e Paola Fanzeco, Newton Compton, Roma 2011.
25) Cfr. Idem, Big Sur, trad. it., Mondadori, Milano 2012.
26) Fernanda Pivano, Introduzione a A. Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, trad. it. cit., p. 18.
27) Cfr. John Clellon Holmes, Go, con una introduzione di James Atlas, Penguin, Londra 2006.
28) Cfr. Idem, This is The Beat Generation, in The New York Times, del 16-11-1952, trascritto in Levi Asher, «This Is The Beat Generation» by John Clellon Holmes, in Literary Kicks, s.i.l. 24-07-1944, <http://www.litkicks.com/ThisIsTheBeatGeneration>.
29) Mario Maffi, La cultura underground: Rock, poesia, cinema, teatro, vol. 1, Stati Uniti d’America – Cultura – 1950-1970, Laterza, Bari 1980, p. 3.
30) Cfr. A. Ginsberg, Urlo, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1997.
31) Cfr. A. Ginsberg, Urlo & Kaddish, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1997.
32) Robert Duncan (1919-1988), cit. in Bob Dylan [pseudonimo di Robert Allen Zimmerman], A. Ginsberg e J. Kerouac, Battuti & Beati. I beat raccontati dai beat, trad. it., Einaudi, Torino 1996, p. 142.
33) Ibid., pp. 146-147.
34) Con la parola hipster negli Stati Uniti, fra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo XX, viene indicato il giovane bianco ribelle, appassionato di jazz, in particolare di be-bop, appartenente alla classe media, insofferente del conformismo sociale e dedito a uno stile di vita senza radici, fondato sull’assoluta libertà delle scelte e su altre pretese, come la sessualità libera e l’uso di alcolici e droghe che allargano la coscienza individuale. L’hipster cerca una nuova identità ispirandosi alla cultura afroamericana e alla forza creativa del jazz.
35) Cfr. J. Kerouac, I sotterranei, trad. it., con una postfazione di F. Pivano, Mondadori, Milano 2012.
36) L’espressione «Lost Generation», «generazione perduta», sarebbe stata coniata dalla scrittrice e poetessa statunitense Gertrude Stein (1874-1946) per indicare i giovani scrittori emigrati dagli Stati Uniti d’America in Francia fra il 1920 e il 1930, accomunati dalla delusione e dal disincanto (cfr. Ernest Hemingway [1899-1961], Festa mobile. Edizione restaurata, trad. it., Mondadori, Milano 2011, pp. 46-51).
37) Cfr. P. Corrêa de Oliveira, op. cit., Parte I, La Rivoluzione, cap. VI, La marcia della Rivoluzione, 4. Le velocità armoniche della Rivoluzione, A. L’alta velocità, p. 63.
38) Cfr. Charles Bukowski, Taccuino di un vecchio sporcaccione, trad. it. Guanda, Milano 2017.
39) Cfr. J. Kerouac, Sulla strada, trad. it., con un saggio di F. Pivano, Mondadori, Milano 2016.
40) Cfr. Idem, Visioni di Cody, con una prefazione di A. Ginsberg, trad. it., Arcana, Roma 2005.
41) Cfr. Neal Cassady, I vagabondi, trad. it., Mondadori, Milano 1998.
42) F. Pivano, Beat Hippie Yippie, Bompiani, Milano 2004, pp. 104-105.
43) Marina Camboni, L’esotismo nella letteratura angloamericana, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 148.
44) La parola beatnik è stata coniata dal giornalista statunitense Herbert Eugene «Herb» Caen (1916-1997) nell’articolo pubblicato sul San Francisco Chronicle del 2-2-1958 come termine denigratorio riferito ai membri della Beat Generation. È un gioco di parole ottenuto unendo al termine «beat» il suffisso «nik», ovvero l’ultima sillaba della parola «Sputnik», cioè il nome del primo satellite lanciato nello spazio dall’Unione Sovietica l’anno prima. Con esso Caen voleva sottolineare sia la distanza dei beat dalla società statunitense di allora, sia la loro prossimità alle idee comuniste.
45) …ma l’amor mio non muore. Origini documenti strategie della «cultura alternativa» e dell’«underground» in Italia, Derive e Approdi, Roma 1997, p. 20.
46) Ibidem.
47) Cfr. il mio Centri Sociali. Zone di IV Rivoluzione, in Cristianità, anno XXV, n. 265-266, Piacenza maggio-giugno 1997, pp. 3-15.
48) The Beatles è il gruppo musicale più famoso del periodo e di tutta la storia del rock. Il nome derivava da un gioco di parole, inventato dal loro leader John Lennon (1940-1980), fra beat, che era il genere musicale suonato dal gruppo, e beetles, «scarabei», il nome suggerito dal loro primo bassista, Stuart Sutcliffe (1940-1962).
49) Vivere insieme! (il libro delle comuni), Arcana, Roma 1974, p. 86.
50) Dino Origlia, Requiem per papà, Immordino Editore, Genova 1968, pp. 15-16.
51) Valerio Marchi (1955-2006) e Antonio Roversi (1950-2007), La cultura del muretto. Tendenze nomiche e anomiche negli stili giovanili, in Massimo Canevacci, Roberto De Angelis e Francesca Mazzi (a cura di), Culture del conflitto, Costa & Nolan, Genova 1995, p. 202.
52) Luca Benvenga, Il conflitto generazionale. Soggettivazione e caratteristiche comportamentali in Italia dal teenager degli anni Cinquanta al proletariato giovanile metropolitano degli anni Settanta, in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea. Rivista e risorsa digitale indipendente a carattere storiografico, n. 22, Bologna giugno 2015, Costruire. Rappresentazioni, relazioni, comunità,
53) V. Marchi e A. Roversi, op. cit, p. 202.
54) N. Balestrini e P. Moroni, op. cit., p. 60.
55) Peppino Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 72.