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Alleanza Cattolica – aree tematiche – Materiali sull’Insorgenza e l’Identita’ Nazionale italiana

7 Ottobre 2011 - Autore: Alleanza Cattolica

Annali Italiani n. 4 (2003), Editoriale

 

Verso un’identità nazionale compiuta

 

Le cronache degli ultimi mesi ci hanno offerto una messe di accadimenti — anche se non tutti dello stesso peso e “qualità” — talmente ricca da imporre una rifl essione. Le inattese reazioni e prese di posizione sul “caso” del crocifi sso di Ofena in Abruzzo, la commozione seguita alla strage di Nassirya e lo straordinario rilievo avuto dai funerali dei caduti, l’importante omelia pronunciata in quella sede dal presidente della CEI cardinal Camillo Ruini, l’intensificarsi delle esternazioni del Presidente della Repubblica e di altre insigni magistrature dello Stato, la caricatura d’insorgenza di Scanzano in Lucania, le difficoltà del processo d’integrazione europea, la rovente polemica sul volume Il sangue dei vinti, il viaggio di Gianfranco Fini in Israele: tutto questo pone il quesito se per caso non si sia di fronte a una evoluzione significativa di tutto un quadro o, quanto meno, di suoi elementi non secondari.

Per tentare di orientarsi e di trarre un minimo di conclusioni pare opportuno fare una peraltro non brevissima premessa.

Come da più parti è stato evidenziato — per esempio dal politologo federalista Mario Albertini (1919-1997) (1) —, la nazione, nel modo in cui oggi comunemente s’intende, non è un dato di natura, bensì un prodotto, un risultato, il portato dei processi politici

della modernità e, in particolare, dell’avvento e del rapido sviluppo dello “Stato burocratico accentrato”, rappresentando la forma che tale realtà assume in una ben precisa fase della sua traiettoria storica, quella ottocentesca, aperta dalla Rivoluzione francese e modellata sulle idee-portanti di questa. La nazione rappresenta, in questa prospettiva, il dato legittimante della nuova entità politica. Quest’ultima viene però ad affermarsi in seno a universi sociali e a popoli, che sono in concreto tutt’altro che “nazioni”, ovvero tutt’altro che — come il termine, derivato da natio, nascita, lascerebbe supporre — gruppi umani accomunati da una medesima origine naturale.

In effetti, Stato moderno e nazione moderna non sono mai fenomeni sincroni, anzi non di rado la spinta verso il conseguimento di una forma di Stato “nazionale” — quella in tesi coestesa a tutta una determinata area culturale e a un territorio — precede la formazione

della nazione. Essa diventa quindi l’obiettivo di precise politiche intese a creare un nuovo sentimento di appartenenza allargato e inusuale, più o meno artificiale, a spese delle identità culturali, diventate di fatto parziali, dei sensi di appartenenza regionali e locali e, infine, dei lealismi verso le eventuali formazioni politiche inferiori su cui lo Stato nazionale ha trionfato.

Ancora, se la nazione è, in ultima analisi, un’”invenzione”, una sovrastruttura ideologica dello Stato moderno, il senso identitario dei suoi membri rifletterà le evoluzioni e i successi dello Stato medesimo.

E lo spessore dell’identità civile estesa sarà caratterizzato da un equilibrio variabile e tanto più precario, quanto più questa identità sarà in origine o sarà mantenuta in seguito lontana da quella “nazionalità spontanea” implicita, che invece si forma lentamente nel corso della storia, quasi geologicamente, come sedimento di fenomeni e di processi ormai conclusi, di cui forse non si conserva più nemmeno la memoria, sì da crederli un fatto naturale.

La nazionalità italiana risponde in pieno alla condizione descritta.

Essendo mancato nel vissuto medievale e moderno dei popoli della Penisola un catalizzatore unico ed efficace, come una dinastia, una minoranza attiva o fattori esterni, essa si è formata nei secoli per stratificazione di apporti culturali successivi che le hanno conferito un profilo originale e, in similitudine con la nazione germanica, dai caratteri diffusi in maniera omogenea. Se la monarchia “francese”, ancora alla fine del secolo XVIII, dopo un lungo periodo di assolutismo accentratore, si presenta come un’eterogenea mescolanza di “paesi”, di lingue, di particolarismi giuridici e amministrativi, lo spazio “italiano” presenta meno elementi di diversificazione primari — pur nell’ampia pluralità degli elementi secondari, dal dialetto alla cucina —, mentre la sua articolazione dal punto di vista della sovranità appare nella stessa epoca incomparabilmente più estesa.

A differenza delle unificazioni parziali, dalla dimensione cittadina a quella “regionale” dei ducati e dei regni, che la Penisola ha conosciuto nel corso dei secoli, la sua unità “nazionale” — e il suo ritardo, come quello tedesco, è in questo senso eloquente — comporta un sacrificio non indifferente per le identità locali così come sono maturate fino a questa epoca. Ma l’unità ha un prezzo ancor più alto per l’identità italiana “spontanea” nel suo complesso: la frattura tra il suo substrato più profondo, l’identità cattolica, e la realtà politica, che dopo il 1861 dovrà realizzare il bene comune di tutti gl’italiani. L’Italia, in virtù del successo della Riforma tridentina, non ha vissuto il dramma delle guerre di religione, per cui, al momento dell’unificazione, presenta un profilo religioso straordinariamente coeso e uniforme. Non solo il cattolicesimo costituisce il principale e più profondo elemento di agglutinazione del senso identitario dei popoli della Penisola, ma l’influenza della cultura religiosa sui gangli vitali della nazione e la presenza capillare e diffusa dell’istituzione ecclesiale sul territorio creano una fusione unica fra sentimento nazionale e religione. Per questo la lunga emarginazione dei cattolici dall’edificazione dell’Italia moderna costituisce per l’identità nazionale un vulnus tanto più grave, in quanto va a toccare non un elemento secondario della “nazionalità spontanea” degl’italiani, bensì il suo cuore, il senso di appartenenza religiosa (2).

Se è possibile — come credo — individuare due modelli di costruzione della nazione moderna nei popoli europei, escludendo per un momento la “Grande Europa” nord- e latino-americana (3) — uno, ad alto tasso d’ideologia, definibile “illuministico-francese”, libertario ad intra, ma imperialista ad extra, tendenzialmente unitarista, e un altro, che si potrebbe chiamare “romantico-tedesco”, più “storico” e rispettoso dell’identità reli giosa, più libertario ad extra e tendenzialmente federalista —, si deve riconoscere che l’Italia ha imboccato decisamente il primo di questi due percorsi e gli si è mantenuta fedele a oltranza, fino al punto di continuare eloquentemente a celebrare come salutare un’invasione e una dominazione, quella napoleonica, fra le più tragiche mai subite dagl’italiani.

Questa scelta è stata “coperta” con il ricorso a massicce dosi d’ideologia, soprattutto attraverso l’elaborazione e l’imposizione di una memoria pubblica altamente “inquinata”, piena di forzature e di omissioni, una sorta di mitologia politica a sfondo pedagogico, che verrà tenacemente veicolata al popolo attraverso la scuola di massa obbligatoria, i monumenti, le festività e le “liturgie” nazionali. Una mitologia che il fascismo si guarderà bene dal cancellare, riprendendola in toto, ampliandola, perfezionandola e amplificandola, nella propria politica di “nazionalizzazione” delle masse italiane. Persino uno studioso fascista, come lo “scopritore” dell’Insorgenza Giacomo Lumbroso (1897-1944), dovrà desistere dal “rivedere”, anche in minima parte e nonostante la lettura a fini palesemente neo-nazionalistici, la vulgata risorgimentale.

L’alto tasso d’ideologia — così Di Nucci e Galli della Loggia defi niscono il cavourismo e il mazzinianesimo (4) — e il carattere minoritario della classe dirigente, che connotano il neonato Regno d’Italia, la sua nascita in modo “escludente” e non inclusivo (5), l’assenza di centri di autorità — troppo coinvolta la Corona, emarginata la Chiesa —, che facessero da contrappeso alla “consorteria” ideologico-partitica al governo configurano fin da subito nella vita nazionale una situazione divisa e “divisiva”, secondo l’efficace neologismo introdotto dallo storico Luciano Cafagna in un altro saggio del medesimo volume (6). In conseguenza della legittimazione a prevalente base ideologica sembrano prendere corpo in Italia “due nazioni”, ciascuna che priva l’altra del titolo d’idoneità a governare, l’una perché considera l’altra usurpatrice, l’altra in quanto giudica l’una come “anti-nazionale”. E questa dei due blocchi non alternativi fra loro, perché, in concreto, il ricambio è negato, è una condizione destinata a perpetuarsi, pur nella evoluzione dei soggetti, fino ai nostri giorni.

Tornando al tema principale, la frattura identitaria del 1861-1870 è stata in parte sanata dal Concordato del 1929 e, poi, dal ritorno dei cattolici alla politica nel secondo difficile dopoguerra, fatti entrambi che hanno più il sentore dell’operazione di vertice a fini conservativi, che altro. Ma nel 1943-1945, con i governi anti-fascisti del Comitato di Liberazione Nazionale, e, dopo il 1948, con la Democrazia Cristiana, non riguadagna cittadinanza tutto quell’ethos plurisecolare, che aveva fatto grande l’Italia preunitaria, non ritrovano spazio quelle identità culturali e locali a suo tempo negate, le quali avevano avuto il loro “momento forte” nella grande insorgenza popolare contro la Rivoluzione francese e Napoleone, e le cui istanze, nei decenni fino alla Grande Guerra, si erano implicitamente incanalate all’interno del robusto cattolicesimo intransigente. Nonostante il “salvataggio” della nazione operato — come già dopo l’8 settembre 1943 — da questa falda profonda nelle elezioni del 18 aprile 1948, la Prima Repubblica vede accedere al potere — non a tutto il potere, ma sicuramente a una parte non secondaria di esso — solo alcuni dei cattolici, quelli che il filosofo comunista Antonio Gramsci (1891-1937) aveva chiamato “democratici” (7), i quali disconoscono nella prassi i valori della filosofia politica e sociale classica, mentre assumono come ideale, tentandone un difficile battesimo, la mitologia della Rivoluzione francese, del Risorgimento “scomunicato” (8) e, in generale, della modernità. L’assioma dell’unità politica dei cattolici garantirà poi alla frazione cooptata l’egemonia anche sulla parte sommersa dell’iceberg “bianco”, che si cercherà reiteratamente di “nazionalizzare”, attraverso la sua “de-integralizzazione”.

Per tutte queste ragioni l’identità italiana pare tuttora essere un’identità incompiuta, un work in progress. È vero che questo difetto di origine non ha impedito che dopo centocinquant’anni di storia comune gli italiani, dal Friuli alla Sicilia, abbiano cominciato a poco a poco a sentirsi parte di un tutto, in particolare grazie alla pressione culturale unificante e nel contempo livellatrice dei mass media.

Gli elementi, però, che sostanziano questo senso comune fattuale si rivelano in ultima analisi alquanto epidermici e instabili e le ferite della storia passata e recente pesano ancora nella esilità del legame civile fra gl’italiani.

Se fu poco solido ab origine, è un fatto che quel “plebiscito di tutti i giorni” — che, secondo Ernest Renan (1823-1892) (9), sarebbe l’unica definizione possibile di nazione — nel dopoguerra ha conosciuto in Italia una flessione netta per tutta una serie di cause: dalla nausea per il nazionalismo fascista, alla sconfitta militare e alle modalità da questa assunte — il disastro dell’8 settembre 1943; dalle gravi offese patite dalle popolazioni a causa del conflitto — emblematici il caso della violenza di massa sulle donne perpetrata dalle truppe francesi nella zona di Esperia, in provincia di Frosinone, su cui è tornato di recente Galli della Loggia (10) —, delle rappresaglie germaniche, dei bombardamenti alleati e della guerra civile, fino alla vendetta anti-fascista del 1945 e al tentativo di guerra sovversiva attuato in alcune regioni italiane dal Partito Comunista, almeno fino al 1948 (11). Ma anche altri elementi, soprattutto le ideologie dominanti, in cui il momento nazionale appariva subordinato ad altri valori — l’anti-fascismo, l’internazionalismo, la classe, il pacifismo, l’anti-militarismo —, si sono trasformati in altrettanti fattori di debolezza del senso nazionale.

L’eruzione neo-rivoluzionaria e terzo-mondista del 1968 segnerà poi un’ulteriore eclisse, soprattutto fra i giovani e i cattolici, del senso e del valore dell’italianità, e la scomparsa dell’uniforme dalle strade delle città, la rarefazione degl’inni nazionali, la soppressione delle feste civili del Due Giugno e del Quattro Novembre e delle relative parate militari suoneranno come ulteriori segnali del suo appannamento. Solo eventi di eccezionale tragicità — ricordo l’ondata di commozione generale che, grazie anche all’allora recente mezzo televisivo, si levò nel 1961 in Italia allorché tredici nostri aviatori in missione ONU furono massacrati a Kindu, nel Congo ex belga, da guerriglieri anti-governativi — o eventi spettacolari altamente coinvolgenti, ma oggettivamente di basso profilo, come i confronti sportivi internazionali, serviranno a ravvivare, anche se in maniera transeunte, il senso e l’orgoglio di essere italiani.

Con il 1989 si apre una nuova fase d’impasse per la parabola discendente del senso nazionale, in quanto, nel radicale mutamento dello scenario internazionale, emergono soggetti e dinamiche nuovi — tali quanto meno perché “congelati” nell’era dei blocchi — e antagonistici: le religioni, i popoli, gl’imperi, le identità locali, le dinamiche economiche, fenomeni che propongono forme identitarie alternative e che lo Stato-nazione stenta sulle prime a comprendere e a governare. Per altro aspetto, l’evoluzione generale del pensiero occidentale verso il cosiddetto “pensiero debole” o una seconda fase della modernità detta anche “post-modernità” è poi un ulteriore fattore inibitorio, se non tout court di ostilità, verso sentimenti e stimoli culturali di loro necessariamente “forti”, come l’identità nazionale.

Nell’Italia di oggi l’identità nazionale — nonostante improvvise vampate di senso patriottico e nonostante gli sforzi di “manutenzione” di quanto sopravvive attuati dalla Presidenza della Repubblica — appare ormai patrimonio non effimero solo di una ridotta minoranza. La persistenza e il revival di consistenti residui delle ideologie internazionaliste nel movimento anti-globalizzazione, il riflusso nel privato, una trasformazione e conomico-sociale ininterrotta che coinvolge ceti e fasce di popolazione sempre più ampi, lo strapotere dei mezzi di comunicazione di massa, l’erosione scientifica della mitologia sottostante all’identità ufficiale, la violenza, e non di rado la sguaiataggine, del confronto politico: tutti questi elementi fanno sì che il senso identitario appaia oggi a un punto assai basso, mentre le “due nazioni” prima evocate sembrano più presenti e vitali che mai.

E questo non può non “fare” problema, perché, finita l’epoca dei blocchi, non ci si può più permettere di sorvolare sulla questione: l’immigrazione, l’Europa unita, il riassetto del mondo dopo il 1989, la guerra contro il terrorismo islamico sono tutte ragioni di una urgenza incalzante perché si esca da questa condizione di protratta debolezza e di conflittualità permanente.

Ma come fare per ridare efficacia all’essere italiani, oggi?

Premesso che vi è senz’altro più di un percorso attraverso il quale rivivificare l’italianità, quello che sembra un passaggio obbligato è una comune riflessione per rimetterne a fuoco l’essenza e per riformularne un’immagine valida non in astratto, ma in vista dell’agire, oggi e in futuro. Condizione per riflettere è “fare mente locale” e chinarsi sulla memoria. Non si tratta di un esercizio accademico, ergo sterile. Se per agire bene occorre essere “prudenti”, ossia possedere la virtù della prudenza — virtù eminentemente “politica”, cioè pratica —, questa, come insegna una dottrina antica, si fonda prima di tutto su un’immagine fedele e integra del passato.

Alla stessa stregua — almeno così accadeva in passato —, quando ci si trova davanti a una svolta della vita — e oggi vi sono tutti gli elementi per pensare che la nostra civiltà sia a una svolta — oppure allorché si deve intraprendere un’azione impegnativa, per esempio un viaggio lungo e difficile, si usa mettersi in pace con sé stessi e con Dio attraverso un “esame di coscienza” generale — uno scrutinio della memoria, appunto —, che possa preludere e giovare alla riconciliazione con chi eventualmente avessimo offeso.

Con questi due richiami “da catechismo” s’intende solo dire che se la riconquista dell’italianità rimanda alla memoria, questa va ricuperata in integro e, oltre a ciò, va anche vagliata e purificata da tutte le deformazioni e le scorie che possano averla sfigurata e appannata.

Alcuni si sono già incamminati in questa direzione: senz’altro lo ha fatto la Chiesa, anche in forme originali ed “estreme”, in nome dei cattolici di ogni epoca (12). E altri dovrebbero seguire questo esempio: abbiamo sotto gli occhi i frutti velenosi di una visione distorta dell’emancipazione umana, di quella modernità rivoluzionaria che ha seminato il mondo di rovine: dalle legioni di vittime del comunismo sovietico (13), all’abbrutimento di intere fasce sociali e generazionali, dai milioni di “non nati” alle aberrazioni morali che dilagano in maniera devastante. Se vogliamo ricuperare la memoria occorre ricuperarla tutta e riconoscere non solo i peccati dei credenti, ma anche il maligno influsso di questa “cattiva modernità” nel determinare la nostra vicenda nazionale.

Se la storia, la narrazione tematica del passato, è lo strumento principale per “lavorare” sulla memoria pubblica, al di là della sua correttezza metodologica e “tecnica”, per servire allo scopo, il lavoro dello storico mi pare debba sottostare ad alcune condizioni e richieda un ben preciso “spirito”. Fra le prime collocherei la spregiudicatezza, che fa sì che le convinzioni preesistenti, i valori professati non prevalgano su quanto i fatti evidenziano in maniera incontrovertibile. Oltre a ciò, il rifiuto dell’anacronismo o “primordialismo” (14), ovvero di quell’atteggiamento che giudica le epoche passate secondo criteri contemporanei e cerca a ogni costo di rinvenirvi realtà, che solo in epoche successive hanno preso corpo, e l’esempio della nazione è quello più calzante.

Riguardo allo “spirito”, con cui lo storico deve operare, mi pare obbligato il riferimento alla pietas classica, ossia quell’atteggiamento dell’animo che per i cristiani è al tempo stesso una virtù “naturale” e un dono dell’Altissimo. La teologia classica la definisce un’abitudine “[…] che ci inclina a tributare ai genitori, alla patria e a tutti coloro che stanno in relazione con essi l’onore e il servizio dovuto” (15). Se indosserà questo “abito”, nel chinarsi sulle memorie pa trie lo storico coltiverà un pre-giudizio favorevole verso gli antenati, si sforzerà di capire alla luce di quali valori ed esigenze essi operarono le loro scelte e in vista di quale bene, reale o presunto. E, per diametrum, eviterà invece di de-legittimarli a priori solo perché i loro atti sono situati nel passato e “acqua passata non macina più”.

Uno dei fattori di debolezza dell’identità italiana sta proprio nel fatto che la sua elaborazione si è fondata su una memoria pubblica ritagliata a seconda delle finalità politiche e ideologiche della minoranza al potere. Gli esempi sarebbero innumerevoli: dalla rimozione di quella enorme e fondamentale pagina della storia patria che è l’Insorgenza contro-rivoluzionaria del 1796-1814 — e dalla simmetrica cancellazione del “sangue dei vinti” del 1945 — alla damnatio memoriae dei regni pre-unitari, dall’emarginazione delle identità religiose alla tragedia dell’emigrazione e così via.

E non si è trattato solo di manipolazione dei contenuti, ma anche di carriere accademiche favorite da un lato e ostacolate dall’altro; dell’incensamento degli studiosi “amici”, anche se affetti da qualche limite scientifico (16), e del boicottaggio editoriale, che talora sconfina nella persecuzione personale, nei confronti degli storici “avversari” o poco corretti “politicamente”.

Lo storico, al contrario, non deve subire ipoteche o discriminazioni né nell’orientare le sue ricerche e nello sceglierne i temi, né nell’accedere alle fonti e né, infine, nel formulare le sue interpretazioni storiche, così come il suo successo e la sua carriera debbono risentire solo dei suoi meriti o demeriti personali.

Non vi sono, va sottolineato, pagine della memoria degl’italiani che debbano essere escluse a priori dalla formazione di una nuova identità nazionale, e questo vale tanto in positivo, quanto in negativo.

Sotto quest’ultimo aspetto, per esempio, la leggenda del “bono ’taliano”, del “soldato di pace”, del “mandolino del capitano”, della “foto della mamma nel taschino”, anche di recente riproposta, reggerebbe a un’indagine fredda e spassionata sul comportamento dell’esercito i taliano nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale? o in Abissinia nel 1935-1940? E se è vero che fino al 1943 gli ebrei europei cercavano di fuggire verso le zone di occupazione italiane in Francia e in Jugoslavia, perché di certo lì non avrebbero subito persecuzioni ma solo discriminazioni, si può dire che le deportazioni degli ebrei italiani dopo l’8 settembre 1943 non siano avvenute con la cooperazione, anche “volonterosa” di non pochi militi e funzionari di polizia “repubblichini”?

Questo lavoro sulla memoria, se riuscirà a descrivere, in modo relativamente integro e scevro da pregiudizi, chi sono gl’italiani servirà forse a favorire la riconciliazione degl’italiani di oggi con la loro storia e a ridurre, quanto meno, la tensione che ancora si sprigiona quando si parla in maniera non convenzionale di determinati argomenti, come dimostra il recente caso del volume di Giampaolo Pansa sui vinti della Repubblica fascista (17).

Giorni addietro, all’indomani del secondo attentato terroristico di Istanbul del novembre 2003, le televisioni ci hanno proposto le immagini della conferenza-stampa congiunta tenuta da George Walker Bush e da Tony Blair, che ribadiva il tenace vincolo che lega da decenni i due popoli in pace e in guerra. Eppure, alla fine del XVIII secolo e poi ancora all’inizio del XIX, questi due popoli hanno combattuto fra loro una guerra aspra e sanguinosa, che indubbiamente allora scavò un solco di odio fra le due comunità.

Proviamo a pensare a che cosa sarebbe successo se questo contenzioso fosse perdurato a oltranza: quanti eventi storici non vi sarebbero stati o avrebbero assunto una forma diversa, dalla prima e dalla seconda guerra mondiale, alla guerra del Golfo, all’attuale conflitto iracheno?

Affermando che non si può restare per sempre legati a conflitti, pur a loro tempo giusti, del passato non si vuole però portare acqua a nessun mulino relativista — se il nemico di ieri può diventare l’amico di domani, allora perché combatterlo? —: se nella storia i ruoli possono invertirsi e il giudizio storico fa fatica certe volte ad orientarsi davanti ad analogie apparentemente sconcertanti, occorre tenere presente che vi sono criteri extra storiografici, come il buon senso, l’etica, il bene comune, che prevarranno sempre, in ultima analisi, sulle diverse visioni che si affrontano.

Un ruolo-chiave nella prospettiva “ricostruttiva” — e non solo “estetica” — che ho tentato di descrivere può essere ricoperto proprio dal senso comune, una realtà che non è facile da definire e che si rileva più facilmente in negativo o in controluce, che però pare il solo elemento che possa aiutare a ricomporre le diverse visioni del mondo e della storia che il pluralismo culturale odierno moltiplica, consentendo d’individuare al loro interno un minimum comune di mete, d’ideali e di principi, pur nella diversità delle prospettive…

Tutto quanto ho detto potrebbe parere solo un’astratta petizione di principio e qualcuno potrebbe chiedersi: ma vi è ancora una “materia”, una base anche sociologica, sulla quale ricostruire un senso di appartenenza comune, il senso dell’italianità?

La risposta che mi sento di dare, pur fra mille doverosi “se” e “ma” — non per malintesa prudenza, ma per la tuttora persistente oscurità del soggetto — mi pare possa essere positiva. Eventi ancora recenti — che non sono nulla più che sussulti, ma, come si sa, se un malato sussulta, vuol dire che quanto meno è ancora vivo — hanno confermato l’esistenza residuale di uno “zoccolo duro”, di un’area della società italiana, grosso modo coincidente con quella “moderata”, in cui, nonostante il pluridecennale e gramsciano processo di demolizione e di “riformattazione” della “retta ragione”, tuttora sopravvivono, se non un connettivo solido, almeno principi e barlumi di volontà di conservare un senso identitario nazionale integro. E di questo nucleo incomprimibile riaffiora — la tragedia di Nassirya, anche se per un momento, lo ha rivelato — anche la componente più forte e genuina, quello che ho definito il cuore dell’identità culturale italiana: il dato religioso, nonché — e forse è questa la novità più stimolante — il maggior calore o la minor freddezza con cui le gerarchie cattoliche sembrano recepire questo oggettivo ritorno del dato religioso al centro della vita nazionale, cui si accompagna, sull’altro versante, la riscoperta che la comunità dei credenti e la sua gerarchia non sono privi di responsabilità riguardo alla vicenda della nazione nel suo complesso. Certamente questo spazio si presta alle manipolazioni identitarie meno avvertibili e forse, paradossalmente, a quelle più suscettibili di divenire oggetto di affetto, ma è più facile, credo, fare un discorso sul tema “de vera identitate“, che non su quello su “an sit identitas“…

Oscar Sanguinetti

***

(1) Per esempio nel volume Lo Stato nazionale, 1958, il Mulino, Bologna 1997.

(2) Cfr., per esempio, le considerazioni di Giorgio Rumi nel suo saggio — pur limitato dall’assunzione di un punto d’osservazione solo lombardo — I poteri del re. La Corona, lo Statuto e la contestazione cattolica. 1878-1903, in Loreto Nucci ed Ernesto Galli Della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003 (Atti del convegno della Fondazione Agnelli Due nazioni? Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Torino, 11/12-10-2001), pp. 93-106. Sulla persistenza della frattura — meno rilevante forse oggi nel “paese legale”, che non in quello “reale” — val la pena segnalare che uno dei tre assi del Progetto Culturale che la Conferenza Episcopale Italiana propone alla Chiesa in Italia ha come titolo Identità nazionale, identità locali, identità cristiana; cfr. Conferenza Episcopale Italiana-Servizio Nazionale per il Progetto Culturale, Tre proposte per la ricerca. Sussidi, Roma, dicembre 1998, scaricabile dal sito <http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/bd_edit_doc.edit_documento?p_id=2884&id_

sessione=&pwd_sessione=>; e Eadem e Associazioni Teologiche Italiane, Identità nazionale, culturale e religiosa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999 (Atti del seminario di studio omonimo, Roma, 9/10-10-1998).

(3) Un’accurata e letterariamente pregevole analisi di questo processo generale si può trovare nel volume di Anne Marie Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, trad. it., il Mulino, Bologna 2001.

(4) Cfr. L. Di Nucci ed E. Galli Della Loggia (a cura di), Introduzione, in op. cit., pp. 7-16 (p. 11).

(5) Scrive a questo proposito il professor De Marco: “Il Risorgimento e la costruzione unitaria possono ben essere presentati come una rivoluzione moderata, addirittura come un’antirivoluzione. Ma le ideologie risorgimentali furono rivoluzionarie nell’espellere dalla storia fondante, quindi dalla cifra identitaria della “nuova Italia”, l’Italia moderna, ovvero l’Italia cattolica, controriformistica, barocca; talora anche la umanistico-rinascimentale. In questo atto eversivo — cui contribuisce il cattolicesimo liberale — si consuma la prima ed essenziale impossibilità di costruzione di un’identità patria nell’Italia unita” (Pietro De Marco, Alle radici di un sentimento spento, il patriottismo. Cattolici e comunisti non possono capire o condividere la Patria: questo è vero e non è vero, ne il Foglio quotidiano, 15-11-2003).

(6) Cfr. Luciano Cafagna, Legittimazione e delegittimazione nella storia politica italiana, in L. Di Nucci ed E. Galli Della Loggia (a cura di), op. cit., cit., pp. 17-40 (p. 17).

(7) Cfr. “I popolari rappresentano una fase necessaria del processo di sviluppo del proletariato italiano verso il comunismo. Il cattolicesimo democratico fa ciò che il comunismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida. I popolari stanno ai socialisti come Kerensky a Lenin” (Antonio Gramsci, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 256-257).

(8) Cfr. Vittorio Gorresio, Risorgimento scomunicato, 1958, Bompiani, Milano 1977.

(9) Cfr. Ernst Renan, Che cos’è una nazione, 1882, trad. it., Donzelli, Roma 1998.

(10) Cfr. E. Galli Della Loggia, Gli stupri di Esperia. Non li ricordate? Non li ricorda neppure la Storia, in Sette. Supplemento del Corriere della Sera, n. 43, 23-10-2003, p. 17.

(11) Su quest’ultimo punto cfr., fra gli altri, Giorgio Pisanò (1924-1997) e Paolo Pisanò, Il triangolo della morte. La politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile, Mursia, Milano 1998; nonché [Don] Mino Martelli (1913-?) Una guerra e due resistenze. 1940-1946. Opere e sangue del clero italiano nella guerra e nella resistenza su due fronti, 3a ed., Edizioni Paoline, Bari 1977.

(12) Il vaticanista Luigi Accattoli ha redatto un elenco puntiglioso di tutte le numerose occasioni in cui il Papa ha domandato perdono per i peccati di cattolici prima del Giubileo del 2000 (cfr. Luigi Accattoli, Quando il papa chiede perdono. Tutti i mea culpa di Giovanni Paolo II, Leonardo Mondadori, Milano 1997). Sulle richieste di perdono del 2000, cfr. in particolare il documento della Commissione Teologica Internazionale, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, in L’Osservatore Romano, 8-3-2000.

(13) Cfr. Maximilien De Santerre, Il loro nome è legione. Dodici anni nell’Unione sovietica tra i delinquenti comuni, trad. it., Edizioni del Borghese, Milano 1963.

(14) Cfr. sul tema, fra gli altri, l’interessante saggio del professore dell’Università di Sidney Nicholas Doumanis, Italy, Collana Inventing the Nation, Arnold-Oxford University Press, Londra-New York 2001, passim (p. es. p. 11).

(15) Cfr. Antonio Royo Marín OP, Teologia della perfezione cristiana, trad. it., 6a ed., Paoline, Roma 1965, p. 673.

(16) Ricordo, in piccolo, la disinvoltura nel trattare le fonti riscontrabile in un Luigi Salvatorelli (1886-1974): cfr. Marco Invernizzi, Fatima, chiave di lettura del Novecento, in Annali Italiani. Rivista di studi storici, anno II, n. 3, Milano gennaio-giugno 2003, pp. 97-110 (pp. 103-104, nota 12). Il riferimento è a L. Salvatorelli, Storia del Novecento, 4 voll., Mondadori, Milano 1975, vol. III, La prima guerra mondiale, p. 584.

(17) Cfr. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano 2003.

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