Massimo Introvigne, Cristianità n. 358 (2010)
A partire dal 2009 si vengono moltiplicando volumi e articoli che riguardano mons. Marcel Lefebvre (1905-1991) e i problemi da lui sollevati in ordine al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Alcune di queste pubblicazioni non provengono dall’interno della FSSPX, la Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da mons. Lefebvre, ma da cattolici che da una parte dichiarano la loro fedeltà a Papa Benedetto XVI, dall’altra in qualche modo rivalutano sia mons. Lefebvre sia la sua critica del Concilio. Il mondo stricto sensu accademico ha dato per ora uno scarso contributo, anche se per il ventennale della morte del presule, nel 2011, si annunciano diverse iniziative e convegni (1). La ragione di questa fioritura di pubblicazioni, che potrebbe apparire improvvisa — mons. Lefebvre è morto, appunto, da vent’anni —, sta nel nuovo interesse che circonda la FSSPX dopo la remissione della scomunica da parte di Papa Benedetto XVI ai quattro vescovi consacrati da mons. Lefebvre nel 1988, e scomunicati appunto insieme a lui e al vescovo brasiliano co-consacrante, mons. Antonio de Castro Mayer (1904-1991).
Il gesto di generosità con cui Papa Benedetto XVI nel 2009 ha rimesso tale scomunica è stato interpretato da molti come un avallo alle posizioni dottrinali sul Concilio della stessa Fraternità, che ora sarebbe possibile sostenere rimanendo nella Chiesa Cattolica. Non è così, ha precisato il Pontefice. Occorre non confondere il piano disciplinare con quello dottrinale. “La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale. Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri — anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica — non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa” (2). E i problemi dottrinali che non hanno ancora trovato quella soluzione in assenza della quale i vescovi e sacerdoti della Fraternità “[…] non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa”, “[…] sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi” (3).
Ci si chiede spesso qual è la posizione di Alleanza Cattolica sul tema, e l’occasione è propizia per precisarla. Da un certo punto di vista, la questione è mal posta. Alleanza Cattolica si definisce come un’agenzia il cui primo scopo è quello di studiare e di diffondere la dottrina sociale naturale e cristiana. Tanto più su temi che così strettamente attengono alla vita della Chiesa, Alleanza Cattolica non ha dunque una “sua” posizione. Si sforza semplicemente, nei limiti delle sue capacità, di comprendere l’insegnamento del Magistero e — così come ritiene di averlo compreso — di diffonderlo. Alleanza Cattolica esprime tuttavia — fra le varie scuole che legittimamente hanno concorso nella storia, interagendo con il Magistero, alla formazione del patrimonio noto come dottrina sociale della Chiesa — una preferenza per la scuola detta contro-rivoluzionaria, la quale prende nome dall’opposizione dei suoi primi esponenti alla Rivoluzione Francese, senza però identificarsi né con una mera nostalgia né con un’apologia acritica dei regimi europei precedenti la Rivoluzione, e senza che la sua nozione di Rivoluzione — intesa come processo di scristianizzazione dell’Occidente un tempo cristiano, e di attacco all’equilibrio fra fede e ragione faticosamente raggiunto — si limiti al solo episodio del 1789. Alleanza Cattolica ha anche una storia, nel corso della quale ha prima incontrato mons. Lefebvre e poi deciso — nel 1981, sette anni prima della scomunica che lo avrebbe colpito nel 1988 — d’interrompere ogni forma di collaborazione con lui e con la Fraternità da lui fondata, non condividendone alcune fondamentali posizioni relative in particolare proprio al Concilio Ecumenico Vaticano II.
Vale dunque la pena — a beneficio anzitutto, ma non esclusivamente, di chi si è accostato solo recentemente ad Alleanza Cattolica — prima di ripercorrere le tappe di questa storia, quindi di esporre quanto Alleanza Cattolica ritiene di avere compreso dal Magistero in tema di Concilio Ecumenico Vaticano II e, dunque, diffonde ad intra e ad extra.
1. Un po’ di storia
Una visione della storia che è al centro del pensiero della scuola contro-rivoluzionaria e che è passata — certo non letteralmente né senza mediazioni — nel Magistero, dalle encicliche Diuturnum (4) e Immortale Dei (5) di Papa Leone XIII (1878-1903) (6) fino all’enciclica Spe salvi (7) di Papa Benedetto XVI, descrive la scristianizzazione dell’Europa e dell’Occidente come un processo — chiamato appunto Rivoluzione — le cui tappe salienti sono la Riforma protestante, la Rivoluzione Francese e il comunismo, cui si è aggiunta nel secolo XX la rivolta contro la morale che ha avuto il suo momento vessillare nel 1968. Ognuno dei momenti in cui si articola quel processo di secolarizzazione e di scristianizzazione, che la scuola contro-rivoluzionaria chiama appunto Rivoluzione, non è sostenuto solo da nemici aperti della Chiesa e del cristianesimo ma anche, per usare le parole di Papa Benedetto XVI nel suo viaggio del 2010 in Portogallo, da “[…] credenti che si vergognano e che danno una mano al secolarismo” (8). Nello stesso viaggio, a proposito del messaggio di Fatima, Papa Benedetto XVI ha rilevato con parole che sarebbe riduttivo riferire al solo caso delle infedeltà al loro sacerdozio dei preti pedofili, peraltro anch’esse parte del problema, che nella storia “[…] non solo da fuori vengono attacchi al Papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa. Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici di fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa” (9).
L’azione dei “credenti che si vergognano” non è semplicemente individuale, ma si organizza in correnti e movimenti. Così, vi è anzitutto un’importazione di princìpi e temi del protestantesimo all’interno della Chiesa, il giansenismo. Le teorie dell’illuminismo e della Rivoluzione Francese sono fatte proprie da diverse correnti cattoliche, dal cattolicesimo liberale al modernismo. Il comunismo trova un corrispondente all’interno della Chiesa nella teologia della liberazione, che il 5 dicembre 2009 Papa Benedetto XVI, ricordando il venticinquesimo anniversario dell’istruzione Libertatis nuntius, da lui stesso firmata nel 1984 come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (10), ha definito la “[…] assunzione acritica fatta da alcuni teologi di tesi e metodologie provenienti dal marxismo” (11), affermando che “le sue conseguenze più o meno visibili fatte di ribellione, divisione, dissenso, offesa, anarchia si fanno sentire ancora oggi creando […] grande sofferenza” (12). Lo stesso “rapidissimo cambiamento sociale” (13) e la contestazione di ogni forma di morale iniziati negli anni 1960 hanno avuto come controparte ecclesiastica “[…] la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo” (14), per non parlare dei cedimenti sui temi della vita e della famiglia di tanti laici cattolici impegnati in politica.
In ogni grande assise o evento cattolico emergono fatalmente diverse posizioni, ivi comprese quelle dei “credenti che si vergognano”, sia in forma individuale sia nella forma organizzata di gruppi e teologie che cedono a questa o a quella fase del processo rivoluzionario. Dal momento che queste tendenze sono presenti anche fra vescovi e teologi, non è sorprendente che si manifestino pure in occasione di concili ecumenici. Durante il Concilio Ecumenico Vaticano II un gruppo di vescovi e padri conciliari che intendevano vigilare nei confronti di queste posizioni, di cui faceva parte mons. Lefebvre, costituì il Coetus Internationalis Patrum idem in re teologica ac pastorali sentientium. Il Coetus — nelle cui attività un laico, il pensatore contro-rivoluzionario brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), ebbe un ruolo di rilievo quanto all’elaborazione dottrinale e non solo quanto agli aspetti organizzativi e logistici (15) —, come emerge dagli studi che cominciano a occuparsene, non intendeva svolgere un’opposizione, neppure “di sua maestà”, contro il Concilio, ma contribuire — in dialogo, talora anche serrato e polemico, con altre componenti dell’assise conciliare — a che i documenti fossero redatti in un modo il più possibile chiaro e privo di ambiguità. Su molti punti, alcuni rilievi del Coetus furono accolti e il suo contributo alla versione finale dei documenti — che tutti gli esponenti del Coetus che erano padri conciliari, compreso mons. Lefebvre, firmarono (16) — non va sottovalutato.
Né va trascurato il fatto che — seppure non sia stato la personalità di maggiore spicco nel Coetus e, com’è stato notato, “nelle opere consacrate ai protagonisti del Concilio Vaticano II che cercano d’identificare i leader dei gruppi influenti, mons. Lefebvre non è mai menzionato” (17) — mons. Lefebvre è stato con qualche ragione definito l’unico fra gli esponenti del Coetus che “[…] vede chiaramente” (18) il ruolo preponderante assunto dai media nella presentazione del Concilio. Con i media, mons. Lefebvre “[…] giocherà con maestria” (19), instaurando una complessa e bilaterale relazione con i giornalisti — dal canto loro naturalmente inclini a dare spazio a chi esprime giudizi più tranchant — che finirà per imporlo all’opinione pubblica come “il capo dei tradizionalisti”, un ruolo che non sarebbe stato del tutto giustificato dal suo operato al Concilio paragonato a quello di altri presuli (20).
Giovanni Cantoni fonda l’associazione che assumerà più tardi il nome Alleanza Cattolica nel 1960. L’interesse per i testi classici della dottrina sociale della Chiesa e il punto di riferimento privilegiato che trovano negli scritti di Corrêa de Oliveira portano i primi membri dell’associazione a seguire con simpatia le attività del Coetus, quindi a frequentare con crescente assiduità mons. Lefebvre. Questa simpatia — nel caso personale di mons. Lefebvre — era alimentata dal ruolo positivo e per certi versi esemplare che il presule francese aveva svolto nella sua carriera di missionario in Africa — riconosciuto dal venerabile Papa Pio XII (1939-1958), che lo aveva elevato prima ad arcivescovo di Dakar e poi a delegato pontificio per tutta l’Africa francofona —, e dalla sua coraggiosa difesa del movimento contro-rivoluzionario francese La Cité Catholique quando questo era stato violentemente attaccato da vescovi e da giornali cattolici di orientamento progressista in occasione di eventi collegati alla crisi dell’Algeria francese del 1958 (21).
L’amicizia e la collaborazione si approfondirono negli anni 1970, con l’ingresso di aspiranti al sacerdozio provenienti da Alleanza Cattolica nel seminario della FSSPX a Ecône, in Svizzera, e con la partecipazione regolare di soci di Alleanza Cattolica a turni di Esercizi Spirituali predicati da sacerdoti della stessa Fraternità. La cordialità dei rapporti — di cui posso dare, dal 1972 in poi, personale testimonianza fondata su reiterati incontri con mons. Lefebvre — non implicava, per la verità, una totale identità di vedute. Un problema di fondo riguardava il radicamento di mons. Lefebvre in quella che sociologi francesi chiamano “civilisation paroissiale” (22): una cristianità eminentemente clericale, dove non solo nulla si fa senza il vescovo, secondo la massima ricavata da sant’Ignazio d’Antiochia (35 ca.-107/113) “nihil sine Episcopo” (23), ma nulla si fa neppure senza il parroco, il curato e forse il sagrestano. Ne deriva una sottovalutazione del ruolo dei laici che avrà un rilievo, anche se non ne sarà l’unica causa, nelle rotture degli anni 1970 e 1980 fra mons. Lefebvre e le due principali realtà mondiali che rappresentavano nel secolo XX la scuola cattolica contro-rivoluzionaria, cui pure il vescovo francese era sinceramente affezionato e con i cui fondatori aveva a lungo collaborato: la TFP, la Società Brasiliana di difesa della Tradizione Famiglia e Proprietà di Corrêa de Oliveira, e le varie associazioni fondate da Jean Ousset (1914-1994) come eredi de La Cité Catholique. In un documento a circolazione interna del 1990 la FSSPX condannerà le “[…] tendenze nefaste dell’Apostolato dei laici all’indipendenza rispetto all’autorità ecclesiastica […] tutti i movimenti che hanno voluto svolgere il compito dei preti senza stare sottomessi a questi ultimi hanno dato qualche speranza all’inizio ma hanno poi tutti deviato nei compromessi e poi nella dottrina […] la TFP in Brasile, […] la Cité catholique di Jean Ousset” (24).
L’ideale della Contro-Rivoluzione, cui anche Alleanza Cattolica si richiama, aveva — molto prima del Concilio Ecumenico Vaticano II — attribuito ai laici un ruolo nella restaurazione di una civiltà cristiana ben più centrale di quello che avevano in mente per loro gli abbé, tanto buoni quanto clericali, della civilisation parroissiale della Belle Époque. E un certo clericalismo sarà sempre una pietra d’inciampo pure nei rapporti fra mons. Lefebvre e personaggi come Corrêa de Oliveira e Ousset, sospettosi nei confronti di possibili prevaricazioni del clero sui laici e sulla direzione di associazioni laicali e semmai esponenti di quello che lo storico René Remond (1918-2007), certo con una formula volutamente paradossale, ha chiamato “anticlericalismo cattolico di destra” (25).
Un secondo elemento di dissenso di Alleanza Cattolica — e di Corrêa de Oliveira — rispetto a mons. Lefebvre riguardava il giudizio sul movimento monarchico francese Action Française, che il futuro vescovo aveva imparato ad apprezzare sia in famiglia sia da Henri Le Floch C.S.Sp. (1862-1950), superiore del Seminario Francese di Roma, dove aveva studiato. Passa da padre Le Floch — e rimane incomprensibile senza la sua influenza — tutto un filone di “destra cattolica” francese, che non seguirà peraltro in toto mons. Lefebvre dopo il Vaticano II, e che è fortemente critico nei confronti della decisione di Papa Pio XI (1922-1939) di rendere pubblica nel 1926 la condanna dell’Action Française, che il Sant’Uffizio aveva pronunciato nel 1914 con un decreto che Papa san Pio X (1903-1914) aveva confermato ma aveva ordinato di non pubblicare per ragioni di opportunità politica. Conseguenza di questa condanna sono fra l’altro, nel 1927, le dimissioni di padre Le Floch, appunto in quanto sostenitore dell’Action Française, da rettore del Seminario Francese di Roma.
Certamente, nel contesto politico del 1926 si possono trovare elementi per sostenere che la decisione di Papa Pio XI non fu politicamente lungimirante, e non ebbe conseguenze particolarmente favorevoli sul corso della politica francese. La mia impressione personale, fondata pure su colloqui sul punto che ebbi molti anni fa con il presule francese, è che mons. Lefebvre non sia però mai arrivato a distinguere — e con lui tanta “destra cattolica” francese — fra tre elementi diversi: la decisione di Papa Pio XI e la sua opportunità — o inopportunità — politica; l’applicazione davvero eccessiva della decisione da parte di vescovi francesi che giunsero a negare i sacramenti e perfino la sepoltura in terra consacrata a militanti dell’Action Française che erano personalmente buoni cattolici; e le ragioni dottrinalmente impeccabili — già precisate, anche se non pubblicate, al tempo di Papa san Pio X — della condanna, riferita a posizioni filosofiche e di critica della religione esposte in opere del fondatore e dirigente dell’Action Française Charles Maurras (1868-1952) certamente inaccettabili per un cattolico, che pure coesistono negli scritti del pensatore monarchico francese con considerazioni politiche conformi alla dottrina sociale della Chiesa e spesso ispirate da un solido buon senso (26). A tanti anni di distanza, la vicenda sembra non essere stata ancora metabolizzata da coloro che si considerano eredi di padre Le Floch, fra i quali — per di più — non manca chi, rivendicando giustamente l’importanza della “scuola di pensiero contro-rivoluzionaria” (27), ne propone una genealogia che dai padri fondatori, il conte Joseph de Maistre (1753-1821) e il barone Louis de Bonald (1754-1840), arriva a Maurras passando per il fondatore del positivismo filosofico Auguste Comte (1798-1857) (28).
L’autore che fa riferimento a questa sequenza storica, il saggista Jean Madiran, sostiene che vi sono “due scuole contro-rivoluzionarie in Francia” (29), una più orientata alla politica e non necessariamente cattolica, che comprenderebbe appunto a pieno titolo Comte e Maurras — anzi, “[…] la corrente intellettuale della Contro-Rivoluzione è stata quasi interamente assorbita per mezzo secolo dalla scuola maurrasiana” (30) —, e una più religiosa, integralmente cattolica. La sintesi fra le due scuole contro-rivoluzionarie sarebbe stata effettuata da un pensatore contro-rivoluzionario del secolo XX, Jean Ousset. Le due scuole, secondo Madiran, “[…] diventano una sola nella, e a causa della, Cité catholique di Jean Ousset” (31), ma gli storici accademici non se ne rendono conto perché “[…] ignorano l’importanza insieme politica e religiosa dell’opera di Jean Ousset” (32). Nei limiti di un articolo, peraltro ampio (33), spero di aver iniziato a colmare questa lacuna. Trovo però significativo che un testo come quello di Madiran unisca all’apologia di mons. Lefebvre un’affermazione della centralità, per comprendere le polemiche in corso fra scuole di pensiero cattoliche e fra diverse “destre” in Francia, del giudizio su Maurras — il quale dovrebbe prendere un posto centrale in un albero genealogico contro-rivoluzionario che arriva fino allo stesso mons. Lefebvre (34) — e una definizione della scuola contro-rivoluzionaria che cerca di mettere insieme la linea non cattolica Comte-Maurras (35) e quella cattolica fedele al Magistero. Alleanza Cattolica si è sempre definita contro-rivoluzionaria, ma ha pure sempre ritenuto che non vi sia Contro-Rivoluzione al di fuori di un rapporto di fedeltà senza ambiguità al Magistero cattolico.
Queste divergenze non erano in verità di semplice dettaglio, e talora emergevano per così dire allo scoperto. Tuttavia, fra Alleanza Cattolica e mons. Lefebvre gli elementi di convergenza sembravano più cruciali e importanti di quelli di dissenso, a fronte di un progressismo postconciliare che negli anni 1970 sembrava esercitare una sorta di dittatura nei seminari, nelle università e nella cultura cattolica in generale. Anche alcune intemperanze verbali di mons. Lefebvre, che pure lasciavano perplessi, sembrarono così giustificate dagli oggettivi scandali del progressismo dominante.
Nel corso degli anni 1970 — meglio, nella loro seconda parte — inizia però un processo in cui la posizione di mons. Lefebvre si modifica e s’irrigidisce. Originariamente, dopo il Concilio, il presule francese si era posto nella posizione di chi — perplesso di fronte all’interpretazione dominante dei documenti conciliari e a talune riforme — poneva domande all’autorità superiore, cioè — in ultima istanza — al Papa. Gradualmente — ma, una volta iniziato il processo, inesorabilmente — mons. Lefebvre passa dal porre le domande al dare egli stesso le risposte, e a concludere che fra i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II e la Chiesa di quel Concilio e delle riforme postconciliari, da una parte, e dall’altra la Tradizione cattolica e i Concili e il Magistero precedente non vi è continuità ma inconciliabilità e rottura. Per quanto riguarda Alleanza Cattolica, assume un valore emblematico la decisione di mons. Lefebvre di reiterare le cresime, conferite secondo il rito riformato dopo il Concilio, dubitando della loro validità. Argomentando, nel 1981, che il mancato riconoscimento delle cresime rischia di configurare la FSSPX non come pars Ecclesiae ma come Chiesa alternativa, Alleanza Cattolica decide — non senza sofferenza, dopo lunghi anni segnati anche da tante amicizie personali — d’interrompere ogni rapporto di collaborazione con mons. Lefebvre.
Da allora — mentre le vicende successive sembrano avere confermato i timori espressi nel 1981 da Alleanza Cattolica — fra l’associazione e la FSSPX non vi sono più stati rapporti di collaborazione di alcun tipo, anche se non è mai venuta meno la preghiera al Signore perché, per le strade e con i tempi che Egli solo conosce, si restauri nella Chiesa la piena unità cum Petro et sub Petro (36). La questione delle cresime — peraltro fondamentale — aveva del resto natura emblematica. Le questioni di fondo venute a maturazione nel 1981 riguardavano in primo luogo il Concilio Ecumenico Vaticano II e in secondo la riforma liturgica del servo di Dio Paolo VI (1963-1978). Di questi temi intendo ora trattare brevemente.
2. L’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II
Vorrei cominciare da un punto su cui non vi è dissenso fra Alleanza Cattolica e coloro che oggi “rivalutano” mons. Lefebvre. Non vi è dubbio che gli anni del postconcilio siano stati anni di crisi per la Chiesa Cattolica. I dati quantitativi sono perfino ovvi per i sociologi. Sono diminuiti in modo drammatico — almeno in Europa e in Occidente — i sacerdoti, le vocazioni, i religiosi, le religiose, le offerte e i praticanti. Il dato quantitativo è reso più drammatico dal dato qualitativo, in ordine al quale sarebbe sufficiente l’impietosa diagnosi del 1981 del Papa Giovanni Paolo II: “Bisogna ammettere realisticamente e con profonda e sofferta sensibilità che i cristiani oggi in gran parte si sentono smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi. Si sono sparse a piene mani idee contrastanti con la Verità rivelata e da sempre insegnata; si sono propalate vere e proprie eresie, in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni, ribellioni, si è manomessa anche la Liturgia” (37).
Nella storica intervista Rapporto sulla fede rilasciata nel 1985 al giornalista italiano Vittorio Messori il card. Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e oggi Papa Benedetto XVI, dichiarava: “È incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa Cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti […]. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza. […] Vie sbagliate […] hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative” (38).
Del resto, già il servo di Dio Papa Paolo VI si era espresso nel 1972 in termini drammatici: “[…] da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio […]. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di buio, di ricerca, di incertezza” (39). Un’espressione forte e giustamente famosa, quella relativa al “fumo di Satana”, spesso accostata a quella non meno dura di “autodemolizione” (40) della Chiesa — “[…] come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio” (41) – utilizzata dallo stesso servo di Dio Papa Paolo VI nell’anno fatidico 1968, dopo l’esplosione pubblica e clamorosa del dissenso di teologi di diversi Paesi contro la sua enciclica Humanae vitae (42).
Vi è dunque un consenso che va dai sociologi alle massime autorità della Chiesa. Gli anni postconciliari sono stati “decisamente sfavorevoli per la Chiesa Cattolica”. Non è su questo punto, dunque, che vi fu e vi è dissenso fra Alleanza Cattolica e la FSSPX. Il dissenso verte su quale risposta dare alla domanda che dà il titolo a un’opera influente del filosofo cattolico statunitense Ralph McInerny (1929-2010) sul postconcilio negli Stati Uniti d’America: Vaticano II. Che cosa è andato storto? (43). Anche qui — nello spirito auspicato da Papa Benedetto XVI di un impegno nei confronti dei seguaci di mons. Lefebvre “[…] per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile” (44) — non è inopportuno procedere partendo da elementi su cui non vi è vero dissenso, per far poi emergere senza reticenze il dissenso reale.
Non vi è dissenso sul fatto che del Concilio Ecumenico Vaticano II sia a lungo prevalsa un’interpretazione nei termini di quella che Papa Benedetto XVI chiama una “ermeneutica della discontinuità e della rottura” (45), che interpreta i testi conciliari non alla luce della Tradizione precedente, ma contro quella stessa Tradizione. Non si è trattato di posizioni estemporanee di qualche teologo, ma di una vera e soffocante egemonia. Come ha affermato monsignor Guido Pozzo, segretario della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, questa interpretazione del Vaticano II, questa “[…] ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, […] si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso” (46).
Appena a un anno dalla chiusura del Concilio, nel 1966, il servo di Dio Papa Paolo VI mette in guardia contro l’errore “[…] di supporre che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch’esso sia tale novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseudo-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato, e perciò consenta di proporre al dogma cattolico nuove e arbitrarie interpretazioni, spesso mutuate fuori dell’ortodossia irrinunciabile, e di offrire al costume cattolico nuove ed intemperanti espressioni, spesso mutuate dallo spirito del mondo; ciò non sarebbe conforme alla definizione storica e allo spirito autentico del Concilio, quale lo presagì Papa Giovanni XXIII. Il Concilio tanto vale quanto continua la vita della Chiesa” (47). E nel discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del 23 giugno 1972 lo stesso Pontefice denuncia “[…] una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto” (48).
Il “fin dal principio” di monsignor Pozzo — confermato dai tempestivi interventi del servo di Dio Papa Paolo VI — permette di notare che il problema non riguarda solo l’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II dopo il Concilio ma anche durante la stessa assise conciliare. L’ecclesiastico italiano denuncia in effetti “[…] l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti” (49). Il teologo cattolico statunitense Richard John Neuhaus (1936-2009) ha ricostruito come — grazie in particolare al ruolo dell’IDOC, l’International Documentation on the Catholic Church, originariamente un servizio d’informazione sul Concilio per la stampa olandese divenuto con il tempo una struttura permanente capace d’influenzare il modo in cui il Concilio era percepito dalla stampa mondiale, e di alcuni grandi media statunitensi — i documenti erano sempre presentati come immancabili sconfitte dei “conservatori” e vittorie dei “progressisti”, qualunque fosse effettivamente il loro contenuto (50). Non si tratta dunque soltanto di distinguere fra il Concilio e la sua interpretazione, ma fra tre elementi distinti: i documenti, l’interpretazione e l’evento storico Vaticano II, la cui percezione è stata influenzata in modo decisivo dai media.
Ogni generazione ha la naturale ma fallace tendenza a considerare gli accadimenti che la coinvolgono come unici e privi di precedenti nella storia. L’impressione secondo cui il Vaticano II e il relativo postconcilio siano unici nella storia per le controversie cui hanno dato luogo non regge all’esame storico. Non a caso Papa Benedetto XVI ha evocato per ben due volte, riferendola al dopo-Vaticano II, “[…] la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio [330-379], fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea [del 325]: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l’altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …” [S. Basilii Magni, De Spiritu Sancto, XXX, 77: PG 32, 213 A]“ (51).
Né, aggiunge Papa Benedetto XVI, si tratta solo di Nicea: “Poi 50 anni dopo, per il Concilio primo di Costantinopoli [381], l’imperatore invita San Gregorio Nazianzeno [329 ca.-390] a partecipare al Concilio e San Gregorio Nazianzeno risponde: No, non vengo, perché io conosco queste cose, so che da tutti i Concili nasce solo confusione e battaglia, quindi non vengo. E non è andato” (52). Nulla di nuovo, dunque, se non fosse che né a Nicea né a Costantinopoli vi erano il New York Times o le reti televisive statunitensi, e dunque per altro verso qualche cosa di nuovo al Vaticano II vi è stato: il ruolo dei media internazionali, con le relative evidenti possibilità di manipolazione.
Si può dunque concordare sul fatto che la crisi postconciliare ha fra le sue cause l’egemonia della “ermeneutica della discontinuità e della rottura” e il modo con cui l’evento-Concilio fu presentato e quindi percepito “fin dal principio”. Il dissenso riguarda i documenti conciliari. Questi documenti sono parte del problema o — interpretati secondo “il corretto punto di vista, dunque, [che] è quello della Tradizione della fede apostolica“ (53) — potrebbero e dovrebbero diventare parte della soluzione?
La risposta del Magistero, che insegna e afferma chiaramente la seconda alternativa, non implica che tutti i testi del Concilio siano scritti nel modo migliore e più chiaro possibile. Lo stesso card. Joseph Ratzinger ha notato più volte come in alcuni documenti conciliari, in particolare nella Gaudium et Spes (54), il punto di riferimento sia una sociologia tipica degli anni 1960 ingenuamente ottimista sulle sorti della modernità, che oggi appare datata ma che all’epoca indusse anche negli estensori dei padri conciliari una certa “euforia” (55). Lo stesso card. Ratzinger osservava che i testi del Vaticano II corrispondono ciascuno a un diverso “genere letterario” (56): quando riassume lo stato della sociologia dell’epoca un documento conciliare ha una natura diversa rispetto a quando espone la dottrina cattolica o fornisce indicazioni pastorali a tutta la Chiesa.
Lo stesso brano del card. Ratzinger, tuttavia, precisa: “Questo però non significa che il tutto debba essere retrocesso al rango di edificante non vincolante. I testi, ciascuno secondo il suo genere letterario, avanzano una pretesa seria davanti alla coscienza dei cristiani” (57). Papa Benedetto XVI condanna sia il “progressismo sbagliato” (58) che legge il Vaticano II come un nuovo inizio in rottura con tutto il Magistero precedente, sia l’“anti-conciliarismo” (59) che, rifiutandone i documenti in quanto si opporrebbero alla Tradizione, finisce paradossalmente per adottare la stessa ermeneutica della discontinuità e della rottura. Sia il “progressismo sbagliato” sia l’“anticonciliarismo” affermano che fra i documenti del Vaticano II e la Tradizione del Magistero precedente vi sono discontinuità e inconciliabilità. Gli uni applaudono, gli altri deplorano, ma il punto di vista è lo stesso, ed è opposto a quello di Papa Benedetto XVI.
Su questo punto la posizione di Alleanza Cattolica, che spera di aver ben compreso il Magistero, è sempre stata, e dev’essere, enunciata in modo chiaro e senza ambiguità. L’ermeneutica della discontinuità, sia nella forma progressista sia nella forma “anticonciliarista”, non può essere accettata e fatta propria in coscienza da nessun cattolico cui sia cara la sua fede. La FSSPX — e altri — affermano che, trattandosi di un Concilio “pastorale” che non ha voluto enunciare definizioni infallibili, potrebbe essere ammesso che i suoi documenti insegnino errori o anche vere e proprie eresie senza danno ecclesiologico rilevante. Oggi però siamo di fronte a cinquant’anni di pastorale — ma anche di documenti magisteriali — di cinque diversi Pontefici che hanno incessantemente annunciato il Concilio e si sono presentati come “Papi del Concilio”. Se cinque Papi, per cinquant’anni, avessero costantemente insegnato, con il sostegno di quasi tutti i vescovi del mondo, una pastorale la cui stessa architettura e i cui princìpi sono eretici, allora le porte dell’Inferno avrebbero prevalso sulla Chiesa.
È assolutamente inverosimile immaginare che il Magistero possa aprire un pubblico processo ai testi del Vaticano II che porti a una loro escissione dal corpus magisteriale cattolico. Nella storia della Chiesa, ma anche nel funzionamento di qualunque organizzazione sociale non disfunzionale, non si procede in questo modo. I testi sono inseriti nel corpus precedente e con questo — ove necessario — resi coerenti per via d’interpretazione, non ne sono separati per escissione ed eliminazione. La prima è la via indicata da Papa Benedetto XVI. La seconda sembra quella prevalente fra gli ammiratori di mons. Lefebvre.
I Pontefici successivi hanno mantenuta ferma la posizione esposta dal servo di Dio Paolo VI: “Vi è chi si domanda quale sia l’autorità, la qualificazione teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai suoi insegnamenti, sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti l’infallibilità del magistero ecclesiastico. E la risposta è nota per chi ricorda la dichiarazione conciliare del 6 marzo 1964, ripetuta il 16 novembre 1964: dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti” (60). Sbaglia, affermava il teologo, poi cardinale, Leo Scheffczyk (1920-2005), chi mette “[…] accanto al magistero infallibile un cosiddetto magistero fallibile, cosicché la fallibilità apparterrebbe a tale magistero quasi come un attributo permanente” (61).
Posto che il Magistero invoca molto raramente la sua infallibilità, e normalmente richiede l’assenso dei fedeli nei confronti della sua espressione in forma “autentica”, da parte dei dissidenti “si costruisce l’equazione: infallibilità è impossibilità di errore, autenticità invece è capacità di errore, e perciò anche incertezza e di per sé più esposta al rifiuto” (62). Mentre i teologi dissidenti dal Concilio Ecumenico Vaticano I contestavano la nozione stessa d’infallibilità, i dissidenti — progressisti o “anticonciliaristi” — del dopo-Vaticano II se ne fanno scudo per dichiarare che nell’insegnamento della Chiesa, tranne il pochissimo che è infallibile, tutto il resto è “fallibile” e si ha quindi il diritto di rifiutarlo. Beninteso, “[…] secondo le regole della conoscenza questa equazione non è ammissibile” (63) e il Magistero, così, “[…] avrebbe perduto il suo significato” (64). Al contrario, anche il Magistero ordinario “[…] autentico […] [è] rivestito dell’autorità di Cristo” (65) e pertanto l’assenso è obbligatorio.
Né il card. Scheffczyk in questo brano né il Magistero — e certamente non Alleanza Cattolica o chi scrive — hanno mai sostenuto che tutto il contenuto dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II e del Magistero post-conciliare è infallibile. Non è certamente così. Il problema è se tutto quanto nel Magistero non è infallibile possa essere prima confinato in una sfera del “fallibile”, quindi dichiarato semplicemente “fallito” e dunque rifiutato. Così il progressismo procede — è l’esempio del card. Scheffczyk — per l’enciclica Humanae vitae, e così — simmetricamente — l’”anticonciliarismo” procede per i testi del Concilio Ecumenico Vaticano II sull’ecumenismo, la libertà religiosa o l’esegesi biblica. Chi contesta questo modo di procedere è poi accusato — maliziosamente — di volere dilatare in modo improprio la sfera dell’infallibilità: mentre il problema riguarda precisamente l’assenso dovuto al Magistero ordinario autentico anche quando questo cade al di fuori di questa sfera.
Si obietta da alcuni che non è sufficiente affermare che i documenti del Concilio devono essere interpretati secondo la Tradizione. L’affermazione ha senso solo se questa interpretazione è possibile. Se fosse assolutamente impossibile, l’indicazione di Papa Benedetto XVI sarebbe priva di oggetto. L’obiezione ha riguardo a diversi documenti, ma la pietra d’inciampo principale nei colloqui che a diverse riprese prima e dopo la morte di mons. Lefebvre ci sono stati fra Santa Sede e FSSPX riguarda la libertà religiosa, da cui discendono diverse altre questioni. È dunque a tale questione che farò ora brevemente cenno.
3. La questione della libertà religiosa
Il problema della libertà religiosa riveste, nella polemica di mons. Lefebvre nei confronti del Vaticano II, un ruolo non meno importante di quello della riforma liturgica post-conciliare. Nell’enciclica Libertas di Papa Leone XIII si condanna “[…] quella che chiamano libertà di culto, tanto contraria alla virtù della religione. Essa ha questo fondamento: ciascuno è libero di professare la religione che gli piace, o anche di non professarne alcuna” (66). Questo insegnamento — ribadito in altri testi dello stesso Pontefice — è coerente con quello del predecessore di Papa Leone XIII, il beato Papa Pio IX (1846-1878), esposto in particolare nell’enciclica Quanta Cura (67) e nel Sillabo (68), entrambi del 1864. Si afferma che sarebbe in contrasto, invece, con la dichiarazione Dignitatis humanae (69), del 1965, del Concilio Ecumenico Vaticano II, la quale riconosce la libertà religiosa come diritto fondamentale della persona fondato sulla stessa natura umana.
Nel discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, fondamentale per tutta la questione dell’interpretazione dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, Papa Benedetto XVI ammette una “apparente discontinuità” (70) in tema di libertà religiosa, ma spiega che questa discontinuità, se e dove vi è, non si riferisce ai princìpi ma alla loro applicazione alle forme storiche concrete, che mutano nel tempo mentre i princìpi non possono mutare. Infatti, “[…] i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro.
“Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l’uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza.
“Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento” (71).
Sbagliano dunque secondo Papa Benedetto XVI quanti — per applaudirlo, nel caso dei progressisti, o per rifiutarlo, come fanno gli “anticonciliaristi” — pensano che il Concilio con la Dignitatis humanae abbia voluto proclamare princìpi opposti a quelli del beato Papa Pio IX e di Papa Leone XIII. L’insegnamento di questi Pontefici, secondo cui una libertà di religione considerata non come mera “necessità sociale” per la pace e il bene comune in determinati contesti politici ma “elevata a livello metafisico” è del tutto inaccettabile e merita di essere condannata, non è affatto stato modificato dal Concilio, e rimane pienamente valido ancora oggi.
Come precisa la Congregazione per la Dottrina della Fede in una lunga lettera del 1987 a mons. Lefebvre, che aveva sollevato una serie di dubbi sul tema — una lettera privata che non è espressione di Magistero ma è autorevole per la fonte da cui proviene —, la Dignitatis humanae in diversi passaggi si riferisce non a qualunque forma di Stato teoricamente possibile ma allo Stato laico moderno. Interpretare diversamente questi passaggi sarebbe contrario ai lavori preparatori richiamati da tale corrispondenza e anche alla logica. Lo Stato laico moderno non è l’unico Stato che la storia ha conosciuto e con cui la Chiesa si è dovuta confrontare. Altro è riconoscere l’esistenza di uno speciale rapporto di collaborazione con la Chiesa, e quindi una qualche competenza a occuparsi pure di questioni religiose, a un san Luigi IX re di Francia (1214-1270), altro è concedere gli stessi riconoscimenti a un Barack Obama. La dichiarazione del Vaticano II non induce a credere che Obama sia preferibile a san Luigi IX, né afferma che lo Stato laico moderno sia preferibile ad altre forme di Stato del passato: “[…] DH [Dignitatis Humanae] non implica neppure una disapprovazione della condotta seguita in passato da alcuni principi cristiani, la cui valutazione storica è complessa” (72).
La Dignitatis humanae proclama, già nei suoi passaggi iniziali, che “[…] poiché la libertà religiosa, che gli uomini esigono nell’adempiere il dovere di onorare Dio, riguarda l’immunità della coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina cattolica tradizionale sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (73). Papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate ha ribadito che “la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali” (74). Il diritto alla libertà religiosa sancito dalla Dignitatis humanae non è un diritto positivo ma negativo, e si configura tecnicamente come una “immunità”. Il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni, è stato fra i primi a illustrare questo significato negativo, e non positivo, della nozione di libertà religiosa della Dignitatis humanae, e la sua natura giuridica d’immunità (75), così certamente preservando i suoi lettori — primi fra tutti i soci di Alleanza Cattolica — da equivoci altrove fin troppo diffusi.
Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 — che è insieme il catechismo del Concilio Ecumenico Vaticano II e uno strumento interpretativo dei testi conciliari — afferma che “il diritto alla libertà religiosa non è né la licenza morale di aderire all’errore, né un implicito diritto all’errore, bensì un diritto naturale della persona umana alla libertà civile, cioè all’immunità da coercizione esteriore, entro giusti limiti, in materia religiosa, da parte del potere politico” (76).
Nella Relatio de textu emendato presentata ai Padri conciliari si spiegava che “[…] la parola diritto può essere intesa in un duplice significato. Nel primo significato per diritto s’intende la facoltà morale di compiere qualcosa, la facoltà cioè con cui qualcuno ha intrinsecamente la positiva autorizzazione […] ad agire. Nella Dichiarazione [Dignitatis Humanae] non è utilizzato in questo senso […]. Nel secondo significato si dice diritto la facoltà morale di esigere di non essere costretto ad agire, né di essere impedito a farlo. Nel qual senso diritto significa l’immunità nell’agire ed esclude la coercizione sia costringente che impediente. È dunque in questo secondo senso che si intende diritto nella Dichiarazione” (77).
La Congregazione, che cita questo brano, ricorda a mons. Lefebvre che la Commissione Conciliare competente aveva anche precisato che “da nessuna parte si afferma né è lecito affermare (si tratta di cosa evidente) che c’è un diritto di diffondere l’errore. Se poi le persone diffondono l’errore, non è l’esercizio di un diritto, ma il suo abuso” (78). Commenta la Congregazione: “In effetti il diritto alla libertà religiosa, intesa come immunità civile e sociale dalla coazione in materia religiosa, non implica alcun diritto né autorizzazione a diffondere l’errore” (79). “[…] DH non afferma affatto che la propagazione degli errori sia un bene. Quello che è bene è che esista nella società civile [moderna] un grado di autonomia giuridica in materia religiosa compatibile con l’ordine e la moralità pubblica” (80).
Certamente nella Dignitatis humanae rispetto al beato Papa Pio IX e a Papa Leone XIII vi è una differenza terminologica. Il Magistero precedente parla di “tolleranza religiosa”, il Concilio di “libertà religiosa”. La scelta fra i due termini fu oggetto fra i Padri conciliari di lunghe discussioni, con speciale riferimento alle encicliche di Papa Leone XIII Libertas e Immortale Dei e “[…] cercando esplicitamente [una] continuità con il Magistero anteriore” (81). Nella Relatio de textu priore queste discussioni sono riassunte così: “Ci sono alcuni che dubitano della stessa formula “libertà religiosa” e pensano che in questa materia non possiamo trattare che della “tolleranza religiosa”” (82). Alla fine si decise — non senza dubbi — per la formula “libertà religiosa”, per due ragioni. Anzitutto, la dottrina giuridica non utilizzava più da anni la formula “tolleranza religiosa” come “notio formaliter iuridica” (83), “nozione tecnicamente giuridica”, mentre la nozione di “libertà religiosa” nel diritto nazionale di diversi Paesi e in quello internazionale aveva un senso preciso e non necessariamente ideologico: “Se il destinatario del nostro discorso è la società moderna, dobbiamo adottare la sua terminologia” (84). In secondo luogo, cosa ancora più importante, i Padri conciliari volevano affermare con forza di fronte alle possibili pretese dello Stato laico moderno che il diritto all’immunità dalla coercizione in materia di religione “[…] si fonda nella natura della persona umana, che tutti devono rispettare” (85) a prescindere e prima delle leggi positive, e non si riduce a una semplice “tolleranza” che lo Stato laico moderno avrebbe il diritto di concedere o negare — com’è appunto tipico della nozione di “tolleranza” — a suo libito.
Certamente non è questa la sede per risolvere la questione della corretta interpretazione della dichiarazione Dignitatis humanae, una delle discussioni più complesse fra le tante dove le due diverse ermeneutiche — della continuità con la Tradizione e della rottura — lottano a proposito del Concilio Ecumenico Vaticano II. I cenni che ne abbiamo dato sono sufficienti a mostrare qual è la posizione che sul problema di una presunta differenza di princìpi fra la Dignitatis humanae e il Magistero precedente hanno assunto la Congregazione per la Dottrina della Fede e Papa Benedetto XVI. A proposito delle scelte terminologiche del Concilio certo non si è obbligati a credere che siano sempre state le più felici o le migliori possibili. E certamente la presentazione della Dignitatis humanae già nei giorni del Concilio e tanto più dopo il Concilio è quasi sempre avvenuta all’insegna di quella che Papa Benedetto XVI chiama “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, con pochissime eccezioni.
Tuttavia, secondo il Magistero contemporaneo, da Papa Leone XIII al Concilio non sono mutati i princìpi, ma le situazioni storiche cui i princìpi si applicano e che ne determinano le “forme concrete” (86) di espressione. L’ideologia della libertà religiosa, intesa in senso positivo come diritto dell’errore con conseguente “canonizzazione del relativismo” (87), condannata dal beato Papa Pio IX e da Papa Leone XIII, resta altrettanto condannata dal Concilio e da Papa Benedetto XVI. Una libertà religiosa intesa invece in senso negativo come immunità dall’ingerenza dello Stato laico moderno, di cui i cittadini di questo particolare tipo di Stato debbono godere nella formazione e nell’esplicitazione delle loro scelte religiose, rappresenta una “forma concreta” nuova nel Magistero della Chiesa a fronte di circostanze storiche mutate. Ma Papa Benedetto XVI ci assicura che — ove sia rettamente interpretata e presentata, il che purtroppo nella confusione postconciliare non è avvenuto spesso — non è in contrasto con il Magistero precedente.
Il fatto che lo stesso Papa Benedetto XVI abbia notato qui una “apparente discontinuità” (88) conferma che chi pone domande e nota l’esistenza di problemi non ha torto. A queste domande si deve però rispondere nel senso dell’“ermeneutica del rinnovamento nella continuità” (89). Occorre leggere il testo conciliare non isolatamente, ma alla luce del Magistero precedente e delle precisazioni successive, andando se necessario al di là dell’apparenza. In questo senso, la Congregazione per la Dottrina della Fede scriveva a mons. Lefebvre che in tema di libertà religiosa “[…] l’insegnamento del Vaticano II è perfettamente compatibile con l’insegnamento di Leone XIII” (90).
4. La questione della liturgia
Qualche volta i media riducono il pluridecennale contenzioso fra la FSSPX e la Santa Sede alla questione della “Messa in latino”. La lingua latina — pure non irrilevante — non è certamente il fattore principale: si tratta, semmai, del rito detto di san Pio V (1566-1572) che è contrapposto a quello detto del servo di Dio Paolo VI, introdotto nel 1969. Il rito detto di Paolo VI è sempre stato pacificamente celebrato anche in lingua latina, ma il semplice uso del latino non ha mai soddisfatto la FSSPX, che ha visto nelle formule stesse della nuova Messa ambiguità ed errori, tanto che mons. Lefebvre la definì “la Messa di [Martin] Lutero [1483-1546]“ (91). In realtà, come ha notato Papa Benedetto XVI, “tutti sappiamo che, nel movimento guidato dall’Arcivescovo Lefebvre, la fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di questa spaccatura, che qui nasceva, si trovavano però più in profondità” (92). Il problema centrale non era la riforma — postconciliare — della liturgia, ma “il carattere vincolante del Concilio Vaticano II” (93).
Alleanza Cattolica, associazione di laici, non ha come vocazione quella di occuparsi specificamente di questioni liturgiche. Tuttavia, l’esistenza nella Chiesa Cattolica dopo la riforma del 1969 di una “questione liturgica” non poteva lasciare indifferente Alleanza Cattolica e presenta evidenti collegamenti con molte altre problematiche. “Nel rapporto con la liturgia — scriveva l’allora card. Ratzinger — si decide il destino della fede e della Chiesa. Così la questione liturgica ha acquistato oggi un’importanza che prima non potevamo prevedere” (94). Lo stesso card. Ratzinger ha usato ripetutamente a proposito della “questione liturgica” espressioni che non mancano di sottolinearne la gravità: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia” (95); “[…] resta da vedere sino a che punto le singole tappe della riforma liturgica dopo il Vaticano II siano state veri miglioramenti o non, piuttosto, banalizzazioni; sino a che punto siano state pastoralmente sagge o non, al contrario, sconsiderate” (96); “[…] i brividi che incute la liturgia postconciliare, fattasi opaca […] con il suo gusto per il banale e con la sua mediocrità artistica, non chiariscono la questione [della musica sacra] […]. Comunque stiano le cose, le esperienze degli ultimi anni hanno messo in evidenza che il ripiegamento sull’usuale non ha reso la liturgia più aperta, ma solo più povera” (97).
In stretta obbedienza alle norme e prescrizioni delle autorità della Chiesa — dopo il 2007, in particolare, al Motu proprio Summorum Pontificum (98), di Papa Benedetto XVI, che ha accolto con gioia e gratitudine —, e in quanto queste prescrizioni e norme lo consentano, Alleanza Cattolica cerca di trasmettere ai propri soci e amici la sensibilità per la liturgia e l’amore per il grande patrimonio di fede e di cultura veicolato dalla lingua latina e dalla liturgia nella forma detta di san Pio V del Rito Romano, sforzandosi di proporla nei suoi incontri quando questo appaia possibile e opportuno, in via peraltro non esclusiva.
Anche laici privi di competenze liturgiche — fra i quali mi rubrico senza reticenze — possono oggi ricavare dal Magistero alcune indicazioni essenziali e del tutto prive di ambiguità. Anzitutto, Papa Benedetto XVI insegna che nel periodo successivo alla riforma del servo di Dio Papa Paolo VI “[…] in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa” (99). Non siamo in disaccordo con alcuno — e certamente non con il Papa — sul fatto che ci siano state e continuino “deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile”, e qualche volta anche oltre il limite. Coloro che erigono inventari di queste deformazioni possono poi talora presentarli in modo impropriamente aggressivo nei confronti dell’autorità ecclesiastica, ma purtroppo raramente inventano i fatti.
In secondo luogo, chiarendo una problematica ormai antica lo stesso Papa Benedetto XVI precisa a proposito dell’ultimo Messale relativo alla Messa detta di san Pio V, quello promulgato dal beato Papa Giovanni XXIII (1958-1963) nel 1962, che “[…] questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso” (100). Chi, dopo il Motu proprio del 2007 e la lettera del Pontefice che lo accompagna, continua a sostenere che il Messale del 1962 fu “abrogato” o “vietato”, e che in linea di principio la celebrazione di Messe con tale Messale continua a dover essere sempre autorizzata dal vescovo, o non ha letto i documenti o — se li ha letti — disubbidisce al Papa. “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso” (101).
In terzo luogo, il Magistero, con Papa Benedetto XVI, insegna che “[…] il Messale, pubblicato in duplice edizione da Paolo VI e poi riedito una terza volta con l’approvazione di Giovanni Paolo II, ovviamente è e rimane la forma normale — la forma ordinaria — della Liturgia Eucaristica” (102), rispetto alla quale il Messale latino del 1962 configura una “[…] forma extraordinaria della Celebrazione liturgica. Non è appropriato parlare di queste due stesure del Messale Romano come se fossero “due Riti”. Si tratta, piuttosto, di un uso duplice dell’unico e medesimo Rito” (103).
Anche su questo punto non vi può essere spazio per ambiguità. Si ha certamente diritto di preferire la “forma extraordinaria”, convinti e consapevoli che “ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dar loro il giusto posto” (104). Vi è però una condizione sine qua non: “Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso” (105). Non si tratta di escludere che singole comunità religiose possano testimoniare, in una Chiesa dove la nuova Messa rimane “la forma normale”, il loro amore per la Messa tradizionale con una scelta monoritualista, celebrando cioè la sola “forma extraordinaria”, non però in quanto auto-autorizzate ma con il permesso dell’autorità ecclesiastica, che è stato concesso per esempio all’Istituto del Buon Pastore. Né naturalmente è illecito interrogarsi sugli effetti negativi della riforma del 1969, auspicando una “riforma della riforma”.
La “riforma della riforma” non potrà però che venire dalla Chiesa e dal Papa. Anche le comunità monoritualiste, se vogliono essere fedeli al Magistero, non possono escludere la celebrazione della nuova Messa “in linea di principio”, e debbono riconoscere non solo “il valore” ma anche “la santità del nuovo rito”. Non basta riconoscere che la nuova Messa è valida. Occorre ammettere con piena convinzione che chi partecipa alla Messa nuova — s’intende celebrata con fedeltà alle indicazioni della Chiesa, senza abusi, con la dovuta devozione — si santifica. In effetti, la Chiesa ha già beatificato persone che hanno testimoniato la fede in modo e grado eroico alimentandola con la frequenza quotidiana alla nuova Messa. Come rimanere in comunione con la Chiesa dichiarando che la Messa che quattro Papi hanno celebrato quotidianamente, cui la beata Madre Teresa di Calcutta (1910-1997) ha assistito quotidianamente per ventisette anni, che il beato Jerzy Popieluszko (1947-1984) ha celebrato dall’ordinazione al martirio sia la “Messa di Lutero”?
5. Vaticano II e modernità
Nel discorso del 2006 a Ratisbona (106) il Pontefice propone un giudizio sui momenti centrali della modernità: Martin Lutero, l’illuminismo, le ideologie del XX secolo. In ciascuno di questi momenti Papa Benedetto XVI distingue un aspetto esigenziale dove vi è qualche cosa di condivisibile — la reazione al razionalismo rinascimentale per Lutero, la critica del fideismo e la rivalutazione della ragione nell’illuminismo, il desiderio di affrontare i problemi e le ingiustizie causate dalle trascrizioni sociali e politiche dell’illuminismo per le ideologie novecentesche — e un esito finale catastrofico dove, ogni volta, si butta via il bambino con l’acqua sporca e si propongono rimedi peggiori dei mali che si dichiara di voler curare. Così Lutero insieme al razionalismo butta via la ragione, smantellando la sintesi di fede e di ragione che aveva dato vita alla cristianità medievale. L’illuminismo per rivalutare la ragione la separa radicalmente dalla fede, diventa laicismo e finisce per compromettere l’integrità stessa di quella ragione che voleva salvare. Le ideologie del secolo XX, criticando l’idea astratta di libertà dell’illuminismo, finiscono per mettere in discussione l’essenza stessa della libertà, trasformandosi in macchine sanguinarie di tirannia e di oppressione. Nella modernità, dunque, a esigenze o istanze dove non tutto è sbagliato corrispondono esiti o risposte che partono da gravi errori e si risolvono in drammatici orrori.
Papa Benedetto XVI è tornato su questo tema che gli è caro nel corso del viaggio del 2010 in Portogallo, proprio affrontando ancora una volta il tema del Concilio Ecumenico Vaticano II. Si dice, senza sbagliare, che il Concilio si fece carico della modernità. Ma questo significa che il Concilio accolse le istanze del moderno oppure che condivise anche le risposte dell’ideologia della modernità a queste istanze? Nel primo caso il Concilio può essere letto alla luce della Tradizione della Chiesa, che — dal Concilio di Trento (1545-1563), il quale si confrontò con le domande poste da Lutero dando però risposte totalmente diverse, fino a Papa Leone XIII, di cui ricorre nel 2010 il secondo centenario della nascita, di fronte alle ideologie nascenti — ha sempre accolto le istanze proposte dalla storia trovando nel suo patrimonio gli elementi per farvi fronte. Nel secondo caso il Vaticano II sarebbe invece un’innovazione radicale, un cedimento della Chiesa all’ideologia della modernità, una rivolta contro la Tradizione della Chiesa. L’“ermeneutica della discontinuità e della rottura” avrebbe ragione.
Ha affermato Papa Benedetto XVI il 12 maggio 2010 a Lisbona che nel Concilio Ecumenico Vaticano II “[…] la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita” (107). Il Pontefice invita dunque a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le “istanze”, di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore — ma superandole —, e gli “errori e vicoli senza uscita” in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole.
Le quattro espressioni che Papa Benedetto XVI ha usato a Lisbona — “prende sul serio e discerne, trasfigura e supera” — per descrivere il rapporto fra il Vaticano II e le domande poste dalla modernità non sono scelte a caso, e tracciano la strada maestra per un’interpretazione e un’applicazione del Concilio alla luce di “una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica” su cui, con l’aiuto di Dio e sotto la guida del Magistero, Alleanza Cattolica desidera incamminarsi. Anzitutto, il Concilio “prende sul serio” le domande poste dalla modernità. Di questo, al Concilio si deve essere grati. Sbagliano gli “anticonciliaristi” se pensano che queste domande avrebbero potuto essere semplicemente ignorate. Le domande ci sono, “là fuori”, che ci piaccia o no. Chiudere le finestre non le fa venire meno. Ignorarle o non rispondere significa privarsi dell’opportunità di evangelizzare uomini segnati da queste domande — nulla di diverso è la “nuova evangelizzazione” — e dunque privare la Chiesa della sua dimensione missionaria nell’Occidente segnato dalla modernità.
Assumere questa dimensione significa invece fornire non solo un contesto di riferimento, ma anche indicazioni operative per la nuova evangelizzazione, rifiutando nell’anti-conciliarismo un “[…] conservatorismo [che] non è il contrario del progressismo, ma una cronolatria coniugata al passato anziché al futuro” (108), e — così leggendo, nel caso di specie, il termine “conservatore” — affermando del Concilio con il card. Ratzinger che “[…] il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”” (109). Alleanza Cattolica fu certamente aiutata a comprendere questo “concetto […] “missionario”” da una riflessione, stimolata dal pontificato del venerabile Papa Giovanni Paolo II, su come il Concilio era stato presentato e vissuto — diversamente da quanto era per lo più avvenuto nell’Europa Occidentale e nell’America del Nord — in Polonia. Lì i documenti conciliari erano stati intesi prevalentemente in un modo non dialettico ma organico rispetto al Magistero precedente, nella prospettiva di una grande missione popolare contro la scristianizzazione promossa dal regime comunista, lungo le linee esposte dal card. Karol Wojtyla nel suo volume Alle fonti del rinnovamento. Studio sull’attuazione del Concilio Vaticano II (110). Fra le indicazioni offerte dal Concilio alla nuova evangelizzazione rientrano l’inquadramento dell’apostolato dei laici e il riconoscimento della loro libertà di associazione del decreto conciliare Apostolicam actuositatem (111), il quale fornisce un quadro preciso anche per associazioni come Alleanza Cattolica, che a tale decreto si sente particolarmente legata.
Il Concilio, però, secondo l’espressione di Benedetto XVI “discerne” le domande della modernità. Può darsi che la modernità le abbia formulate in modo malizioso, come domande che già orientano a una certa risposta. In questo caso la Chiesa scarta le formulazioni capziose e accoglie solo “il meglio delle istanze della modernità”: dunque, non le accoglie tutte. Il Concilio bene interpretato, poi, “trasfigura” questa parte migliore delle istanze moderne, nel senso che ne cambia la figura elevandola a una dimensione qualitativamente superiore. Così facendo, separa le domande legittime — non tutte quelle poste dalla modernità lo sono, solo quelle che fanno parte del “meglio” — da un qualunque possibile legame necessario con le risposte fornite dall’ideologia del moderno, che è sfociata in “errori e vicoli senza uscita”. Qualche volta, per “trasfigurarle”, le domande hanno dovuto essere perfino “ricreate”. E, come prospettiva finale, il Concilio le “supera”: cioè si pone su un piano diverso non quanto alle istanze, ma quanto alle risposte, che non va a cercare nelle ideologie moderne ma nella “rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica”.
A chi obietta che questo non è il Concilio Ecumenico Vaticano II come lo interpretano tanti teologi cattolici rispondiamo con serenità che è il Concilio come lo interpreta il Papa, e questo ci basta. Può darsi che qualcuno obietti che non è neppure il Concilio come lo interpretavano maestri del pensiero contro-rivoluzionario che ad Alleanza Cattolica sono cari, a partire — ma non si tratta del solo caso — dal già citato Corrêa de Oliveira. Sia il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni (112), sia chi scrive (113) hanno espresso l’opinione che i giudizi molto duri sul Vaticano II del pensatore brasiliano facciano riferimento al Concilio come evento storico, e in particolare a un’omissione, quella della condanna del comunismo, più che ai documenti conciliari. Chi ha la bontà di leggere questi testi può constatare che si tratta di opinioni argomentate e fondate su un’ampia serie di scritti e di documenti di Corrêa de Oliveira.
Anche a causa di divisioni sopravvenute fra i discepoli dopo la sua morte, la controversia sull’esatta interpretazione del pensiero dell’illustre autore brasiliano rimane vivace. Alleanza Cattolica non pretende di detenere la verità ultima su questa interpretazione. Pensa però che qualunque maestro, per quanto entusiasmanti siano le sue pagine migliori e grande la riconoscenza nei suoi confronti, debba essere interpretato ed eventualmente corretto alla luce del Magistero, e non viceversa. Per quanto Alleanza Cattolica sia affezionata alla scuola contro-rivoluzionaria, sappiamo bene che è il Magistero a operare la sintesi e a discernere fra le scuole. Nessuna scuola giudica il Magistero. Al contrario, il Magistero le giudica tutte.
Corrêa de Oliveira chiude la sua opera principale, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, che rimane un testo di riferimento per Alleanza Cattolica e che fu pubblicata per la prima volta nel 1959, sotto il pontificato del beato Papa Giovanni XXIII, come numero speciale della rivista brasiliana Catolicismo, con queste parole, riprese in tutte le edizioni successive del testo: “Non vorremmo considerare concluso questo studio senza un omaggio di filiale devozione e di ubbidienza illimitata al “dolce Cristo in terra“, colonna e fondamento infallibile della Verità, Sua Santità Papa Giovanni XXIII. “Ubi Ecclesia ibi Christus, ubi Petrus ibi Ecclesia“. Al Santo Padre si rivolge dunque tutto il nostro amore, tutto il nostro entusiasmo, tutta la nostra devozione. Con questi sentimenti, che ispirano tutte le pagine di Catolicismo dalla sua fondazione, abbiamo creduto di dover pubblicare anche questo studio. Nel nostro cuore non abbiamo il minimo dubbio sulla verità di ognuna delle tesi che lo compongono. Tuttavia le sottomettiamo senza restrizioni al giudizio del Vicario di Gesù Cristo, disposti a rinunciare senza esitazione a qualsiasi di esse, se s’allontana, anche lievemente, dall’insegnamento della santa Chiesa, nostra Madre, Arca della Salvezza e Porta del Cielo” (114).
Senza avere né l’autorità né la presunzione di poter decidere noi chi è o chi non è contro-rivoluzionario, ci permettiamo però di esprimere forti dubbi sul fatto che chi non è disposto a sottoscrivere queste parole e a viverle possa dirsi esponente di una scuola che fin dalle sue origini ha fatto della fedeltà al Papa e al Magistero la bussola per orientarsi nelle incertezze e nelle confusioni della modernità. Certamente, non può far parte di Alleanza Cattolica. Viva il Papa!
Note:
(1) Un’opera accademica di qualche ambizione è stata pubblicata nel 2010 dal professor Philippe Levillain, emerito presso l’Università Paris-Ouest-Nanterre-La Défense e membro del Pontificio Comitato di Scienze Storiche: Rome n’est plus dans Rome. Mgr Lefebvre et son église, Perrin, Parigi 2010. L’autore ha potuto consultare un certo numero di archivi e di documenti inediti e alcune sue osservazioni non sono prive di acume, ma nuoce all’opera — non esente anche da errori di fatto — un pregiudizio cattolico-democratico che si esprime in giudizi di valore che non dovrebbero essere tipici della storiografia accademica. Ne cito un solo esempio: “Tranne che dai suoi parenti, dai collaboratori, dai fedeli e dagli ammiratori indiretti mons. Lefebvre è stato sempre considerato nel corso di tutta la sua vita una persona poco affidabile e anche piuttosto antipatica” (ibid., p. 177).
(2) Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla remissione della scomunica ai quattro presuli consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, del 10-3-2009, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. V, 1, 2009. (Gennaio-Giugno), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, pp. 356-362 (p. 358).
(3) Ibidem.
(4) Cfr. Leone XIII, Epistola encyclica “Diuturnum illud” de politico principatu, del 29-6-1881, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 3, Leone XIII. (1878-1903), ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1997, pp. 170-195.
(5) Cfr. Idem, Epistola encyclica “Immortale Dei” de civitatum constitutione christiana, del 1°-11-1885, ibid., pp. 330-375.
(6) Cfr. il mio La dottrina sociale di Leone XIII, Fede & Cultura, Verona 2010.
(7) Cfr. Benedetto XVI, Lettera enciclica “Spe salvi” sulla speranza cristiana, del 30-11-2007.
(8) Idem, Incontro con i Vescovi del Portogallo nel Salone delle Conferenze della Casa Nossa Senhora do Carmo di Fatima, del 13-5-2010, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 14/15-5-2010.
(9) Idem, Incontro di Benedetto XVI con i giornalisti durante il volo verso Lisbona, dell’11-5-2010, ibid. 13-5-2010.
(10) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su alcuni aspetti della “teologia della liberazione” “Libertatis nuntius”, del 6-8-1984, in Enchiridion Vaticanum, vol. 9, Documenti Ufficiali della Santa Sede. 1983-1985, testo ufficiale e trad. it., EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1987, pp. 866-987.
(11) Benedetto XVI, Ai presuli delle regioni SUL 3 e SUL 4 della Conferenza Episcopale del Brasile in visita ad Limina, del 5-12-2009, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. V, 2, 2009. (Luglio-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, pp. 655-657 (p. 657).
(12) Ibidem.
(13) Idem, Lettera ai cattolici dell’Irlanda, del 19-3-2010, n. 4, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 20-3-2010.
(14) Ibidem.
(15) Cfr. Luc Perrin, Il “Coetus Internationalis Patrum” e la minoranza conciliare, in Maria Teresa Fattori e Alberto Melloni (a cura di), L’evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del concilio Vaticano II, il Mulino, Bologna 1997, pp. 173-187; e Rodrigo Coppe Caldeira, Os baluartes da tradição. A antimodernidade católica brasileira no Concilio Vaticano II, tesi di dottorato, Universidade Federal de Juiz de Fora, Juiz de Fora (Minas Gerais) 2009.
(16) Dal momento che sussistono discussioni sulla firma apposta da mons. Lefebvre alla costituzione Gaudium et spes e alla dichiarazione Dignitatis humanae, preciso che la firma del presule in calce a entrambi i documenti è riportata in Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Vaticani II, vol. IV, periodus IV, pars VII, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1978, p. 809, rigo 10.
(17) P. Levillain, op. cit., p. 204.
(18) Ibid., p. 218.
(19) Ibid., p. 219.
(20) Sul punto il giudizio espresso da P. Levillain, ibid., appare condivisibile; un giudizio simile era stato enunciato da Giovanni Cantoni all’indomani della scomunica di mons. Lefebvre, nel 1988, rilevando che “il protagonismo del presule francese — recepito ed esaltato dai mass media […] — ha finito per far passare in secondo piano prima tutte le altre opposizioni gerarchiche ad abusi interpretativi e applicativi [del Concilio] — sia quelle velate che quelle esplicite —, quindi le reazioni non clericali, omogeneizzando e monopolizzando in un ipotetico “fronte anticonciliare” ogni espressione di difficoltà e di disagio” (G. Cantoni, “Tu es Petrus”, in Cristianità, anno XVI, n. 158-160, giugno-luglio-agosto 1988, pp. 3-6 e 19 [p. 5]).
(21) Cfr. il mio Jean Ousset e La Cité Catholique. A cinquant’anni da “Pour qu’Il Règne“, in Cristianità, anno XXXVIII, n. 355, gennaio-marzo 2010, pp. 9-61.
(22) Cfr., per esempio, Raymond Courcy, La Paroisse et la modernité. Lieu fondateur et arguments actualisés, in Archives des sciences sociales des religions, n. 107, Parigi luglio-settembre 1999. pp. 21-39 (p. 23).
(23) “Necessarium itaque est […] ut sine Episcopo nihil agatis”, “Bisogna che non facciate […] nulla senza il vescovo” (don Franz Xaver von Funk [1840-1907] [testo e trad. latina a cura di], Patres Apostolici, I, 243-245; cfr. PG 5, 675; 2a ed., J. C. B. Mohr, Tubinga e Lipsia 1901, cit. in beato Giovanni XXIII [1958-1963], Litt. enc. “Ad Petri cathedram” de veritate, unitate et pace caritatis afflatu provehendis, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 7, Giovanni XXIII. Paolo VI. (1958-1978), ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1994, pp. 10-67 (pp. 48-49); cfr. pure: “È necessario, come del resto già fate, che voi non facciate alcunché senza l’intervento del vescovo” (Ignazio ai Tralliani, 2, in Seguendo Gesù. Testi cristiani delle origini, testo e trad. it., vol. I, a cura di Emanuela Prinzivalli e Manlio Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2010, pp. 372-383 (pp. 375 e 377).
(24) Cit. in Renaissance Catholique, Livre blanc des relations entre Renaissance catholique et la Fraternité Sacerdotale Saint Pie X, documento rilegato, 1991, p. 6, cit. in Arnaud Ferron, Permanence d’une militance catholique intransigeante: le traditionalisme catholique, un mouvement de laïcs militants, in Brigitte Waché (a cura di), Militants catholiques de l’Ouest. De l’action religieuse aux nouveaux militantismes. XIXe-XXe siècle, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2004, pp. 213-224 (p. 222).
(25) René Remond, L’Anticléricalisme en France de 1815 à nos jours, Fayard, Parigi 1976, p. 346.
(26) Su tutta la vicenda, cfr. Jacques Prévotat Les Catholiques et l’Action française. Histoire d’une condamnation, 1899-1939, Fayard, Parigi 2001, un testo che parte dichiaratamente da un pregiudizio favorevole alla decisione di Papa Pio XI ma che è particolarmente ricco di documentazione. La condanna sarà revocata dal venerabile Pio XII nel 1939.
(27) Jean Madiran, Chroniques sous Benoît XVI, Via Romana, Versailles 2010, p. 308.
(28) Cfr. ibid., p. 311.
(29) Ibid., p. 364.
(30) Ibid., p. 311.
(31) Ibid., p. 365.
(32) Ibidem.
(33) Cfr. il mio Jean Ousset e La Cité Catholique. A cinquant’anni da “Pour qu’Il Règne“, cit.
(34) Cfr. J. Madiran, op. cit., p. 310.
(35) Il rapporto fra Comte, Maurras e la scuola contro-rivoluzionaria è infatti cruciale per intendere queste controversie. Ne ho trattato in una relazione alla Summer School 2010 di Alleanza Cattolica, ora nel mio La dottrina sociale di Leone XIII, cit., pp. 22-39. In questo testo mi occupo pure di una questione sollevata anche da J. Madiran, op. cit., pp. 164 e 311-312, relativa al rapporto fra questi autori, la scuola contro-rivoluzionaria e il sociologo Frédéric Le Play (1806-1882).
(36) Cfr., dopo le consacrazioni episcopali del 1988 da parte di mons. Lefebvre, l’importante articolo di G. Cantoni, “Tu es Petrus”, cit.
(37) Venerabile Giovanni Paolo II, Discorso ai religiosi e sacerdoti partecipanti al primo Convegno nazionale sul tema “Missioni al Popolo per gli anni ‘80”, del 6-2-1981, n. 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IV, 1, 1981. (Gennaio-Giugno), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1981, pp. 233-237 (p. 235).
(38) Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1985, pp. 27-28.
(39) Servo di Dio Paolo VI, Resoconto dell’omelia per il Nono Anniversario dell’Incoronazione di Sua Santità “Resistite fortes in fide”, del 29-6-1972, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. X, 1972, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1973, pp. 703-709 (p. 707).
(40) Idem, Resoconto della conversazione con gli alunni del Pontificio Seminario Lombardo, del 7-12-1968, ibid., vol. VI, 1968, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1969, pp. 1187-1189 (p. 1188).
(41) Ibidem.
(42) Cfr. Idem, Litt. enc. “Humanae vitae” de propagatione humanae prolis ordinanda, del 25-7-1968, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 7, Giovanni XXIII. Paolo VI. (1958-1978), cit., pp. 804-845.
(43) Ralph McInerny, Vaticano II. Che cosa è andato storto?, trad. it., Fede & Cultura, Verona 2009.
(44) Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, cit.
(45) Idem, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. I, 2005. (Aprile-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 1018-1032 (p. 1024).
(46) Monsignor Guido Pozzo, Aspetti della ecclesiologia cattolica nella recezione del Concilio Vaticano II, conferenza tenuta ai sacerdoti europei della Fraternità Sacerdotale San Pietro il 2 luglio 2010 a Wigratzbad (Germania). Testo disponibile sul sito Internet della Fraternità Sacerdotale San Pietro all’indirizzo <http://www.fssp.org/it/pozzo2010. htm>.
(47) Servo di Dio Paolo VI, Omelia nel primo anniversario della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, dell’8-12-1966, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. IV, 1966, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1967, pp. 620-627 (pp. 622-623).
(48) Idem, Discorso al Sacro Collegio, del 23-6-1972, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. X, cit., pp. 670-681 (pp. 672-673).
(49) Monsignor G. Pozzo, op. cit.; evidenziazione nell’originale.
(50) Cfr. don Richard John Neuhaus, Lo Splendore della Verità. Perché sono diventato cattolico (e sono felice di esserlo), trad. it., Lindau, Torino 2008, pp. 207-2008.
(51) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, cit., p. 1024
(52) Idem, Incontro con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso ad Auronzo di Cadore, del 24-7-2007, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. III, 2. 2007. (Luglio-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 56-77 (p. 75).
(53) Idem, Lettera enciclica “Caritas in veritate” sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, del 29-6-2009, n. 10.
(54) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale “Gaudium et spes” sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, del 7-12-1965.
(55) Joseph Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie [Dottrina sui princìpi della teologia. Contributi per una teologia fondamentale], Erich Wewel Verlag, Monaco di Baviera 1982, p. 398.
(56) Idem, Kommentar zu den “Bekanntmachungen” [Commento alle “Notificazioni”], in don Herbert Vorgrimler (a cura di), Das zweite Vatikanische Konzil. Konstitutionen, Dekrete und Erläuterungen. Kommentare [Il Concilio Vaticano II. Costituzioni, Decreti e Dichiarazioni. Commenti], vol. I, Herder, Friburgo in Brisgovia 1966, pp. 348-359 (p. 350).
(57) Ibidem.
(58) Idem, Incontro con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso ad Auronzo di Cadore, cit., p. 76.
(59) Ibidem.
(60) Servo di Dio Paolo VI, Udienza generale del mercoledì, del 12-1-1966, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. IV, cit., pp. 698-700 (p. 700).
(61) Leo Scheffczyk, Responsabilità e autorità del teologo nel campo della teologia morale: il dissenso sull’enciclica “Humanae vitae”, in Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, Università Lateranense e Centro Accademico Romano della Santa Croce, Università di Navarra, “Humanae vitae”: 20 anni dopo. Atti del II Congresso Internazionale di Teologia Morale. Roma, 9-12 novembre 1988, Ares, Milano 1989, pp. 273-286 (p. 283).
(62) Ibidem.
(63) Ibidem.
(64) Ibidem.
(65) Ibidem.
(66) Leone XIII, Litterae encyclicae “Libertas” de libertate humana, del 20-6-1888, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 3, Leone XIII. (1878-1903), cit., pp. 432-477 (p. 455).
(67) Cfr. beato Pio IX, Litt. enc. “Quanta Cura” qua errores praesertim hac tristissima aetate dominantes damnantur et proscribuntur, dell’8-12-1864, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 2, Gregorio XVI. Pio IX. (1831-1878), EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1996, ed. bilingue, pp. 500-545.
(68) Cfr. Sillabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores qui notantur in Allocutionibus consistorialibus, in Encyclicis aliisque Apostolicis Litteris Sanctissimi Domini Nostri Pii Papae IX, ibid., pp. 520-545.
(69) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa “Dignitatis humanae“, del 7-12-1965.
(70) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, cit., p. 1030.
(71) Ibid., pp. 1028-1029; cfr. pure, più ampiamente, Idem, Messaggio per la XLIV Giornata Mondiale della Pace, del 1° gennaio 2011 “Libertà religiosa, via per la pace”, dell’8-12-2010, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politco religioso, Città del Vaticano 17-12-2010.
(72) Congregazione per la Dottrina della Fede, Liberté religieuse. Réponse aux “dubia” présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, del 9-3-1987, disponibile sul sito di documentazione sulla Fraternità Sacerdotale San Pio X La Crise intégriste, p. 19.
(73) Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa “Dignitatis humanae”, del 7-12-1965, n. 1.
(74) Benedetto XVI, Lettera enciclica “Caritas in veritate” sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, cit., n. 55.
(75) Cfr. il mio La libertà religiosa nel pensiero di Giovanni Cantoni, in PierLuigi Zoccatelli e Ignazio Cantoni (a cura di), A maggior gloria di Dio, anche sociale. Scritti in onore di Giovanni Cantoni nel suo settantesimo compleanno, Cantagalli, Siena 2008, pp. 101-113.
(76) Catechismo della Chiesa Cattolica, dell’11-10-1992, n. 2108.
(77) Congregazione per la Dottrina della Fede, Liberté religieuse. Réponse aux “dubia” présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, cit., pp. 23-24, che cita Acta Synodalia, vol. III, pars VIII, pp. 461-462.
(78) Congregazione per la Dottrina della Fede, Liberté religieuse. Réponse aux “dubia” présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, cit., p. 9.
(79) Ibid., p. 8.
(80) Ibid., p. 12.
(81) Ibid., p. 15.
(82) Ibid., p. 18.
(83) Ibidem.
(84) Ibidem.
(85) Ibidem.
(86) Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, cit., p. 1028.
(87) Ibid., p. 1029.
(88) Ibid., p. 1030.
(89) Ibid., p. 1024.
(90) Congregazione per la Dottrina della Fede, Liberté religieuse. Réponse aux “dubia” présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, cit., p. 8.
(91) Cfr. mons. Marcel Lefebvre, La Messa di Lutero. Confronto tra la “Messa evangelica di Lutero” e il “Novus Ordo Missae”, Firenze 1975, in Idem, Vi trasmetto quello che ho ricevuto. Tradizione perenne e futuro della Chiesa, a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Sugarco, Milano 2010, pp. 239-243.
(92) Benedetto XVI, Lettera di accompagnamento della Lettera Apostolica “Summorum Pontificum” sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 1970, del 7-7-2007, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. III, 2, 2007. (Luglio-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 25-29 (p. 26).
(93) Ibidem.
(94) J. Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo. Saggi di cristologia e liturgia, trad. it., Jaca Book, Milano 1996, p. 9.
(95) Idem, La mia vita. Autobiografia, trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005, p. 115.
(96) V. Messori a colloquio con J. Ratzinger, op. cit., p. 124.
(97) J. Ratzinger, La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, trad. it., Jaca Book, Milano 2005, pp. 77-79.
(98) Cfr. Benedetto XVI, Lettera Apostolica “Motu proprio data” sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 1970 “Summorum Pontificum”, del 7-7-2007, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. III, 2, 2007. (Luglio-Dicembre), cit., pp. 20-24, trad. it. In dodici articoli le regole di una nuova ricchezza. Il testo integrale del “Motu proprio” promulgato ieri, in Avvenire. Quotidiano d’ispirazione cattolica, Milano 8-7-2007.
(99) Idem, Lettera di accompagnamento della Lettera Apostolica “Summorum Pontificum” sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 1970, cit., p. 26.
(100) Ibidem.
(101) Ibidem.
(102) Ibidem.
(103) Ibidem.
(104) Ibidem.
(105) Ibidem.
(106) Cfr. Idem, Discorso ai rappresentanti del mondo scientifico nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, del 12-9-2006, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. II, 2, 2006. (Luglio-Dicembre), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 257-267; cfr. pure don Pietro Cantoni, Il discorso di Ratisbona, in Cristianità, anno XXXV, n. 339, gennaio-febbraio 2007, pp. 9-12.
(107) Idem, Incontro con il mondo della cultura nel Centro Cultural de Belém a Lisbona, del 12-5-2010, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 13-5-2010.
(108) G. Cantoni, “Tu es Petrus”, cit., p. 19.
(109) V. Messori a colloquio con J. Ratzinger, op. cit., p. 9.
(110) Cfr. Karol Wojtyla, Alle fonti del rinnovamento. Studio sull’attuazione del Concilio Vaticano II, ed. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1981.
(111) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sull’apostolato dei laici “Apostolicam actuositatem”, del 18-11-1965.
(112) Cfr. G. Cantoni, Plinio Corrêa de Oliveira e il giudizio sul Concilio Ecumenico Vaticano II, Alleanza Cattolica, Roma 2003.
(113) Cfr. il mio Una battaglia nella notte. Plinio Corrêa de Oliveira e la crisi del secolo XX nella Chiesa, Sugarco, Milano 2008.
(114) Plinio Corrêa de OIiveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della “fabbrica” del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2009, p. 188.