Papa Francesco rievoca l’affascinante storia di Matteo Ricci, che per evangelizzare la Cina si immerse nella cultura cinese senza perdere alcunché della sua coerenza di sacerdote cattolico
di Michele Brambilla
Papa Francesco per l’udienza del 31 maggio trae un altro esempio di evangelizzazione dalla “sua” Compagnia di Gesù: in particolare «oggi parleremo di uno – italiano – ma che è andato in Cina: Matteo Ricci. Originario di Macerata, nelle Marche, dopo aver studiato nelle scuole dei Gesuiti ed essere entrato egli stesso nella Compagnia di Gesù, entusiasmato dalle relazioni dei missionari che ascoltava, come tanti altri giovani che sentivano quello, chiese di essere inviato nelle missioni dell’Estremo Oriente. Dopo il tentativo di Francesco Saverio, altri venticinque Gesuiti avevano provato inutilmente ad entrare in Cina», ma lui ci sarebbe riuscito per davvero studiando a fondo la cultura cinese, fino a vestire i panni di un sapiente dell’immenso impero asiatico.
«Ci vollero diciotto anni, con quattro tappe attraverso quattro città differenti, prima di arrivare a Pechino, che era il centro. Con costanza e pazienza, animato da una fede incrollabile, Matteo Ricci poté superare difficoltà, pericoli, diffidenze e opposizioni. Pensate in quel tempo, camminare o andare a cavallo, tante distanze … e lui andava avanti», ma soprattutto «lui ha seguito sempre la via del dialogo e dell’amicizia con tutte le persone che incontrava, e questo gli ha aperto molte porte per l’annuncio della fede cristiana. La sua prima opera in lingua cinese fu proprio un trattato Sull’amicizia, che ebbe grande risonanza. Per inserirsi nella cultura e nella vita cinese in un primo tempo si vestiva come i bonzi buddisti, all’usanza del Paese, ma poi capì che la via migliore era quella di assumere lo stile di vita e le vesti dei letterati, come i professori universitari, i letterati vestivano: e lui vestiva così. Studiò in modo approfondito i loro testi classici, così da poter presentare il cristianesimo in dialogo positivo con la loro saggezza confuciana e con gli usi e i costumi della società cinese. E questo si chiama un atteggiamento di inculturazione», sottolinea il Pontefice.
Matteo Ricci seppe intuire l’interesse dei cinesi per le novità scientifiche dell’Occidente, che all’epoca erano ancora frutto di una lettura cristiana dell’universo. «La sua ottima preparazione scientifica suscitava interesse e ammirazione da parte degli uomini colti, a cominciare dal suo famoso mappamondo, la carta del mondo intero allora conosciuto, con i diversi continenti, che rivela ai cinesi per la prima volta una realtà esterna alla Cina assai più ampia di quanto avessero mai pensato», ricorda il Santo Padre. Fu così che padre Matteo si trovò accanto i primi collaboratori-convertiti locali, «infatti, l’opera di Matteo Ricci non sarebbe mai stata possibile senza la collaborazione dei suoi grandi amici cinesi, come i famosi “Dottor Paolo” (Xu Guangqi) e “Dottor Leone” (Li Zhizao)». Ma come dire “Dio” in cinese? «La credibilità ottenuta con il dialogo scientifico gli dava autorevolezza per proporre la verità della fede e della morale cristiana, di cui egli parla in modo approfondito nelle sue principali opere cinesi, come Il vero significato del Signore del Cielo – così si chiama quel libro. Oltre alla dottrina, sono la sua testimonianza di vita religiosa, di virtù e di preghiera: questi missionari pregavano. Andavano a predicare, si muovevano, facevano mosse politiche, tutto quanto: ma pregavano», evidenzia ancora una volta Francesco, contrapponendosi ad una visione abbastanza recente secondo la quale i missionari dovrebbero limitarsi a prestare solo un soccorso materiale ai poveri locali.
Venerdì, 2 giugno 2023