Massimo Introvigne, Cristianità n. 146-147 (1987)
André Glucksmann e Thierry Wolton, Silenzio, si uccide, Longanesi & C., Milano 1987, pp. 256, L. 22.000
André Gluksmann, filosofo e sociologo, è ricercatore presso il CNR, il Centro Nazionale delle Ricerche di Parigi. Thierry Wolton, giornalista e redattore di Le Point, è noto soprattutto per un fortunato volume sulle attività dei servizi segreti sovietici in Francia. Entrambi gli autori, come essi stessi scrivono, vengono «da sinistra»; André Glucksmann — in particolare — è stato fra gli animatori, negli anni Settanta, del gruppo dei nouveaux philosophes, di cui mi sono occupato nel 1978, non certo in termini elogiativi e anzi fondamentalmente ipotizzando una durata effimera per una moda filosofica priva di seri e profondi contenuti (cfr. il mio I «nouveaux philosophes», in Cristianità, anno VI, n. 42, ottobre 1978). Discutibile come filosofo, André Glucksmann si rivela acuto e penetrante nei reportage giornalistici sui drammi umani e civili del nostro tempo: ieri ne La cuoca e il mangiauomini (trad. it., Erba voglio, Milano 1977), dedicato ai campi di concentramento sovietici; oggi — insieme a Thierry Wolton — in Silenzio, si uccide, principalmente volto a denunciare il genocidio comunista che è in atto in Etiopia.
Il volume parte da un’analisi della campagna di solidarietà internazionale con le vittime della «carestia» in Etiopia negli anni 1984-1985, con la quale sono stati raccolti e portati nel paese africano aiuti per miliardi di dollari, grazie a uno sforzo a cui ha partecipato tutto il mondo e che costituisce probabilmente la maggiore impresa umanitaria e caritativa di tutti i tempi. L’enorme propaganda che ha circondato la campagna di solidarietà è nata da un evento apparentemente minore: la visita di pochi giorni — nell’ottobre del 1984 — del giornalista Michael Buerk, corrispondente dal Sudafrica della BBC, la British Broadcasting Corporation — il noto ente radiotelevisivo statale britannico —, accompagnato dal cameraman Mohammed Amin, nei campi profughi di Macallé e di Korem su invito del governo etiopico. Le immagini di desolazione e di disperazione diffuse dal servizio della BBC, ripreso da quattrocentoventicinque televisioni in tutto il mondo, sono state il punto di partenza della straordinaria campagna di solidarietà a cui nessuno Stato, nessuna forza politica o religiosa, nessun ceto sociale sembra aver negato il suo contributo. Siamo di fronte a una favola moderna in cui anche i cattivi sono presi dall’universale pietà per la «fame nel mondo», si commuovono e almeno per una volta diventano buoni? Niente affatto, rispondono gli autori di Silenzio, si uccide: tutto è troppo bello per essere vero, e si tratta invece di un «grande inganno», accuratamente preparato e organizzato dai servizi di propaganda del governo comunista dell’Etiopia — con consulenza sovietica —, che «merita di apparire nel Guinness dei primati della crudeltà occidentale» (p. 101).
Statistiche delle Nazioni Unite e dello stesso governo dell’Etiopia alla mano, gli autori dimostrano che la carestia in alcune zone del territorio etiopico è un fenomeno ricorrente: esisteva prima del 1984-1985 e continua ad esistere oggi, dopo che la grande campagna propagandistica è cessata. L’analisi della «emergenza Etiopia» proposta da André Glucksmann e da Thierry Wolton si articola in tre tesi. Secondo la prima, la realtà della carestia, pure certamente esistente, è stata esagerata. In Russia è comune l’espressione «villaggi Potëmkin», riferita ai falsi villaggi, con facciate di carta e attori travestiti da contadini, che il principe Potëmkin avrebbe mostrato nel 1787 all’imperatrice Caterina II in visita alla Crimea, da lui amministrata, per convincerla di una inesistente prosperità. Il comunismo, notano gli autori, ha ripreso la tecnica dei «villaggi Potëmkin» su vasta scala: è rimasto celebre il villaggio in Ucraina visitato dall’ex presidente del Consiglio francese Edouard Herriot nell’estate del 1933. Mentre cinque milioni di ucraini morivano di fame, l’uomo politico francese — che aveva visitato soltanto villaggi «truccati» — potè dichiarare che non vi era povertà e che tutto andava per il meglio. Più raffinato del principe settecentesco, il comunismo ha ideato tuttavia anche i «villaggi Potëmkin», per così dire, rovesciati, dove vengono concentrati i moribondi, i morti per fame, i bambini più emaciati e più denutriti per toccare il sentimento e per sollecitare la carità degli occidentali a cui si chiede un aiuto economico. André Gluksmann e Thierry Wolton fanno notare come il comunismo internazionale ricorra a questi «villaggi Potëmkin» appunto rovesciati quando ha veramente bisogno dell’aiuto occidentale: in Unione Sovietica negli anni 1921-1923; in Cambogia — a tutto beneficio dell’occupante vietnamita — negli anni 1979-1981 e infine in Etiopia negli anni 1984-1985. In tutti questi casi gli occidentali si sono commossi, hanno dato, e non sono stati neppure ringraziati dal momento che, a posteriori e una volta incassato, i governi beneficiati hanno puntualmente denunciato il presunto tentativo di infiltrare spie e nemici della rivoluzione comunista dietro la facciata degli aiuti umanitari (pp. 7-42).
La seconda tesi sostiene che la macchina propagandistica lavora a pieno ritmo perché tutti parlino degli effetti, ma nessuno delle cause delle morti per fame (pp. 43-77). Non già che in Etiopia nel 1984 — come in Russia nel 1921e in Cambogia nel 1979 — nessuno muoia di fame: ma l’enfasi, la retorica e i buoni sentimenti obbligatori hanno soprattutto lo scopo di vietare che ci si chieda perché, che ci si interroghi — per esempio — sulle ragioni per cui le carestie che hanno colpito l’Etiopia prima dell’avvento del regime comunista, a fronte di condizioni naturali peggiori, non hanno mai provocato un numero così alto di morti. Quello che si vuole nascondere è non soltanto che la causa principale della carestia — accanto a evidenti cause naturali, che tuttavia da sole non spiegherebbero le dimensioni del fenomeno — è il tentativo di imporre il collettivismo forzato comunista, ma che — peggio — il genocidio etiopico è in gran parte un genocidio programmato, volto a sterminare etnie che resistono alla rivoluzione e soprattutto — in una puntuale riedizione del massacro dei kulaki — l’intera classe sociale dei piccoli coltivatori diretti, proprietari dei loro campi, che si è rivelato impossibile trasformare nell’«uomo nuovo» comunista. Nelle pagine di Silenzio, si uccide si trova una serie di dati e di osservazioni che conferma la testimonianza del dottor Aradom Tedla, uno dei numerosi esponenti dell’amministrazione etiopica rifugiato in Occidente, resa dapprima in un’intervista a Cristianità (Genocidio comunista in Etiopia, ibid., anno XV, n. 141, gennaio 1987) e poi in conferenze tenute in numerose città italiane nel gennaio del 1987 (Testimonianza per l’Etiopia, ibid., anno XV, n. 142, febbraio 1987).
Secondo la terza tesi, per una parte significativa gli enormi aiuti internazionali non sono affatto serviti ad alleviare le sofferenza delle vittime della fame, ma hanno finanziato il sanguinario governo etiopico, il suo enorme esercito, la sua guerra contro le etnie separatiste e perfino i programmi criminali di «rilocazione» delle popolazioni, cioè lo stesso genocidio. André Glucksmann e Thierry Wolton non risparmiano né gli «ingenui», né i «complici» né gli «utili idioti», mostrando come tutte le organizzazioni internazionali, o quasi, si sono prestate al gioco del governo comunista etiopico e dei suoi consiglieri sovietici: poche, per la verità, per disonestà o per invincibili pregiudizi ideologici — di cui l’opera fa carico, tra gli altri, al governo italiano, che ha devoluto al regime di Addis Abeba oltre quattrocento miliardi di lire —; la maggioranza perché vittime del ricatto morale per cui chi tace può rimanere in Etiopia e illudersi di poter ancora aiutare, mentre chi parla viene espulso e in genere — come è accaduto alle poche organizzazioni coraggiose — anche accusato di aver stornato fondi, con una immediata campagna di disinformazione antica almeno quanto il comunismo (pp. 78-101).
Dopo aver mostrato l’importanza della televisione, potente strumento di frammentazione e quindi di falsificazione della realtà, nella campagna internazionale di disinformazione sulla carestia in Africa (pp. 105-142), gli autori si chiedono quale posto abbia l’Etiopia nella strategia mondiale del comunismo e dell’Unione Sovietica. Dal punto di vista storico André Glucksmann e Thierry Wolton notano che la Rivoluzione comunista etiopica assomiglia in modo straordinario alla Rivoluzione sovietica, perché cala la consueta dottrina dell’azione marxista e leninista in un contesto socioculturale come quello dell’Etiopia del Negus, che presenta straordinarie somiglianze con la Russia degli zar. L’osservazione secondo cui sembra «che la costruzione della società etiopica evocasse la vecchia Russia» nel regime autocratico, nelle ambizioni di egemonia regionale, nei sogni religiosi di primato — con Addis Abeba considerata «la seconda Gerusalemme» come Mosca la «terza Roma» —, nei tentativi rapidi di modernizzazione — con Menelik, di cui l’attuale presidente Menghistu Hailé Mariam è un discendente, sia pure illegittimo, nei panni di Pietro
il Grande — era stata fatta già cinquant’anni fa dall’etnologa Simone Roussan; più recentemente — circostanza che ne accresce l’interesse — l’ha ripetuta l’ambasciatore sovietico in Etiopia, Anatolij Ratanov. L’affascinante paragone andrebbe studiato e approfondito; gli autori notano che — rispetto alla Rivoluzione bolscevica — l’unico elemento di novità è costituito dall’uso dei militari, la sola classe dirigente — dove si riesce ad acquisirla al comunismo — utilizzabile in paesi dove mancano gruppi di intellettuali e dove le circostanze non rendono consigliabile importare dall’estero rivoluzionari di professione. Non è tuttavia solo il paragone fra la vecchia Etiopia e la vecchia Russia ad avere affascinato gli strateghi del Cremlino: l’Etiopia, l’ultimo paese africano a cadere vittima di una potenza coloniale — peraltro per pochi anni —, gode da secoli di un’egemonia culturale su tutta l’Africa non islamizzata: «l’etiopismo non smetterà di incarnare l’autoaffermazione di una negritudine fiera di se stessa», e denominazioni «etiopiche» e «abissine» contraddistinguono organizzazioni religiose e politiche che sognano la «Patria nera e indipendente», fin dal secolo scorso, presso gruppi etnici così lontani geograficamente e culturalmente da Addis Abeba come gli zulu del Sudafrica. Il riferimento al Sudafrica non è casuale perché gli autori ipotizzano che lo straordinario rafforzamento dell’esercito dell’Etiopia comunista sia voluto da Mosca in vista del «sogno afrocomunista della conquista di Pretoria», dove solo un esercito nero — per di più ammantato dal prestigio secolare di cui appunto gode in Africa l’Etiopia — potrebbe intervenire per mettere fine alle guerre civili fra neri che non mancherebbero di scatenarsi se la minoranza bianca fosse indotta, o costretta — più dalle pressioni dell’Occidente che dalle rivolte locali —, ad abbandonare il potere. Sogni comunisti irrealizzabili? Quello che sembra certo è che «Menghistu, agli occhi dei sovietici, è il Castro africano» e che in paesi come l’Angola o il Mozambico, già pericolosamente vicini al Sudafrica, «l’esercito etiopico, il più forte dell’Africa nera e il meglio armato, sembra predestinato a dare il cambio al corpo di spedizione cubano». Fidel Castro, dal canto suo, non perde occasione per inneggiare ai meriti del compagno Menghistu, mentre l’Etiopia — come del resto Cuba in America Latina — vanta il record continentale della tortura e Silenzio, si uccide può offrire ai suoi lettori una rassegna di atrocità e di violenze degna dei resoconti del poeta Armando Valladares sul GULag cubano (pp. 143-215).
Che fare per l’Etiopia, e per tanti paesi che si trovano in condizioni analoghe? Silenzio, si uccide non ha l’ambizione di proporre soluzioni: e qualche lettore potrà rimanere perplesso di fronte alla fiducia che, nonostante tutto, gli autori continuano a nutrire — anche per l’Africa — nel valore educativo della pratica «un uomo un voto», che in quelle regioni non ha certo dato prova della sua efficacia più convincenti che altrove. Più modestamente, l’opera di André Glucksmann e di Thierry Wolton mostra in modo adeguato che cosa non fare per l’Etiopia: non raccogliere in modo acritico offerte «per la fame nel mondo» senza controllarne la destinazione, come è avvenuto con il gigantesco carrozzone dei concerti per la fame in Africa organizzati dal cantante Bob Geldof; non cadere nelle trappole della disinformazione comunista; non cedere ai molti ricatti che oggi si incentrano sul Sudafrica — anche il colonnello Menghistu accusa sistematicamente chi lo critica di fare il gioco dell’apartheid — e che, dalla premessa giusta secondo cui anche un solo morto innocente merita pietà e indignazione, traggono la conclusione aberrante per cui «dimenticati i novecentomila morti in Etiopia sono saliti alla ribalta i novecento morti in Sudafrica» (p. 19). Ma la parola d’ordine della disinformazione e del ricatto, imposta dal comunismo internazionale, che bisogna soprattutto rifiutare, è quella che consiglia di aiutare e tacere, perché parlando non si potrà più aiutare e le sofferenze delle vittime saranno maggiormente aggravate. Al contrario, esclamano gli autori, è il silenzio che uccide, ed è la verità sulle stragi che talora può indurre il comunismo a fermarsi, timoroso dei contraccolpi negativi della indignazione internazionale. E a chi ha dato con fiducia il suo obolo contro «la fame nel mondo» il reportage consiglia, con le parole di un volontario tedesco che ha vissuto la tragedia e l’inganno dell’Etiopia, di non smettere di aiutare, ma di utilizzare il suo denaro anche per promuovere la diffusione della verità sulla sorte dei popoli affamati e oppressi, che di questa propaganda di verità hanno bisogno non meno che del pane: «Per ogni moneta da dieci franchi, dobbiamo pretendere due franchi per l’informazione. Finché i donatori non esigeranno questa suddivisione, noi finanzieremo i boia» (pp. 217-25 1).
Massimo Introvigne