Apprendo ora (nel tardo pomeriggio di lunedì 19) dell’attentato nel quale è stato ucciso l’Ambasciatore russo in Turchia, Andrey Karlov. Secondo l’ANSA l’attentatore, a sua volta ucciso dalla polizia, sparando avrebbe esclamato: “noi moriamo ad Aleppo, tu muori qui!”. Sarebbe facile interpretare il gesto, e qualcuno lo farà senza dubbio, come una sorta di giustizia del taglione per le, tuttora controverse, atrocità che le truppe siriane avrebbero perpetrato ad Aleppo con il supporto russo. A costo di essere avventato ritengo che la situazione sia più complessa. Questo gesto incide nel vivo su di un quadro di rapporti tra Turchia e Russia che ha subito una forte evoluzione, dal tentato golpe del 16 luglio ad oggi, e una altrettanto forte evoluzione pochi giorni or sono. L’uccisione di un ambasciatore sul proprio territorio è sempre una cosa grave, nello specifico rappresenta per Erdogan, e per il ruolo di garante dell’area a cui aspira, un duro colpo di immagine. E’ comunque vero che la sentenza di morte è probabilmente stata “scritta” ad Aleppo, o almeno nei suoi dintorni. Ieri, domenica, avevo cominciato a scrivere un post dal titolo “A nord di Aleppo” e devo dire che pur con l’obbligatorio cambio di titolo, per la gravità del fatto, mi sento di proporre, a primo commento, ancora le stesse considerazioni che, secondo me, “spiegano” (con tutti le variabili del caso e senza presunzione di preveggenza) il gesto e soprattutto l’icastico proclama dell’attentatore.
La sostanziale caduta di Aleppo nel corso dell’ultima settimana, con lo strascico di cessate il fuoco e rotture a cui assistiamo in questi giorni, è stata accompagnata da una serie di accuse dei “ribelli anti-Assad”, assediati all’interno della città, che hanno accusato Erdogan, e quindi la Turchia, di aver “venduto” la “resistenza” alla Russia, e quindi ad Assad, in cambio di un tacito nulla osta di Putin alla prosecuzione, o ampliamento, delle operazioni militari che Erdogan sta conducendo da mesi lungo il confine turco-siriano, appunto a nord di Aleppo. La Turchia quindi avrebbe fatto mancare il supporto logistico, che in precedenza aveva garantito agli anti-governativi siriani e questo avrebbe portato alla sconfitta. E’ difficile dire se un patto del genere sia stato stipulato in modo esplicito, ma la cosa ha una sua logica e, se ciò è avvenuto, una parte importante deve averla avuta l’ambasciatore ucciso.
Fra Turchia e ultra-fondamentalisti siriani c’era un rapporto già ridotto al lumicino dopo la rottura con la galassia ISIS per una sanguinosa serie di attentati condotti da questi ultimi in territorio turco, almeno da un anno a questa parte. I rapporti tra Russia e Turchia sono in fase di costante miglioramento da molti mesi all’interno di quella strategia neo-ottomana con la quale la Turchia aspira al ruolo di potenza regionale, negatogli dagli Americani in favore delle monarchie del Golfo e invece vista di buon occhio dalla Russia.
A questo punto quale sarebbe stato il beneficio turco in cambio di questo “tradimento” in favore dei Russi? Per rispondere a questa domanda occorre, come dicevamo, spostare la nostra attenzione a nord di Aleppo.
A partire dallo scorso settembre l’esercito turco sta conducendo una serie di operazioni militari in territorio siriano lungo la fascia del suo confine meridionale: una penetrazione di qualche decina di chilometri condotta con mezzi corazzati e supporto di artiglierie. Molti hanno imputato questo scatto ad una generica smania di protagonismo del neo-sultano per tornare a giocare un ruolo nell’area siriana di interesse turcomanno che, dopo il golpe di luglio, gli era stato negato dalla comunità internazionale. In realtà questa operazione, con la libertà di condurla per lungo tempo e ampliarla ai distretti vicini, risponde ad una necessità assoluta di Erdogan per contrastare la presenza kurda nella regione di confine a sud. Lo si coglie guardando la cartina:
Le aree in giallo chiaro a sinistra e a destra sono distretti Kurdi e terreno di controllo dei peshmerga, le aree in verde chiaro e grigio sarebbero (il condizionale è d’obbligo perché la situazione sul terreno cambia di giorno in giorno) sotto il controllo dei ribelli anti-governativi siriani (verde chiaro) sostenuti a singhiozzo dalla Turchia stessa, e da Desh (ISIS) o suoi alleati, almeno parte dell’area in grigio. Scudo dell’Eufrate viene condotto lungo la fascia sostante all’area rosso-scura (che è poi la Turchia). Non stupisce che, avendo rotto con Desh e vedendo i suoi alleati siriani in difficoltà, Erdogan abbia deciso di intervenire direttamente: se l’attivismo kurdo avesse portato a ricongiungere i due territori in giallo chiaro, la Turchia si sarebbe trovata completamente isolata a sud da una fascia a controllo kurdo che l’avrebbe separata per sempre dal teatro siriano. Erdogan in questo periodo è assai più attento alla benevolenza russa che a quella americana: il cambio di presidenza ha accentuato la naturale inconcludenza della politica estera obamiana nell’area e, per contro, è ben noto l’interventismo russo sul teatro.
Risulta quindi non azzardato ipotizzare che:
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le “recriminazioni” dei ribelli siriani sull’accordo turco russo abbiano un certo realismo; che la Turchia abbia scambiato Aleppo con Jarabulus;
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che la Russia, con l’abilità diplomatica a cui ci ha abituati Lavrov, abbia preso due piccioni con una fava.
Ne ha probabilmente fatto le spese l’Ambasciatore Karlov, ucciso nella speranza (secondo me vana) di rallentare questo processo di avvicinamento o quantomeno di disturbarlo.
Valter Maccantelli