Intervista con il presidente Ronald Reagan
Anticomunismo, Congresso e «mass media»
D. Bismarck ha detto che la storia è solo un poco di carta con qualche parola stampata, e che l’importante non è scrivere la storia, ma farla. Un presidente degli Stati Uniti può ancora fare la storia in un’epoca in cui il Congresso pretende di gestire la politica estera?
R. Lo hanno reso più difficile. Ma questo è cominciato molto tempo prima della mia presidenza. Vi è stato uno sforzo costante — da parte non di tutti i membri del Congresso, ma di un numero abbastanza ampio da creare un problema — per ridurre i poteri della presidenza. E i presidenti hanno cercato di resistere per quanto è stato possibile. Ma il Congresso non ci ha fermati del tutto. Abbiamo pensato che alcuni studenti a Grenada avevano bisogno di sicurezza, e abbiamo dato loro questa sicurezza…
D. Ma questo è stato un po’ di tempo fa.
R. È vero.
D. Mentre ora — con l’attacco continuo del Congresso alle prerogative del presidente in politica estera — mi sembra che ci troviamo di fronte a una crisi costituzionale di prima grandezza.
R. Credo che il presidente debba combattere. E io voglio combattere non solo per me, ma per quelli che verranno dopo di me. Questo significa fare tutto il possibile per preservare l’equilibrio dei poteri fra l’esecutivo e il legislativo. Non intendo arrendermi, voglio continuare a combattere.
D. Negli ultimi anni il Congresso ha vietato la vendita di armi a certi paesi; ha proposto — ma in realtà imposto — trattati di limitazione delle armi; ha preteso di controllare operazioni segrete e così via. Da un punto di vista storico non significherà che stiamo trasformando il nostro sistema presidenziale, così come i padri fondatori lo intendevano, in un sistema parlamentare?
R. Non lo so, e non so pesare i vantaggi e gli svantaggi. Ma credo si debba dare uno sguardo ai fatti, presentarli alla gente.
E i fatti sono questi. In Vietnam un presidente pose fine alla guerra. Riuscimmo a convincere i sudvietnamiti ad accettare i termini della pace. Avevamo creato e addestrato un esercito sudvietnamita veramente significativo. E avevamo lasciato sul posto le armi: elicotteri, carri armati, jeep e così via. Sapevamo che i nordvietnamiti non si erano ritirati, erano sempre nel territorio del Sud, anche se avevano firmato la pace. Avevamo detto ai sudvietnamiti: se i nordvietnamiti violano l’accordo e attaccano, vi forniremo carburante e munizioni per le armi che vi abbiamo lasciato, e il vostro esercito vi potrà difendere. Bene: violarono il trattato e attaccarono. E quando il presidente chiese al Congresso i fondi per fornire il carburante e le munizioni, il Congresso li negò. E oggi ci ritroviamo con un impero comunista dal Vietnam ai confini della Thailandia.
Poi l’Angola. Quando il Portogallo concesse l’indipendenza le fazioni cominciarono ad affrontarsi, e lo stanno ancora facendo. Una chiese aiuto all’Unione Sovietica e a Castro. Il presidente chiese al Congresso il permesso difornire armi alla fazione più democratica, per metterla in condizione di combattere ad armi pari.
E di nuovo il Congresso rifiutò. E oggi vediamo un governo che si fa aiutare da trentasettemila soldati cubani a combattere l’altra fazione, che tutte le prove indicano come più rappresentativa del popolo dell’Angola di quanto non sia l’attuale governo.
Se il popolo potesse scegliere, credo sceglierebbe le forze dell’UNITA di Jonas Savimbi. E non abbiamo ancora parlato del Centro America …
D. Vuol dire che, di fatto, il Congresso ha favorito la «dottrina Breznev», secondo la quale una volta che un paese è entrato nel blocco comunista non ne può più uscire?
R. Proprio così.
D. Non è ora che il presidente spieghi queste cose agli americani, visto che non vi è un americano su cento che se ne rende conto?
R. Ma il fatto è che parlo di queste cose continuamente in tutto il paese in riunioni e discorsi, con un pubblico fino a quarantamila persone. Ma la sera, alla televisione, non ne vedo traccia.
Mi vedo alla televisione mentre dico qualcosa come «Sono felice di essere qui», e poi la mia voce non si sente più; e lo stesso — presenti esclusi — vale per i giornali. Forse ne parlano i giornali locali. Succede sempre, ed è una cosa terribile. L’Unione Sovietica si può comportare in un altro modo. Loro danno la parola alle armi. E impedirci, come fa il Congresso, di aiutare chi resiste al comunismo è una cosa letteralmente in linea con la dottrina Breznev.
D. Lo stesso avviene ora per il Nicaragua.
R. Sì: e il Congresso farà in modo che, una volta di più, non ci si fidi più di noi, perché promettiamo aiuti e poi li cancelliamo.
Ora, fin dall’inizio noi abbiamo detto di preferire — come chiunque altro — una soluzione democratica che permetta al popolo del Nicaragua di scegliersi il governo che preferisce. Ci accusano di essere interessati solo a una vittoria militare: Non è così: quello che abbiamo detto è che solo la minaccia di essere rovesciato con la forza potrà persuadere il governo comunista totalitario sandinista a fare quello che tutti vogliono convincerlo a fare, cioè a restituire la democrazia al paese. Perché questo accada i combattenti della libertà devono rimanere un elemento vitale. Vogliamo andare avanti con i piani di pace proposti, il piano Reagan-Wright e anche il piano Arias — che ha dei «buchi» che lo rendono di difficile attuazione — e, se è possibile una transizione democratica non violenta, la favoriremo. Ma insistiamo nel continuare a sostenere i combattenti della libertà come un elemento vitale per tentare di indurre il governo sandinista a comportarsi onestamente. Il che significa, fra l’altro, che deve trattare con le forze della libertà. Bisogna stare in guardia — e far stare molto in guardia gli altri paesi centroamericani — per non farsi ingannare da cambiamenti puramente cosmetici e da una presunta «democratizzazione».
D. Ora che hanno riaperto Radio Catolica e La Prensa, vi è gente nel Congresso che dice: «Vedete, è fatta, niente più aiuti ai contras».
R. Lo so, lo so. Mi chiedo se costoro sanno che sono state imposte restrizioni e censure a La Prensa e alla radio cattolica, e che la stragrande maggioranza della stampa nicaraguense rimane totalmente asservita al governo sandinista. Ma come minimo si dovrebbe chiedere al governo del Nicaragua di attenersi rigorosamente a tutto quanto ha firmato, o confessare che non hanno intenzione di rispettare i patti di pace che firmano. E a quel punto dovremo aiutare i combattenti della libertà a dare al Nicaragua il governo che il paese desidera.
D. I capi dei combattenti della libertà hanno detto che fra breve, se non arrivano armi, dovranno cominciare a congedare una parte dei loro uomini.
R. Non scherziamo e faremo veramente tutto, dico tutto il possibile, per convincere il Congresso ad autorizzare gli aiuti.
Non ci fidiamo dei «cessate il fuoco» unilaterali, non negoziati con la Resistenza.
Quando l’esercito sandinista «cessa il fuoco», dietro vi è una struttura, un governo. Se la Resistenza «cessa il fuoco» senza negoziati, dietro non vi è un governo, vi è solo la prospettiva di sparire dalla scena.
D. Ma, francamente, esiste una possibilità di convincere il Congresso?
R. Vedremo. Ma abbiamo perso le ultime elezioni e al Congresso è tornata una maggioranza dell’altro partito. Non avremmo potuto ottenere neppure i risultati, economici e di altra natura, che tutti ci riconoscono, se non avessimo controllato il Senato per sei anni. Ora si ritorna a un quadro familiare da circa mezzo secolo: i democratici al potere sia alla Camera che al Senato. E questo ci constringe a cambiare un poco le nostre strategie.
D. Noti giornalisti hanno cominciato a parlare apertamente del fatto che un paio di dozzine di membri del Congresso si comportano come agenti di influenza sovietici. Ora, chi dice queste cose viene subito sommerso da accuse di maccartismo. Ma che cosa si può fare quando un piccolo gruppo filomarxista manipola il Congresso su problemi cruciali di politica estera?
R. È vero, è un problema da affrontare. Sarebbe facile alzarsi e gridare. Ma qualche anno fa — e io mi interesso del comunismo da molto tempo e sono stato vittima di queste manovre alcuni anni fa a Hollywood — il Partito Comunista cominciò a organizzare una grande mobilitazione di «utili idioti» per far diventare l’anticomunismo fuori moda. E vi è riuscito. Oggi, quando si comincia a parlare di queste cose, anche fra gli anticomunisti vi è chi dice: «No, no, questo è maccartismo fuori moda» e così via. E i comunisti ne approfittano. Come ricorda, un tempo, al Congresso, vi era un comitato con potere di indagare anche sui deputati e sui senatori, se si sospettava che fossero coinvolti o collegati con i comunisti. Bene, l’hanno fatta finita con questo tipo di comitati. E questo mostra il successo che i sovietici hanno conseguito nel nostro paese quando hanno fatto diventare fuori moda l’essere anticomunisti. Per questo bisogna stare attenti, per non provocare una reazione negativa da parte della stessa gente da cui dipendiamo per farci sostenere. Non è uno schprzo, è vero. Assistiamo a una campagna mondiale di disinformazione: e questa campagna è molto sofisticata e ha molto successo, e ha arruolato molta gente nella stampa e nei mezzi di comunicazione in America.
D. Anche nel Congresso?
R. Anche nel Congresso.
D. Una domanda sull’Iran. I sovietici propongono che le navi da guerra che incrociano nel Golfo Persico senza appartenere ai paesi rivieraschi portino la bandiera delle Nazioni Unite. La Francia si è detta interessata all’idea. Cosa ne pensa?
R. Sono interessato a prendere in considerazione una proposta particolareggiata se i sovietici ce la faranno pervenire.
Ma penso che stiamo solo facendo quello che abbiamo fatto per molti, molti anni. Infatti, da quarantotto anni abbiamo una forza navale nel Golfo, come l’abbiamo in altre zone che, in caso di conflitto, diventerebbero essenziali per la nostra sicurezza nazionale: nei Caraibi, nel Mediterraneo, intorno alle Filippine, nel Pacifico e così via. E ho sempre detto che non mandiamo le nostre navi da nessuna parte senza dare loro il diritto di difendersi. Il problema principale non è solo l’Iran, né è solo se le navi del Kuwait devono portare la bandiera americana. Il problema è mantenere il diritto internazionale nelle acque internazionali, che devono essere aperte al traffico di tutte le nazioni del mondo. Se cediamo nel Golfo Persico, perderemo la nostra posizione nel mondo e ci riveleremo ancora una volta un alleato poco degno di fiducia. E a quel punto qualcuno — come già Gheddafi aveva tentato — cercherà di mandarci via anche dal Mediterraneo, Cuba ci dirà che non possiamo più incrociare nei Caraibi e così via. Non dobbiamo stabilire un precedente di questo genere.
D. Ma in Iran abbiamo a che fare con persone non ragionevoli, come poco ragionevole era Gheddafi, finché non gli fece avere sue notizie il 14 aprile 1986!
R. Vale anche per gli iraniani, finché non avranno imparato la lezione nel modo più duro.
D. A proposito dell’Unione Sovietica, crede davvero che si avvicini l’alba di una maggiore distensione? È così che legge la glasnost?
R. Riassumo la mia opinione con un proverbio che ho recitato a Gorbaciov in uno dei nostri incontri. Non sono un linguista, ma questo l’ho imparato in russo: Doveryai no proveryai, «Fidati ma verifica». Questo è il principio che ci deve guidare. La pace merita di essere perseguita, ma non alla cieca. Conosciamo i loro precedenti. Quindi: sì, negozieremo, ma tutto dovrà essere basato sulla verifica.
D. Allora, perché si fa tanto rumore sugli accordi che si stanno per raggiungere quando ancora non vi è ombra di verifica?
R. Perché, per la prima volta, sembra che su certi punti vi sia un accordo di principio fra i ministri degli Esteri: ma credo che non sia uno di quei casi in cui il lupo perde il vizio. Credo che i sovietici abbiano problemi molto reali, soprattutto economici, che nascono fra l’altro dall’aver speso troppo per le armi, e questo li spinge a cercare un accordo.
D. Ma l’accordo ci conviene? Conviene all’Europa? Immaginiamo che si arrivi fino al termine dei negoziati, a un mondo denuclearizzato. Questo significa un mondo con diciassette divisioni americane contro centottanta divisioni sovietiche. Chi avrebbe, allora, la supremazia militare?
R. Si parla della grande superiorità delle forze convenzionali sovietiche. Lo ammetto: hanno questa superiorità. Ma è bilanciata dalle armi tattiche: armi nucleari a corto raggio. E queste non sono neppure in discussione nell’accordo di cui si parla. Prima di toccare queste armi dovremo mettere in discussione anche l’armamento convenzionale.
Non dobbiamo spingere il disarmo nucleare fino al punto in cui si trasforma immediatamente in un vantaggio militare sovietico. Per quanto mi riguarda, prima di una completa denuclearizzazione pretenderò che si cominci a discutere anche sulle armi convenzionali.
a cura di Arnaud de Borchgrave
Ⓒ The Washington Times
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