di Alessandro Massobrio
1. Una curiosa analogia
La risposta a un quesito accademico accomuna gli esordi di uno dei padri della Rivoluzione francese, Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), a un uomo che alla Rivoluzione si oppose prima nella stessa Parigi, poi, dopo la forzata emigrazione, nelle principali città d’Europa: Antoine de Rivarol (1753-1801).
All’Accademia di Digione, che nel 1781 proponeva un concorso, il cui tema era Se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi, rispondeva indicando nelle stesse scienze e arti la causa della disuguaglianza civile, da cui nascono tutti i mali, e proponendo il ritorno a uno stato di natura, in cui sarà abolito quanto definisce “un animale depravato”, ovvero l’uomo che medita.
Trentadue anni dopo, nel 1785, all’Accademia di Berlino che aveva proposto, quale argomento d’un concorso a premi, la risposta ai quesiti: Che cosa ha reso universale la lingua francese? Perché merita questo privilegio? C’è da presumere che lo manterrà?, Rivarol risponde individuando nel linguaggio – come avrebbe fatto Joseph de Maistre (1753-1821) e come aveva già fatto Giambattista Vico (1668-1744) – uno dei principali fattori di civilizzazione e dunque di progresso della società. La nostra lingua – scrive – è “sicura, socievole, ragionatrice”, al punto che essa può definirsi non più francese ma, tout court, umana.
Poco conta che ancora cartesianamente egli individui nella clarté, nella chiarezza, la peculiarità di tale linguaggio. Il fatto di vedere nella lingua un fattore d’incivilimento e all’origine di essa non una convenzione, ma una sorta di intuizione poetica, già delinea non solo la sfera d’interessi dello scrittore ma, rendolo inattuale rispetto al suo tempo, ne assicura l’attualità.
2. Una vita fra Antico Regime e Rivoluzione
Rivarol, primogenito di ben sedici fratelli, nasce a Bagnols-sur-Cèze il 26 giugno 1753 da un locandiere di origine piemontese. Il critico romantico Charles Augustin de Sainte-Beuve (1804-1869) definisce la sua origine “inextricable”, cioè poco lineare per quanto riguarda la pretesa ascendenza nobiliare, che Rivarol rivendicò sempre e che spesso gli fu negata con ironia dagli avversari.
È comunque incontestabile che l’origine della sua famiglia fosse italiana, Rivaroli, e che fu noto come il Comte de Rivarol. Compiuti gli studi nel Mezzogiorno, probabilmente nel seminario di Avignone, il mancato abbé, che pure – sempre secondo Sainte-Beuve – indossò per qualche tempo il collare ecclesiastico, poi fu soldato e precettore, compare, a partire dal 1777, nelle cronache mondane parigine. Dove non fatica a distinguersi.
Presenza accattivante, un modo tutto aristocratico di portare eretta la bella testa, un’eleganza da dandy e, soprattutto, la battuta sempre pronta e salace: queste le caratteristiche che, anche quanti gli sono più ostili, devono riconoscergli. Del resto Rivarol – che fin dai primi fermenti rivoluzionari prende posizione per la monarchia – non è per niente il tipico cicisbeo settecentesco, incipriato come una bella dama, ma povero di sostanza. Le testimonianze del tempo lo descrivono dedito allo studio, nel corso del quale si cimenta con Dante Alighieri (1265-1321), con l’antica lingua francese e con la storia romana. Lo affascina Cornelio Tacito (55/55-120 ca.) per la concisione dello stile – “il Tacito della Rivoluzione”, lo avrebbe definito un ammiratore d’oltre Manica, il pensatore contro-rivoluzionario Edmund Burke (1729-1797) -, ma lo affascina ancor più il mondo dei salotti, dove una sola battuta, rapida e pungente come una saetta, può conquistare a un uomo gloria e odio inestinguibili. Scrive a questo proposito Ernst Junger, lo scrittore tedesco che di Rivarol ha curato una raccolta di massime: “La finezza, a cui era giunto lo spirito francese alla fine dell’Ancien Régime, doveva sprofondare con il suo depositario, la vecchia società […]. Quanto a Rivarol bisogna dire che, rispetto alla forma, egli partecipava sì di questa eredità e tuttavia andava più a fondo. Per questo, in un tempo in cui la Rivoluzione era al massimo della sua potenza, egli potè volgere la parola contro di essa”.
E non soltanto la parola. Due riviste, il Journal politique national e gli Actes des Apotres, lo vedono, a partire dal 1790, collaboratore puntuale e ironico. Ma l’attività giornalistica era complementare in Rivarol a quella di autore di pamphlet traboccanti di sarcasmo. Nel 1788 viene pubblicato anonimo, con dedica “Dis ignotis”, “Agli dei sconosciuti”, Il piccolo almanacco dei nostri grandi uomini. A esso fa seguito, due anni dopo, Il piccolo dizionario dei grandi uomini della Rivoluzione, dove, fra motti di spirito, scintillio d’ingegno e frecciate velenose, passano in rassegna Maximilien de Robespierre (1758-1794), Jean-Paul Marat (1743-1793) e Georges-Jacques Danton (1759-1794). Questa volta, lo scritto non è anonimo e le conseguenze non si fanno attendere. Per quanto consapevole di combattere una battaglia perduta, Rivarol si ostina a rimanere a Parigi fino al 10 giugno 1792. Come egli stesso scrive, re Luigi XVI di Borbone (1754-1793) in persona lo invita ad abbandonare la capitale per continuare la lotta all’estero, dove la sua vita non sarebbe più stata in pericolo. Appena in tempo. Pochi giorni dopo, la plebe dei sobborghi fa irruzione alle Tuilléries, costringendo il re a indossare il berretto frigio. Quando gli uomini del Terrore bussano alla porta di Rivarol, chiedendo “Dov’è il grand’uomo? Lo vogliamo accorciare un po'”, quello stesso grand’uomo ha già da tempo raggiunto la prima tappa del suo esilio, Bruxelles.
Gli anni di esilio sono caratterizzati da un lento declino. L’inattività forzata per un uomo che era sempre vissuto nel cuore della mischia, la “pigrizia” – gliela attribuisce Sainte-Beuve – di chi sente d’aver perduto lo scopo per cui vivere, l’isolamento dai circoli più blasonati degli emigrée spingono lo scrittore a vagabondare di città in città, alla ricerca di una stabile occupazione editoriale. Da Bruxelles fino a Londra. Poi ad Amburgo, nel piccolo sobborgo di Hamm. Infine a Berlino, dove un’infreddatura conclude, il 5 aprile 1801, un’esistenza che i piaceri e un’incessante attività intellettuale avevano consumato, come – per dirla con Junger – “una candela che brucia dalle due estremità”.
3. Alla scuola dei fatti, verso il romanticismo
Oltre alle opere citate, Rivarol lascia la versione francese dell’Inferno di Dante, realizzata dal 1783 al 1785; il Discours Préliminaire al Nouveau Dictionnaire de la Langue Française, mai portato a compimento, del 1784; e la Lettre à la Noblesse Française, scritta nei primi anni d’esilio a Bruxelles.
Proprio a Bruxelles, se dobbiamo credere alle coincidenze di cui è disseminata la storia, si verifica una sorta di “passaggio delle consegne” fra questo superstite dell’Ancien Régime, Rivarol per l’appunto, e colui che l’idea legittimista avrebbe sostenuto nel corso del primo romanticismo francese, François Auguste René de Chateaubriand (1768-1848).
Secondo le Memorie d’oltretomba, la monumentale autobiografia del poeta francese, non si trattò di un incontro felice. Chateaubriand, che distingueva l’emigrazione in due grandi categorie, colloca Rivarol in quella dei “fatui” e, dal suo punto di vista, non senza ragione.
Rivarol, infatti, è essenzialmente un uomo di transizione. Condivide con l’età dei lumi un certo razionalismo, che dal punto di vista conoscitivo lo lega ancora alle filosofie di Étienne de Condillac (1714-1780) e di John Locke (1632-1704). Perfino in ambito religioso non nasconde, sulle prime, quello che Sainte-Beuve definisce “un alto epicureismo” e che si identifica, in fondo, con quello spirito libertino settecentesco, che si fa beffe di ogni valore. Scrive, a questo proposito: “La devota crede ai preti, l’irreligiosa ai filosofi; entrambe sono credulone”. Oppure: “Le visioni hanno un istinto felice: capitano sempre a coloro che devono crederci”. Ma quando la Rivoluzione comincia a compiere i primi passi, ecco che Rivarol, con istinto sicuro, si rende conto che coloro i quali, per primi, hanno posto mano alla disgregazione dell’edificio sociale sono proprio quei “filosofi”, a cui egli stesso aveva rubato qualche motto di spirito. Allora comprende che il termine “fanatismo”, che fino allora aveva creduto si adoperasse solo per le credenze religiose, calza a pennello anche e soprattutto alla nuova infatuazione analitica, che ogni venerabile tradizione vuol frantumare sotto il rullo di un criticismo esasperato. “Nel campo della fisica – scrive – codesti filosofi hanno trovato solo obiezioni contro l’autore della natura, in quello della metafisica solo dubbi e sottigliezze; la morale e la logica hanno fornito loro solo declamazioni contro l’ordine politico, le idee religiose e le leggi di proprietà; essi hanno aspirato nientemeno che alla ricostruzione del tutto mediante la rivolta contro tutto e, senza pensare che anch’essi erano nel mondo, hanno rovesciato le colonne del mondo”.
Rivarol scopre, invece, che quel Dio, che egli invoca a garanzia dell’ordine costituito, non è soltanto un formidabile calmiere delle passioni né la religione, che la Francia un tempo si onorava di praticare, un instrumentum regni, per assicurare l’ordine pubblico. Esistono prove, magari desunte ancora con spirito settecentesco dalla fisica newtoniana, che conducono – per così dire – per mano verso il riconoscimento dell’esistenza del Dio del cristianesimo, provvidenziale ordinatore del cosmo. Sono sparse sia nell’infinitamente piccolo, “le sostanze e le affinità dei corpi”, sia nell’infinitamente grande, “gli astri e le leggi dell’attrazione”. Ma la prova più convincente è quella che nasce in interiore homine, dal bisogno, che Rivarol sente acutissimo, di essere liberato “[…] dal caos e dall’anarchia delle idee”. Bisogno, questo, di ordine e di forma che non avverte soltanto l’individuo ma l’intero corpo sociale. Sicché, se “il popolo dà la forza”, è il governo che gli conferisce la ragione. “La sovranità – scrive ancora – è una potenza conservatrice. Perché vi sia sovranità, occorre che vi sia potenza. Ebbene la potenza, che è l’unione dell’organo con la forza, non può risiedere che nel governo”. Altrimenti “[…] queste forze, quando sono disgiunte dal loro organo, ben lungi dal conservare, tendono solo a distruggere”.
L’equilibrio e il contemperamento dei poteri fa, dunque, propendere Rivarol non tanto per una monarchia costituzionale, meccanicamente fondata sul sistema di pesi e di contrappesi, come sembrava proporre Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755), quanto piuttosto per il modello britannico, che alimenta organiche libertà alla fonte di una tradizione secolare. Sicché non può non rimpiangere, con parole che ricordano da vicino a La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative di Alessandro Manzoni (1785-1873), il fatto che la Dichiarazione del re nella seduta del 23 luglio 1789 non sia divenuta – con qualche ritocco – la Magna Charta del popolo francese. Risparmiando così alla nazione le carneficine del Terrore. Anche se imperscrutabili permangono i disegni di quella Provvidenza, per volontà della quale “[…] ogni stato è una nave misteriosa ancorata al cielo”.
Per approfondire: del polemista vedi l’opera Piccolo dizionario dei grandi uomini della Rivoluzione, trad. it., Sellerio, Palermo 1989; e sue massime, in Ernst Junger, Rivarol. Massime di un conservatore, trad. it., Guanda, Parma 1992; su di lui vedi sintesi critiche nel saggio di Charles Augustin de Sainte-Beuve, in appendice al Piccolo dizionario dei grandi uomini della Rivoluzione (pp. 79-109); in Jacques Godechot, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1805), trad. it., Mursia, Milano 1988, pp. 55-57; in La vita e l’opera di Rivarol, dello stesso Ernst Junger, premessa al volume citato (pp. 9-59); nonché, d’impostazione letteraria, Alfredo Cavaliere, Rivarol Critico, in Cultura neolatina. Bollettino dell’istituto di filologia romanza della R. Università di Roma, anno I, fasc. I, 1941-XIX, pp. 45-53.