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Apologia della presenza

21 Novembre 2020 - Autore: Stefano Chiappalone

La peggiore esperienza fisica è preferibile alla più raffinata esperienza virtuale. La relazione non è soltanto comunicazione: c’è un mistero nell’essere umano che non si può racchiudere in uno schermo.

di Stefano Chiappalone

Ci risiamo. La “seconda ondata” e le zone rosse ci riportano indietro di qualche mese, all’insegna delle parole d’ordine del 2020: lockdown, smartworking, distanza e distanziamento. Mentre per molti il problema principale sta nel gestire la “pentola a pressione” dell’ininterrotta compresenza in casa di tutti i membri della famiglia, a mia volta mi onoro di rafforzare la schiera di quegli 8,5 milioni di italiani (senza di me sarebbero soltanto 8.499.999), i quali, vivendo da soli godono di un osservatorio “privilegiato” sull’impatto delle suddette misure. Sugli effetti psichici qualcun altro dovrà interessarsene molto presto – e spero non troppo tardi. Sugli effetti medici lasciamo, naturalmente, il giudizio a chi di dovere. Possiamo tuttavia azzardare qualche riflessione in tema di comunicazione e di relazioni, quando le interazioni de visu diventano sempre più difficili.

Nella Cronica di fra’ Salimbene da Parma (1221-1288) è narrato un celebre, quanto sadico esperimento dell’imperatore Federico II (1194-1250). Volendo conoscere quale fosse la lingua “primordiale” degli uomini, diede ordine a un gruppo di balie di allattare e curare i neonati loro affidati, ma con l’assoluto divieto di parlare loro o di vezzeggiarli. L’imperatore non seppe mai quale lingua i bambini parlassero perché, privati di qualsiasi voce, sorriso o carezza, morirono in breve tempo. A noi è concesso parlare, preferibilmente in videochiamata, ma è «fortemente raccomandato» di mantenere ogni possibile forma di distanziamento.

Qualcuno, più di qualcuno, si è chiesto come avremmo fatto ad affrontare la quarantena negli anni 1980, quando avevamo a disposizione solo il vecchio telefono grigio della Sip col disco da girare per comporre i numeri. Forse il problema non si sarebbe posto perché ai tempi del vecchio telefono grigio, c’erano anche meno persone sole. Non si tratta qui di contrapporre “realtà virtuale” e realtà… reale, quasi fossero due mondi diversi. Gli stessi asettici acquisti online non corrono forse sulle gambe e sulle ruote di un magazziniere, di un corriere, di altri esseri umani che stanno dall’altro lato del clic che segue la scelta dei prodotti? Dall’altro lato del pc o del tablet ci sono le stesse persone che conosco in carne e ossa. E i contatti paradossalmente si sono persino intensificati. Ricordate com’era il mondo ante pandemia? Innumerevoli messaggi, email, chat… ma per trovare qualcuno al telefono dovevi fissare un appuntamento. Al contrario, ora è tornata in auge anche la funzione più obsoleta e meno usata dello smartphone, vale a dire la cara vecchia telefonata. C’è persino gente che ti chiama semplicemente per sapere come stai. Lavoriamo da remoto, ci scambiamo file e osservazioni, facciamo riunioni ed eventi virtuali, con alcuni amici di tanto in tanto ci vediamo persino al “bar”:  ognuno collegato da casa sua, sorseggiando una birra, conversiamo sul serio e (soprattutto) sul faceto.

Ma, c’è un ma: lo schermo, come dice il nome, scherma. La realtà virtuale non è contrapposta alla realtà “reale”, ma neanche può esaurirla. Reale deriva da res, la cosa stessa, la realtà in sé, mentre virtuale deriva da virtus: qualcosa che ha in sé delle potenzialità, la forza (virtus) di diventare ciò che non è ancora. Non solo perché i media possono veicolare solo due (vista e udito) dei cinque sensi, cioè solo il 40% della realtà – l’osservazione è di Jonah Lynch, autore de Il profumo dei limoni. Tecnologia e rapporti umani nell’era di Facebook (Lindau, Torino 20182). Anche ipotizzando una tecnologia così evoluta da “mediare” l’olfatto, il gusto o il tatto, non sarà mai equivalente a persone in carne e ossa (e mascherina, eventualmente), sia pure separate da uno strato di plexiglass (diffusa soluzione per alcuni luoghi pubblici), ma fisicamente presenti. La peggiore esperienza fisica è preferibile alla più raffinata esperienza virtuale che, a un dato momento, deve necessariamente farsi da parte per lasciar spazio a ciò che può anticipare ma non realizzare compiutamente: la presenza. La tecnologia può trasmettere un concetto, forse anche un sorriso, ma nessuna mano da stringere, nessuna lacrima da asciugare, nessun abbraccio, nessuna di quelle infinite sfumature “non verbali” (o paraverbali) che costellano le relazioni tra i figli di Adamo. C’è un mistero nell’altro che non si può cogliere nelle pur interessanti o divertenti o edificanti comunicazioni a distanza. Anche alle relazioni umane si può estendere quella «[..] gerarchia di partecipazione al divino, che si stende dalla presenza reale – e dunque dall’identificazione di Dio con una realtà – a una presenza di cui la realtà è simbolo […]» (Giovanni Cantoni [1938-2020], Presentazione a La Cerca del Graal, Borla, Roma 1985, pp. 10).

Ben vengano allora, in assenza di altro, le conversazioni virtuali, purché appena possibile realizzino la virtus di cui sono portatrici. Ben venga persino la solitudine se ridesta il desiderio di “presenze reali”. Poiché, nell’annus horribilis 2020, anche l’uomo più asociale si accorge di essere un “animale sociale”.

Sabato, 21 novembre 2020


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