…ovvero la speranza politica di Dante
di Leonardo Gallotta
Nel bel mezzo del VI canto del Purgatorio Dante dà inizio alla sua famosa apostrofe all’Italia (“Ahi serva Italia di dolore ostello…”) dove partendo dalla situazione di odi e violenze delle fazioni all’interno delle stesse città, attacca la Chiesa, accusata di aver messo il freno all’autorità imperiale, ma anche l’imperatore Alberto d’Asburgo che, come suo padre Rodolfo, ebbe il grave demerito di essersi completamente disinteressato della situazione italiana, comportandosi non come un sovrano universale, ma particolare, avendo a cuore la sola parte tedesca dell’Impero.
Ecco allora, all’interno dell’apostrofe, l’invettiva e l’invocazione ad “Alberto tedesco” di venire a vedere come è ridotto il “giardin de lo ‘mperio”, cioè l’Italia. C’è bisogno di lui nelle città dove la violenza delle fazioni è la norma ed è reclamato da Roma, che dovrebbe essere sede dell’Impero, ma che ora “piange vedova e sola”. Per non parlare di Firenze che, dice Dante ironicamente, “ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca” (Purg. VI, vv.127 -128). La speranza di Dante sarebbe quella di una discesa in Italia dell’ imperatore che però risulta cieco e sordo di fronte alla situazione della penisola.
Morto assassinato Alberto d’Asburgo nel maggio del 1308, dopo mesi di trattative tra elettori filofrancesi e filotedeschi, fu eletto come imperatore Arrigo VII conte di Lussemburgo che innanzitutto cinse la corona di re di Germania ad Aquisgrana il 6 gennaio 1309. Nel luglio dello stesso anno papa Clemente V, dalla sua nuova sede in Avignone, riconobbe l’elezione di Arrigo e concordò di incoronarlo imperatore nella Candelora del 1312. Arrigo, in cambio, giurò protezione al Papa e accettò di difendere i diritti della Santa Sede. Inoltre nell’agosto del 1309, Arrigo annunciò la sua intenzione di recarsi a Roma. Ma la cosa non fu rapida per problemi intervenuti in Boemia. Dopo ulteriori trattative pacificatorie, poi fallite, con Roberto re di Napoli – a cui guardavano gli anti-imperiali guelfi – finalmente l’imperatore scese in Italia nel 1310.
Ma le cose non furono facili. Molte città si ribellarono alle imposizioni imperiali (prima città fu Cremona e poi Brescia, Firenze, Lucca, Siena e Bologna) tanto che papa Clemente V, sotto la pressione di Filippo re di Francia, cominciò a prendere le distanze da Arrigo e ad abbracciare la causa dei guelfi italiani. E così aveva fatto re Roberto di Napoli che si presentava ormai come capo dei guelfi nella penisola. Arrigo intanto si era fatto incoronare Re d’Italia a Milano il 6 gennaio 1311. Mancava solo l’incoronazione imperiale a Roma per la quale ci volle un bel po’ di tempo. Nella città eterna finalmente riuscì ad entrare, ma le truppe angioine presidiavano la roccaforte del Vaticano. Le promesse di Clemente V erano solo un ricordo. Escluso il Vaticano, Arrigo fu costretto a svolgere la sua incoronazione il 29 giugno 1312 nella basilica di San Giovanni in Laterano e ciò avvenne grazie a tre cardinali ghibellini che si erano uniti ad Arrigo lungo il suo cammino attraverso l’Italia, precisamente Niccolò da Prato, Luca dal Fiesco e Arnaldo Guasconi.
L’imperatore avrebbe voluto attaccare militarmente il re di Napoli, ma prima dovette vedersela con Firenze – aiutata da Siena, Bologna e Lucca – che assediò senza risultato, anche se alla fine del 1312 aveva soggiogato gran parte della Toscana. Portatosi a Siena, fu colpito da malaria e a Buonconvento morì il 24 agosto 1313.
Veniamo ora ai testi in cui Dante fa esplicito riferimento ad Arrigo VII. E’ nell’Epistola V dell’autunno del 1310 che Dante invita tutti i re, i governanti e i popoli d’Italia a rallegrarsi per la prossima provvidenziale venuta in Italia dell’imperatore Arrigo che lo stesso papa Clemente chiede di onorare. La VI Epistola è invece rivolta agli “scelleratissimi fiorentini abitanti nella città”. Con parole dure e veementi invita i suoi concittadini, lui “exul immeritus”, a non agire contro la pace e il benessere della città e a sottomettersi all’Imperatore, pena il dover sostenere, in caso contrario, il conseguente castigo. Tuttavia è la VII Epistola (terza in questo trittico) quella direttamente indirizzata ad Arrigo VII: “Al sacrosanto trionfatore e singolar signore messer Arrigo, per divina misericordia Re de’ Romani sempre Augusto, i devotissimi suoi Dante Alighieri fiorentino ed esule immeritevole e tutti quanti i Toscani desiderosi di pace sulla terra, baciando i piedi”. Arrigo è già disceso in Italia, ma continua a dimorare a Milano e Dante lo invita a procedere là dove si trova la volpe puzzolente, la vipera velenosa, la pecora infettata che contagia il gregge, cioè Firenze che blandisce il Papa e il re Roberto d’Angiò contro di lui.
Lo sperato attacco a Firenze in effetti avvenne, ma senza risultato, come abbiamo già detto. Fu poi la morte del sovrano a Buonconernto nel 1313 a troncare le speranze dantesche di “restaurazione imperiale”. Fu una delusione totale? Per ciò che riguarda l’Italia si può dire che l’eredità di Arrigo risultò evidente nel successo di due Signori del Nord, Cangrande della Scala a Verona e Matteo Visconti a Milano che egli aveva nominato “Vicari imperiali”. Dante rivolse a papa Clemente V l’accusa (fondata) di aver ingannato l’imperatore passando dalla parte dei Guelfi italiani e di Roberto d’Angiò (vedi Pd. XVII, v. 82). La stima di Dante per Arrigo rimase nonostante tutto immutata, tanto che in Paradiso Beatrice mostrerà a Dante, nella candida Rosa dei Beati, un seggio vuoto con sopra una corona: lì siederà l’anima di lui, proprio di lui, l’anima “de l’alto Arrigo”.
QUAESTIONES
1) Vi sono altri passi, nella Divina Commedia, in cui sono ravvisabili allusioni ad Arrigo VII?
Oltre a quelli espliciti, già segnalati, ci sono due profezie che potrebbero alludere ad Arrigo VII. La prima è quella del Veltro (robusto cane da caccia) fatta da Virgilio (Inf. I, vv. 100-110) che scaccerà la lupa, simboleggiante l’avarizia o cupidigia degli uomini, da dove l’aveva liberata Lucifero. Numerosissimi – e pure fantasiosi – i tentativi di identificazione, ma anche chi ha cercato di vedervi Arrigo VII o Cangrande della Scala non ha mai addotto argomenti probanti. Certo è, come ha affermato Aldo Vallone (1916 – 2002) che si tratta di una profezia ante eventum e quindi deve essere lasciata sospesa. Se poi si vuol vedere nel Veltro un imperatore, rinnovatore dell’Italia e del mondo, non v’è chi lo possa impedire.
La seconda profezia è quella fatta da Beatrice, nel Paradiso terrestre (Purg. XXXIII, vv.37 ss.) alla fine della cantica. Beatrice dice che non tarderà la punizione divina per i colpevoli della corruzione della Chiesa e che l’Aquila, simbolo dell’Impero, non resterà senza eredi, ma un “cinquecento dieci e cinque” verrà a sistemare le cose nella Chiesa e nel mondo (DXV anagrammato fa DVX, condottiero). Come per il Veltro, anche qui si sono scatenati gli studiosi per l’identificazione. In questo caso tuttavia pensare ad Arrigo VII, tenendo pure presente l’Epistola VII, è cosa accettabilissima, come ha messo bene in rilievo Umberto Bosco (1900 – 1987).
2) Si è parlato in passato di un possibile avvelenamento di Arrigo VII. Che cosa pensarne?
Per molto tempo circolò la leggenda che Arrigo VII fosse stato avvelenato da un frate, tale Bernardino da Montepulciano. Che vi sia stata volontà di avvelenamento è cosa dubbia, ma che vi sia stato avvelenamento è cosa ormai certa. Infatti l’imperatore aveva contratto l’antrace o carbonchio le cui piaghe scure erano a quel tempo curate con impacchi all’arsenico che, ripetutamente utilizzati, causarono l’avvelenamento e la morte di Arrigo. Oggi i resti di Arrigo sono conservati in un bel sarcofago nel Duomo di Pisa.
3) L’attacco a Firenze nel trittico delle Epistole è dettato solo da motivi politici?
Certo l’importanza di Firenze come punto di riferimento dei Guelfi anti-imperiali appoggiati dal Papa e da Roberto d’Angiò con alle spalle il re di Francia è indiscutibile e non poteva essere ben vista da Dante secondo un’ottica politica complessiva. Gli attacchi ai fiorentini e a Firenze nelle tre epistole, però, ben si comprendono anche per la ferita sempre sanguinante causata a Dante dall’esilio. Non è un caso che in ogni epistola del trittico si firmi sempre “Dantes Alagherii, florentinus et exul immeritus”. E’ chiaro che un intervento vittorioso di Arrigo VII contro Firenze avrebbe spalancato le porte della città a Dante con sua enorme soddisfazione. Ma così non fu.
Sabato, 19 settembre 2020