Da Il Giornale del 03/11/2018. Foto da articolo
La sentenza con cui due giorni fa la Corte Suprema del Pakistan ha revocato la condanna a morte di Asia Bibi non riguarda esclusivamente questo pur importante caso, né il solo Pakistan
Per questo oggi per qualsiasi Paese europeo o occidentale accogliere Asia Bibi e i suoi familiari non sarebbe un atto ostile al Pakistan. Sarebbe al contrario un modo per non vanificare una decisione così importante: tanto più significativa in quanto resa da magistrati musulmani, che hanno fatto frequente riferimento al Profeta e al Corano. Né sarebbe un atto di sfida verso le istituzioni di Islamabad, impegnate in queste ore a fronteggiare le proteste di piazza aizzate dai movimenti islamici radicali: potrebbe essere letto al contrario come un gesto di concreta applicazione della sentenza, e di condivisone col sentire di tanti musulmani del Pakistan per i quali Asia è una donna pakistana, prima che l’appartenente a un’altra fede religiosa.
D’altronde, non è stato un atto di sfida quello che Papa Francesco ha riservato al marito e alla figlia di Asia il 24 febbraio scorso quando, ricevendoli, ha pregato con loro per la liberazione della moglie e madre, e ha regalato una corona del Rosario, che poi – recapitata ad Asia – è diventata per lei conforto e sostegno negli ultimi mesi di prigionia. Né è stata una provocazione, poche ore dopo, l’illuminazione di rosso del Colosseo realizzata da ACS-Italia, con l’intervento – fra gli altri – del cardinale Pietro Parolin e del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, per richiamare l’attenzione sul martirio dei Cristiani.
Proprio la vicenda di Asia Bibi testimonia il peso cruciale della comunità internazionale e dei media: se la condanna a morte nei confronti di questa madre non è stata eseguita è perché di Asia ha parlato il mondo, è perché in questi anni non si è cessato di ricordarla, è perché più volte i suoi familiari hanno avuto l’opportunità di riferirne in pubblico. Ignorare e restare in silenzio avrebbe significato dare il via libera al boia. Allo stesso modo oggi compiere ogni passo per garantire l’incolumità di Asia e dei suoi è il modo migliore perché la vicenda possa considerarsi veramente risolta. Sarebbe bello se il governo italiano, sostenuto dal Parlamento, desse un positivo esempio in questa direzione. Più in generale, se gli Stati occidentali tengono alla libertà religiosa, se il richiamo alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – di cui nel 2018 ricorre il 70° anniversario – non è qualcosa di esclusivamente retorico, la voce «diritti umani» non può essere considerata un optional.
Nella giornata di ieri non meno di 7 pellegrini copti sono stati uccisi, e numerosi altri feriti, sulla strada verso il santuario di Minya, in Egitto, in un attacco terroristico; l’ultima strage negli stessi luoghi risale al maggio 2017. Monsignor Botros Fahim, vescovo copto cattolico di Minya, sarà a Venezia il prossimo 20 novembre, quando ACS-Italia e il Patriarcato di Venezia illumineranno di rosso il Canal Grande e numerosi altri luoghi simbolo della Serenissima, in ricordo dei Cristiani perseguitati.
Accendere i riflettori come comunità e come istituzioni non è ingerenza: è consapevolezza che nella condizione nella quale per un decennio si è trovata Asia Bibi ci sono oggi – senza che sia stata pronunciata una sentenza di assoluzione – tanti cristiani dei quali non si conosce il nome: la loro sorte è segnata solo dalla nostra indifferenza. Quel che accade in Pakistan o in Egitto o in tanti altri luoghi al mondo, ci dice quanto sia decisivo interessarcene.
Alfredo Mantovano