Di Andrea Nicastro da Il Corriere della Sera del 14/06/2022
«La dispensa papale per interrompere la clausura? Non c’è stato proprio il tempo di chiederla. Abbiamo dovuto aprire il convento. Leopoli era sommersa da una marea di anime che scappavano dalle aree colpite dalla guerra. Nelle prime settimane di guerra anche 60 mila al giorno. Famiglie che avevano visto bruciare la casa, perso i propri cari o dovuto lasciare indietro i nonni. Piangevano di pentimento ogni sera per averlo fatto. Esseri disperati che in pochi giorni si sono scoperti senza stabilità e speranza. Prima abbiamo tentato di accoglierli in chiesa, ma non bastava. Allora ci siamo parlate tra noi sorelle. Pochi minuti, davvero, per decidere. Eravamo già tutte convinte e abbiamo aperto anche il convento. Non era il caso di pensare alla clausura. Il voto della solitudine nasce per aiutare i figli di Dio attraverso la preghiera, ma quando l’umanità piange e ha freddo nel corpo e nell’anima, non potevamo pregare sotto un tetto e lasciare i figli di Dio all’addiaccio. Semplicemente no. Così abbiamo allestito la cripta e i sotterranei come rifugi antiaerei, preparato letti nei corridoi, nel refettorio, tra le volte di pietra del monastero. È stata la cosa più giusta da fare: un dovere religioso prima ancora che umano. Sono sicura che se papa Francesco lo sapesse sarebbe d’accordo con noi».
Suor Serafina è la Madre superiora dell’antico convento benedettino di Leopoli. Parla con un filo di voce, ma la tempra è quella di molte badesse che l’hanno preceduta. «Siamo 30 sorelle dell’ordine Studita della Chiesa orientale greca. Cattoliche. Abbiamo dai 24 ai 92 anni. È stato solo con la fine dell’Unione Sovietica, che le nuove autorità ci hanno affidato questo convento. Il nostro alla periferia di Leopoli era stato distrutto dai comunisti. I benedettini non c’erano più e anche questo edificio era malridotto. I comunisti l’avevano riempito di materiale inutile solo per impedire ai fedeli di frequentare la chiesa. Sono passati trent’anni da allora: una festa continua. Ogni anno un passo avanti per riaprire la comunità, restaurare le mura, istruire tante novizie».
In clausura?
«È la nostra regola sin dal V secolo. Prima a Costantinopoli poi in Ucraina già nell’XI secolo. Otto ore di preghiera, otto di lavoro, otto di riposo. In solitudine. La maggior parte di noi ricama, ma abbiamo anche alcune brave pittrici di icone che portano avanti la tradizione».
Eravate preparate alla guerra?
«Avevamo ricevuto dal nostro Metropolita un opuscolo in cui venivano dettagliate le istruzioni in vista di un possibile conflitto. Ci suggeriva di accumulare cibo, acqua, verificare la stabilità delle strutture e individuare spazi da utilizzare come bunker. Con tutto il rispetto, abbiamo sorriso. Ma com’è nostro dovere abbiamo obbedito». Il risultato è sparso lungo le mura dei sotterranei: brande, materassi, coperte e centinaia di barattoli di marmellate e sciroppi, pesce sotto sale, verdure sott’olio e sott’aceto. «Abbiamo smesso di ricamare e ci siamo dedicate alle conserve. Detto con sincerità non immaginavamo che sarebbero servite. Credevamo che i tempi di Madre Josyfa Viter fossero finiti».
Madre Viter?
«Era la badessa che dal 1939 al 1942 collaborò con la resistenza ucraina contro i sovietici e dal 1942 al 1945 contro i nazisti. Le autorità avevano chiuso il convento, ma l’ordine si era ricostituito in case private. Se la regola è dentro di te, non serve il convento. Con i tedeschi a Leopoli, Madre Viter salvò centinaia di ebree. L’ordine femminile si occupò di aiutare donne e l’ordine maschile di uomini. Anche questa volta abbiamo fatto così. Nel convento sono entrate solo madri e ragazze».
Cosa accadde alla badessa?
«Venne incarcerata dai sovietici e condannata a 20 anni di Siberia. Quando fu rilasciata venne proclamata Giusta delle Nazioni ancora in vita. È la Schindler ucraina».
Com’è cambiata la vostra vita con la guerra?
«Facciamo il possibile perché cambi il meno possibile, ma non è facile. Ad esempio, durante gli allarmi aerei, quando siamo nelle cantine, preghiamo. Sono tutte ore che possiamo poi dedicare all’accoglienza e al lavoro per i rifugiati».
Cosa le rimarrà di questa esperienza quando tornerete in clausura?
«La forza delle donne. Ne abbiamo ospitate molte traumatizzate per ciò che avevano visto, per le violenze subite, per l’idea di aver perso il futuro. Ma tutte, tutte quelle che avevano con loro i figli, creature che dipendevano completamente dalle madri, sono riuscite a darsi coraggio. Le donne — e suor Serafina piega il braccio come farebbe Braccio di Ferro — sono forti».