di Valter Maccantelli
Domenica 25 novembre nelle acque dello stretto di Kerch, che separa il Mar Nero dal mare d’Azov, si è svolta una autentica (anche se piccola) battaglia navale tra la marina russa e tre unità navali ucraine. Risultato: conflitto a fuoco, abbordaggio, 24 marinai ucraini catturati di cui 6 feriti. La piccola flottiglia di Kiev si proponeva di attraversare lo stretto che separa, ad Est, la Russia continentale dalla penisola della Crimea – riannessa da Mosca nel 2014 – e raggiungere il porto ucraino di Mariupol.
La Russia considera il Mare d’Azov come sue acque territoriali interne e ne controlla il traffico marittimo in ingresso. Sullo Stretto di Kerch questa primavera lo stesso Putin ha inaugurato un gigantesco ponte destinato a collegare la Crimea con la Russia senza passare per il territorio dell’Ucraina. La rapidità con la quale le forze russe sono intervenute dimostra che la mossa era ampiamente attesa; appena lo scorso ottobre il Presidente Petro Porošenko aveva annunciato trionfalmente l’avvenuta forzatura del blocco da parte di due unità navali ucraine, giunte incolumi nello stesso porto di Mariupol.
Nell’area si giocano in questi mesi tre partite legate tra loro ma su livelli differenti. La prima è una partita tattica. Le coste del mare d’Azov ed in particolare il porto Mariupol sono uno dei principali punti di attrito fra l’esercito ucraino e le milizie filorusse del Dombas. La città, pur in territorio formalmente controllato da Kiev, è a maggioranza filorussa e le difficoltà dell’isolamento commerciale potrebbero spingerla verso una richiesta di annessione all’autoproclamata e filorussa Repubblica di Doneck. Del resto è impensabile che i russi tollerino tentativi di infiltrazione avversarie che potrebbero anche risolversi in azioni di sabotaggio nell’area costiera e sullo stesso ponte di Kerch.
La seconda partita è geopolitica. L’ampia prevedibilità dell’esito di questo tentativo di forzare il blocco russo porta a sospettare che l’azione sia una provocazione di Porošenko per alzare la posta nel suo scontro con Mosca. L’attuale governo di Kiev sta cercando di coinvolgere le cancellerie europee (e la NATO), che lo hanno già ampiamente sponsorizzato in passato, sempre più strettamente nel conflitto. Putin, dal canto suo, vede nell’eventuale adesione dell’Ucraina alla NATO – che Porošenko ha posto tra gli obiettivi del suo mandato – un ulteriore passo nell’avvicinamento della prima linea militare occidentale al confine russo.
Ad aggravare la preoccupazione di Mosca per un’Ucraina sottratta alla sua sfera di influenza e alleata dei suoi avversari globali ha contribuito non poco, lo scorso 11 ottobre, la concessione dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina da parte del Santo sinodo del patriarcato ecumenico della Chiesa Ortodossa a Istanbul. Questa decisione pone fine alla primazia del Patriarcato di Mosca su quello di Kiev che durava dal 1686 e rappresenta un ostacolo significativo per le aspirazioni “imperiali” di Mosca nell’area slava.
E questo ci porta nella terza partita: quella della politica interna. Il 2019 sarà per l’Ucraina un anno di elezioni: le presidenziali a marzo e le politiche a fine anno. Petro Porošenko, in carica dal 2014 e da sempre sostenitore dell’ingresso dell’Ucraina nell’ Unione Europea e nella NATO è dato per probabile perdente in entrambe le consultazioni. Nonostante il pesante sostegno dato da Bruxelles e Washington allo schieramento politico nato da Euromaidan il prossimo presidente e governo ucraino potrebbero essere molto più inclini, pur nella legittima aspirazione all’autonomia e all’indipendenza della nazione ucraina, ad un compromesso con il vicino russo.
Siamo alle porte dell’inverno ed una interruzione delle forniture di gas russo, non contrastata dall’intervento europeo, sarebbe per lui un disastro di immagine e per il suo popolo un sacrificio enorme. Per contro, un’escalation della tensione militare che dovesse portare Putin ad intervenire direttamente a sostegno delle autoproclamate repubbliche filorusse dell’est potrebbe rappresentare la sua occasione di riguadagnare il sostegno attivo della UE, che ha già paventato un ulteriore inasprimento delle sanzioni alla Russia, e per risalire nel consenso del suo elettorato, ai minimi da più di un anno.
In questo contesto l’incidente di domenica gli ha consentito di proclamare la legge marziale nelle dieci regioni più direttamente interessate da sentimenti filorussi. Ad oggi è prevista per 30 giorni ma se la tensione dovesse salire potrebbe essere prolungata e gli permetterebbe di esercitare la censura mediatica a norma di legge e perfino di rinviare le elezioni. Alle soglie di un inverno problematico e di un calo drammatico di popolarità la piccola battaglia navale nel Mare d’Azov potrebbe anche essere vista dal Presidente Porošenko come una vera manna dal cielo.