MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 316 (2003)
Bin Laden in Italia. Viaggio nell’islam radicale di Magdi Allam (1) è un libro che, senza facili giochi di parole, può essere definito “esplosivo”. L’autore — nato al Cairo, in Egitto, nel 1952 — si è laureato in sociologia presso l’Università La Sapienza di Roma, con cui tuttora collabora tenendo un seminario sul tema Società e cultura nell’islam e alternando tale attività accademica a quella di inviato del quotidiano la Repubblica. Autore, quindi, poco sospettabile di preconcetti anti-islamici — e anzi pronto a denunciare tutto quanto, nelle analisi giornalistiche e scientifiche successive all’11 settembre 2001, gli appare come pregiudizio anti-islamico —, Allam disegna una mappa inquietante del fondamentalismo islamico in Italia. Per intendere tuttavia la portata della sua opera — che è molto di più di un semplice reportage giornalistico, pur avendone formalmente le caratteristiche e constando in gran parte d’interviste — è necessario premettere alcune nozioni in tema di fondamentalismo islamico, nozioni — preciso — che riassumo secondo uno schema che è mio e non di Allam (2).
Premessa: che cos’è il fondamentalismo islamico
Che cos’è il fondamentalismo islamico? Com’è noto, la categoria di “fondamentalismo” nasce con riferimento al mondo protestante cristiano e solo per analogia è in seguito estesa ad altri ambiti (3). Alcune comuni definizioni del “fondamentalismo” in genere — per esempio: “il fondamentalismo crede che una Scrittura sacra sia infallibile e non abbia bisogno d’interpretazioni”; oppure: “il fondamentalismo nega che sia possibile una chiara distinzione fra sfera politica e sfera religiosa” — sono poco utili per identificare uno specifico gruppo all’interno dell’islam, perché si applicano piuttosto all’islam in generale. Se adottiamo queste definizioni, dobbiamo concludere che tutti i musulmani sono fondamentalisti, con l’eccezione di pochi modernisti. Possiamo invece dare una definizione abbastanza precisa di fondamentalismo islamico, se — come fanno molti specialisti, certo non tutti — ci riferiamo a uno specifico movimento nato fra la prima e la seconda guerra mondiale, nel 1928 in Egitto, data della fondazione dei Fratelli Musulmani da parte di Hassan al-Banna (1906-1949) e nel 1941 nel subcontinente indiano, dove Maulana Sayyid Abul Al’a Maududi (1903-1979) costituisce la Jama’at at-i Islami. A sua volta, il fondamentalismo novecentesco affonda le sue radici nel movimento “salafita” — da salaf, i “pii antenati” cui si deve ritornare — del secolo XIX, che mirava a risollevare l’islam dallo stato di decadenza in cui era caduto. In realtà, a questo risveglio salafita, guidato da figure come Djamal el-Din Afghani (1839-1897) e Muhammad Abduh (1849-1905), si alimentano nel secolo XX filoni diversi, in parte effettivamente fondamentalisti — che leggono la Salafiyya ottocentesca attraverso gli occhiali del suo esponente tardo Rashid Rida (1865-1935), una figura fondamentale che ne rappresenta, secondo François Burgat, “la transizione verso le concezioni dei Fratelli Musulmani” (4) —, in parte di diversa natura.
Il movimento fondamentalista si pone tre obiettivi in sequenza, sia in quanto la relativa elaborazione dottrinale è graduale, sia in quanto si propone di raggiungerli in una sequenza cronologica e non contemporaneamente. Si tratta: dell’applicazione della legge islamica, shari’a, in ogni comunità islamica; dell’unificazione dei paesi a maggioranza islamica in un’unica realtà politico-religiosa nuovamente guidata da un califfo; e della ripresa da parte del califfato restaurato del sogno originario di un’islamizzazione del mondo intero. Con diverse accentuazioni, questi tre obiettivi definiscono il movimento fondamentalista all’interno dell’islam. Gli osservatori esterni aggiungono spesso una quarta caratteristica: il fondamentalismo è un movimento di carattere populista, che diffida delle autorità costituite nei paesi islamici, colpevoli di non applicare integralmente la shari’a; teorizza la possibilità di rovesciarle con la forza, spesso in chiave apocalittica e millenarista; e non ha simpatia neppure per gli ulama e gli altri “professionisti del sacro”, che considera infeudati all’autorità costituita. Quest’ultima è anche ritenuta responsabile delle ingiustizie sociali diffuse nei paesi a maggioranza islamica e presentate come in contrasto con il carattere ugualitario del Corano.
Non tutti i musulmani sono fondamentalisti. Nel mondo islamico — per esprimersi sempre in modo assai schematico e forzatamente riduttivo — quattro correnti sono diverse dal fondamentalismo e talora sue avversarie: i nazionalisti, che propugnano all’interno del mondo islamico Stati-nazione, di fatto distanti dal sogno del califfato; i conservatori, spesso d’accordo con i fondamentalisti sulla shari’a, ma da loro distinti per il ripudio del populismo e il grande rispetto che portano alle autorità costituite, sulla base del principio che molti mali sono tollerabili per evitare il male più grande, che è la guerra civile fra musulmani; i modernisti, che propongono l’adozione di modelli occidentali e che solo in alcuni paesi hanno davvero un qualche seguito (5), mentre altrove rappresentano sostanzialmente sé stessi; e alcune delle espressioni politiche del complesso mondo del sufismo, talora definito “mistica islamica”: “alcune”, perché non mancano sufi che sono fondamentalisti come nel caso del dirigente marocchino Abd as-Salam Yassin, e fondamentalisti che sono sufi, come lo stesso fondatore dei Fratelli Musulmani, al-Banna. Di rilievo per intendere il testo di Allam è la distinzione fra fondamentalisti e conservatori: nonostante il comune riferimento alla shari’a, per esempio, i wahabiti — cioè i seguaci del movimento conservatore fondato in Arabia Saudita nel secolo XVIII da Muhammad Ibn Abdul Wahab (1703-1792) e strettamente legato alla casa regnante saudita — non sono certamente populisti e rappresentano un tipico esempio di movimento che deve essere definito conservatore e non fondamentalista. È semmai il linguaggio politico dell’Unione Sovietica e dei governi emersi dalla dissoluzione dell’impero sovietico che, sul punto, crea qualche confusione denominando “wahabiti” tutti i movimenti islamici militanti presenti nell’area, siano essi conservatori o fondamentalisti.
All’interno del fondamentalismo propriamente detto si determinano — a partire da divisioni nate fra i Fratelli Musulmani egiziani dopo la morte del loro dirigente Sayyid Qutb (1906-1966) (6) — due linee. La prima — che costituirà la posizione dei Fratelli Musulmani in Egitto dopo che Qutb sarà stato giustiziato nel 1966 (7) — prospetta un passo indietro rispetto alla lotta armata — tentata e sostanzialmente fallita all’epoca di Qutb — per l’instaurazione di una società fondata sulla shari’a, e una lunga marcia che islamizzi pazientemente la società attraverso il risveglio religioso e la creazione d’istituzioni islamiche in ambito culturale, educativo ed economico. È la linea che il sociologo italiano Renzo Guolo chiama “neo-tradizionalista” (8), o di “islamizzazione dal basso” (9), distinguendola dalla posizione fondamentalista “radicale” (10) che propugna invece la “islamizzazione dall’alto” (11) attraverso la lotta armata e il colpo di Stato.
Il fondamentalismo islamico in Italia
L’emigrazione e la presenza islamica in Italia (12) si presentano, evidentemente, all’interno di questo quadro di fondo. Allam non si occupa nell’opera delle componenti sufi — pure non irrilevanti nel panorama italiano — né della propaganda svolta in Italia da organizzazioni nazionaliste; accenna alla componente modernista, che vivrebbe nella “[…] maggioranza silenziosa dei musulmani in Italia che sono sostanzialmente laici, che non frequentano abitualmente le moschee” (p. 172) né aderiscono ad alcuna delle associazioni islamiche esistenti. La sua indagine si concentra sul fondamentalismo. I testimoni non fondamentalisti oggetto delle interviste sono sentiti più come “persone informate sui fatti” in tema di fondamentalismo che non come rappresentanti di realtà diverse che ad Allam interessi presentare: è il caso di Hamza Massimiliano Boccolini, presidente dell’Associazione Islamica Zayd ibn Thabit e della moschea di Piazza del Mercato a Napoli, dirigente della sezione italiana della Lega Musulmana Mondiale — che fa capo a Roma all’ex ambasciatore italiano nel Regno dell’Arabia Saudita, convertito all’islam, Mario Scialoja ed è un’associazione di tipo conservatore, strettamente controllata dal governo saudita — e di Abdul Hadi Massimo Palazzi, dell’Associazione Musulmani Italiani, la cui posizione filo-occidentale e anche esplicitamente filo-israeliana ne fa un unicum nel panorama dell’islam italiano, se non europeo.
La ricerca di Allam si apre con un’intervista a Hamza Roberto Piccardo, segretario nazionale dell’UCOII, l’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia, la più rappresentativa delle associazioni islamiche in Italia, per quanto all’interno di un quadro dove, come si è accennato, la grande maggioranza dei musulmani non aderisce ad alcuna associazione. A Piccardo, Allam attribuisce fra l’altro “un buon rapporto” (p. 31) con l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola: secondo l’autore “i due si conoscono da anni” (ibidem), sono quasi vicini di casa a Imperia, e “[…] quando Scajola era sindaco di Imperia […] andò a inaugurare una moschea cittadina presieduta da Piccardo” (ibidem). L’UCOII non ha rapporti formali di affiliazione con i Fratelli Musulmani, ma di fatto — senza che nessuno lo neghi — è dominata da questa associazione, che rappresenta — per usare un’espressione che non è utilizzata da Allam — l’ala “neo-tradizionalista” del fondamentalismo. Piccardo ricorda i suoi scontri con l’ala radicale, che lo avrebbe preso di mira anche con minacce alla sua incolumità fisica, soprattutto dopo una sua affermazione secondo cui il divieto di costruire chiese cristiane in Arabia Saudita dovrebbe essere limitato alla Mecca e a Medina, ma non esteso — com’è oggi — all’intero territorio saudita. Piccardo — afferma Allam — “[…] è preso tra due fuochi, quello degli islamici ancor più radicali che condannano l’atteggiamento di moderazione e pragmatismo assunto nei confronti delle istituzioni italiane, e quello dello Stato di diritto e della società civile italiana i quali criticano la connivenza [dell’UCOII] con gruppi che praticano il terrorismo, che aspirano all’eliminazione fisica di Israele, che coltivano il sogno mai sopito della rinascita della Umma, della Nazione islamica, con la riesumazione del califfato, dopo aver combattuto e sconfitto anche con la forza delle armi l’attuale Ordine o, se si preferisce, Disordine internazionale capeggiato dagli Stati Uniti d’America” (p. 30).
Una semplice contrapposizione fra i Fratelli Musulmani neo-tradizionalisti, quindi fra l’UCOII, da una parte, e i fondamentalisti radicali dall’altra rende ragione però solo in parte delle complessità del fondamentalismo islamico italiano. Da un canto, a Piccardo — che pure dell’UCOII è segretario nazionale — Allam attribuisce l’aspirazione a liberarsi “[…] dalle ipocrisie formali, dall’autoritarismo, dal potere dei clan e dall’isolazionismo che caratterizza l’attuale leadership dell’UCOII” (pp. 31-32). Dall’altro, l’opera riporta in appendice un inquietante sermone pronunciato da Yacine Ahmed Nacer, ex presidente dell’Associazione degli Studenti Islamici dell’Università di Algeri — condannato a cinque anni in primo grado il 22 marzo 2002 al processo di Napoli contro esponenti del GIA, il Gruppo Islamico Armato algerino —, il 5 ottobre 2001, all’indomani dei fatti dell’11 settembre, nella moschea di Corso Lucci a Napoli. Nel sermone — che Allam definisce senza mezzi termini “l’appello a uccidere dal pulpito della moschea di corso Lucci” (p. 109) — il dirigente fondamentalista algerino afferma fra l’altro: “Qualcuno potrebbe contestare dicendo: ma come? Uccidi delle persone nell’interesse della gente? Sì, perché no? Questo rientra in ciò che ci è stato rivelato. E chi ce lo ha rivelato è Dio, non un comune mortale” (p. 197). La moschea di Corso Lucci a Napoli aderisce all’UCOII. Naturalmente, i dirigenti dell’UCOII possono sempre affermare — e lo fanno ampiamente nell’opera di Allam — che, così come nell’islam in generale, così nemmeno nell’UCOII, e neppure nella moschea di Corso Lucci a Napoli vi è una struttura gerarchica chiara, e Yacine Ahmed Nacer è salito sul pulpito il 5 ottobre 2001 più o meno per caso, in assenza di altre persone che sarebbero state deputate al sermone. Della spiegazione dubita lo stesso Allam, tanto più che la trascrizione del sermone è stata preservata perché registrata da una troupe della trasmissione della Radiotelevisione Italiana Sciuscià, curata da Michele Santoro, naturalmente con il pieno consenso dei dirigenti della moschea, consapevoli che attraverso la televisione il sermone avrebbe avuto una risonanza nazionale.
Il caso Torino
Allam prende quindi in esame i casi di Torino, Milano, Bologna e Napoli, tutti a loro modo caratterizzati da una lotta fra diversi personaggi per accreditarsi di fronte ai media come l’unico rappresentante dei musulmani locali, lotta — secondo l’autore — cui non sono estranee ragioni d’interesse, legate sia alla raccolta di fondi sia alla lucrosa gestione delle macellerie islamiche, dove i musulmani acquistano carne di cui si garantisce la macellazione halal, “pura”, cioè conforme alle prescrizioni della legge islamica. A Torino, l’autore descrive — fondandosi anche su servizi del cronista locale de la Repubblica Alberto Custodero — il conflitto fra il carismatico imam Bouriqui Bouchta — che controlla ormai tre moschee cittadine: Piazza della Repubblica, Via Baretti e Via Saluzzo, e tre macellerie halal —, il quale fa riferimento alla galassia del fondamentalismo radicale in Marocco (13), e la moschea della Pace affiliata all’UCOII. L’imam di quest’ultima, Ahmed Cherkaoui, ha finito per trasferirsi fuori Torino, inseguito da “minacce dirette anche alla sua famiglia” (p. 49), dopo esser stato indicato come ex musulmano minacciato dalla “punizione di Dio” (p. 190) per il suo presunto moderatismo da due fatwa, da due “sentenze”, la prima dello stesso Bouchta del novembre 1998, affissa sui muri del quartiere torinese di Porta Palazzo e di cui nell’opera è riportato in appendice il testo (pp. 187-190), e la seconda diffusa come volantino datato 10 giugno 2002 “[…] da due “alleati” di Bouchta, Moustapha Qobba e Mohamed Lamsuni” (pp. 49-50). Abdelaziz Khonati presiede ora a Torino la moschea della Pace e continua a incarnare le ragioni neo-tradizionaliste dell’UCOII nel conflitto inter-fondamentalista con il radicale Bouchta. Quest’ultimo definisce “”la guida spirituale” dei musulmani di Torino” (p. 47) il predicatore egiziano Mohamed Ebid Abdel Aal, detto Aboufalah, ripetutamente ospite di Bouchta a Torino e “ricercato in Egitto per le stragi del 1997 a Luxor (58 morti) e all’Hotel Europa del Cairo” (ibidem). Bouchta, nella sostanza, non nega che nelle sue moschee torinesi siano stati reclutati militanti per il jihad in Bosnia, Afghanistan e Cecenia. Infatti, il reclutamento è avvenuto per conto dell’organizzazione terroristica di Osama bin Laden, al-Qa’ida. A Guantanamo gli Stati Uniti d’America mantengono in detenzione due “torinesi”, fra cui il marocchino Mohamed Aouzar che “[…] era stato arruolato proprio nella moschea Al Tawhid di Bouchta a Porta Palazzo” (p. 46), “[…] dopo aver ascoltato i sermoni dell’imam egiziano Mohamed Ebid Abdel Aal” (ibidem).
Bouchta afferma però che “Osama bin Laden è innocente” (p. 40) per gli attentati dell’11 settembre. Diversa è la posizione di due personaggi che vivono a Torino e si sono resi noti grazie a ripetute apparizioni sulle televisioni nazionali, Umm Yahya Aisha Barbara Farina e il marito AbdulQadir FadlAllah Mamour, già imam della moschea di Carmagnola, in provincia di Torino, ora chiusa, e indagato per una serie di attività economiche che sarebbero andate a beneficio di al-Qa’ida. Barbara si presenta come convinta propagandista del velo e della poligamia, benché — spiega Allam — la sua convivenza poligamica con il marito e la prima moglie di quest’ultimo, Patrizia Venturella, sia durata solo sei mesi, dopo di che — nel 1996 — Patrizia “[…] ha abbandonato il marito e ottenuto il divorzio” (p. 57). Barbara e AbdulQadir sono di fatto — se non, forse, di diritto — “gli ambasciatori di Osama bin Laden e dei Taliban afghani in Italia” (p. 55). È difficile valutare di quale seguito godano esattamente a Torino e altrove, ma l’ex imam di Carmagnola è sospettato di essersi trovato al centro di un giro vertiginoso di finanziamenti internazionali, e dichiara di aver partecipato all’invio dall’Italia di “almeno 2.000 persone” (p. 18) che sono andate ad addestrarsi “nei campi di sheikh Osama, che Dio lo conservi” (ibidem). Molti — fra cui lo stesso AbdulQadir — hanno combattuto in Bosnia, e di questi “[…] il 60 per cento è tornato in Italia. L’altro 40 per cento è andato in Afghanistan, in Cecenia, hanno continuato il loro jihad, alcuni sono andati in Algeria, in Palestina” (p. 21). Certamente, i coniugi Mamour esercitano un’influenza sulla comunità islamica italiana tramite la loro rivista Al Mujhahidah.
Milano, Bologna, Napoli
Rispetto all’ampia sezione dedicata a Torino, più scarne sono le informazioni su Milano e sull’ormai famosa moschea di Viale Jenner. Questa è normalmente ascritta al fondamentalismo radicale, dal momento che il suo imam, l’egiziano Al Husseini Ali Erman, alias Abu Imad al Masri, è esponente di al-Jama’a al-Islamiya, “Gruppo Islamico”, il movimento a suo tempo diretto da Omar Abdel-Rahman, lo “sceicco cieco” incarcerato negli Stati Uniti d’America considerato alleato di bin Laden. Il Gruppo Islamico rappresenta — con altre organizzazioni — la reazione radicale alla svolta neo-tradizionalista dei Fratelli Musulmani egiziani. Allam, tuttavia, parla di una certa dialettica all’interno della moschea di Viale Jenner fra l’imam, esponente di un fondamentalismo radicale almeno vicino al terrorismo, e il presidente Abdelhamid Shaari, cittadino italiano di origine libica, che sarebbe su posizioni meno oltranziste. Invitato a cena da Shaari, l’autore si è peraltro trovato di fronte anche all’algerino Djamel Lounici, “condannato in primo grado a otto anni nel processo [di Napoli] contro il GIA” (p. 72), che si professa innocente.
Meno presente sembra peraltro a Milano — almeno a stare all’inchiesta di Allam — l’aspetto della lotta intestina fra fondamentalisti neo-tradizionalisti e radicali, che sarebbe invece virulenta a Bologna, dove al presidente della moschea Al Nur di Via Massarenti, aderente all’UCOII, Radwan al Tungi, si contrappone, talora anche con la violenza, un gruppo di giovani tunisini — alcuni dei quali sembrerebbero legati anche alla criminalità organizzata — guidati da Mohammad Sultan, alias Hammadi, e che sarebbero in contatto con Abu Qatada, ideologo radicale già residente a Londra, oggi latitante e indicato come il principale “ambasciatore” di Osama bin Laden in Europa.
Non molto diversa è la situazione a Napoli, dove tuttavia le affiliazioni istituzionali sono altre (14). Il bersaglio del fondamentalismo radicale non è una moschea neo-tradizionalista dell’UCOII, ma una di orientamento conservatore legata al wahabismo saudita, quella di Piazza del Mercato, i cui oppositori radicali trovano, come si è visto, un pulpito all’interno della moschea di Corso Lucci, che è affiliata all’UCOII. Qui il nome che circola è quello della più antica fra le organizzazioni nate in Egitto che si separano dai Fratelli Musulmani contestandone, da una prospettiva radicale, la svolta neo-tradizionalista: Takfir wal Hijra, “Anatema ed Esodo”, fondata nel 1971 da Shuqri Mustafà (1942-1978) e caratterizzata da un millenarismo apocalittico e messianico variamente fatto proprio, dopo che Mustafà è stato giustiziato nel 1978, dalle diverse branche nazionali che ne hanno ripreso il nome e alcune delle idee in numerosi paesi arabi. Più di una branca nazionale di Takfir wal Hijra è considerata integrata in al-Qa’ida, e la presenza di suoi militanti in Italia, a Napoli e altrove, non è particolarmente rassicurante.
Le ambiguità del fondamentalismo italiano
Le due ultime interviste, che potrebbero sembrare marginali, si rivelano invece — lette nel contesto di tutta l’opera — di effetto piuttosto dirompente. Sia Adel Smith, che dirige a Ofena, in provincia de L’Aquila, un partito politico denominato Unione dei Musulmani d’Italia, sia Palazzi, segretario a Roma dell’Associazione Musulmani Italiani — che ha presentato una delle domande di Intesa al governo italiano — sono regolarmente ridicolizzati, in internet e altrove, come esponenti di associazioni microscopiche che riescono tutt’al più a ingannare giornalisti confusi dai nomi apparentemente “ufficiali” delle loro organizzazioni. Allam conferma che l’Unione dei Musulmani d’Italia, che vanta cinquemila membri, ne ha più probabilmente due — Smith e il fidato Abdul Haqq Massimo Zucchi — più “una decina di simpatizzanti albanesi” (p. 124); sul numero dei seguaci di Palazzi l’autore non s’impegna, ma lascia intendere che neppure loro sono numerosi. Eppure — ed è qui la novità — Allam non riduce né Smith — noto per la sua partecipazione il 5 novembre 2001 alla trasmissione televisiva Porta a porta, dove definì tra l’altro il crocefisso cattolico “un cadavere in miniatura”, e per successive aggressioni televisive alla religione cattolica, una delle quali culminata il 10 gennaio 2003 in uno scontro fisico con militanti del movimento Forza Nuova negli studi di un’emittente privata di Verona — né Palazzi, come sarebbe stato facile fare, a figure semplicemente folkloristiche. L’estremismo anticristiano di Smith appare certo perfino bizzarro; ma Piccardo, segretario nazionale dell’UCOII, afferma che “la struttura di riferimento dei militanti islamici radicali [in Italia] è il partito islamico di Adel Smith, a cui fanno capo Bouchta, gli “afghani” [cioè i musulmani residenti in Italia che si sono addestrati in Afghanistan], i Takfir [cioè i membri di Takfir wal Hijra], Hizb al Tahrir” (p. 37). L’ultima sigla è quella del Partito della Liberazione Islamica, gruppo radicale nato all’inizio degli anni 1970 per contrastare la svolta neo-tradizionalista dei Fratelli Musulmani non in Egitto, ma in Giordania, e il cui esponente più in vista è oggi Omar Muhammad Bakri, residente a Londra e di cui Allam pubblica un’intervista in appendice all’opera, in cui l’esponente fondamentalista afferma fra l’altro che il buon “[…] musulmano debba rifiutare categoricamente tutte le leggi secolari” (p. 198); che va perseguita una conquista islamica dell’Europa sia attraverso le conversioni, sia attraverso la demografia — “[…] a ogni generazione noi raddoppiamo e i non musulmani si dimezzano” (ibidem) —; e che “[…] l’islam prescrive che chi cambia la propria religione debba essere ucciso. Non è possibile concedere la libertà a un rinnegato musulmano” (p. 200).
Anche prendendo buona nota del fatto che, comunque, l’imam Bouchta da Torino ha portato un autobus di fedeli “[…] a Milano al congresso costituente del Partito dell’Unione dei musulmani d’Italia” (p. 47) di Smith — pur essendone tornato convinto che “adesso l’idea del partito islamico in Italia non mi convince, è ancora troppo presto” (p. 48) —, il lettore che ha qualche dimestichezza con l’UCOII, dove ci si fa normalmente beffe sia di Smith sia dei giornalisti che lo prendono sul serio, si chiede perché mai il suo segretario nazionale Piccardo elevi “il partito islamico di Adel Smith” addirittura a “struttura di riferimento dei militanti islamici radicali” in Italia. Vi è qualcosa che non convince: se Smith è semplicemente un millantatore senza seguaci, perché Piccardo ne offre un’evidente sopravvalutazione, finendo — o a prima vista così sembrerebbe — per fare il suo gioco?
La seconda delle interviste “anomale” raccolte da Allam, quella a Palazzi, che sembrerebbe pleonastica — chi fra i musulmani italiani potrebbe prendere sul serio un musulmano filo-israeliano? —, offre, se letta nel suo contesto, elementi per una possibile risposta. Accostatosi a Palazzi con giustificato scetticismo, Allam si è visto, dal colloquio, “[…] costretto a una profonda riflessione. Non tanto nel merito, ma sulla forma mentis di Palazzi. Di lui si potrà dire tutto, ma non che è uno sprovveduto o un cialtrone. Tutt’altro. È una persona informata, competente e ha un approccio raziocinante alle questioni di cui si occupa, tipico degli agenti dei Servizi segreti. Non intendo affatto dire che lui lo sia, né credo che lui lo sia. Dico solo che ha un livello di conoscenza e una qualità di analisi propria delle agenzie di spionaggio. Il che lo rende, dal mio punto di vista professionale, un interlocutore altamente interessante e la cui opinione merita la massima attenzione” (p. 142).
Accertato dunque — al di là delle cautele di rito: dopo tutto, un’opera edita da una grande casa editrice come Mondadori passa normalmente al vaglio di un ufficio legale interno, che non ama ricevere querele — perché Palazzi — per quanto esiguo sia il numero di persone che la sua associazione rappresenta — meriti di essere preso in considerazione, esaminiamo quale sia la sua opinione “altamente interessante” sul fondamentalismo islamico italiano. Interrogato sul perché si offrano in pasto ai media italiani personaggi come Umm Yahya Aisha Barbara Farina — la moglie, come abbiamo visto, dell’ex imam di Carmagnola — e Smith, Palazzi risponde: “[…] penso che ci sia qualcosa di più grosso sotto tutto questo. Cioè che in realtà questo disegno di copertura, questo disegno di mandare allo sbaraglio Barbara Farina che porta il burqa in Italia, Adel Smith che scrive le lettere al papa, questi elementi tutto sommato con seri problemi psicologici ma comunque non pericolosi, e fare passare loro per il pericolo, significa coprire quelli che invece sono emissari di strutture terroristiche potentissime e che hanno a disposizione grosse coperture” (pp. 140-141). Non mancano i nomi e cognomi: per Palazzi la struttura potente che, mandando allo sbaraglio gli Smith e le Farina cerca di accreditarsi come “moderata”, è quella ispirata ai Fratelli Musulmani, cioè l’UCOII; comunque le due organizzazioni, i Fratelli Musulmani e al-Qa’ida — sia pure con modalità diverse — “[…] promuovono il terrorismo” (p. 141).
Al di là della fonte, non certo autorevole in quanto rappresentativa — ma forse, come si è visto, bene informata per tutt’altre ragioni — rappresentata da Palazzi, sembrerebbe di trovarsi di fronte a una tipica strategia rivoluzionaria — del resto, ci ricorda Allam a proposito di Piccardo, “le sue radici affondano nell’ala movimentista di Autonomia Operaia” (p. 33) —, secondo la quale l’estremista crea artificialmente un ultra-estremista alla sua sinistra che gli permette di presentarsi, falsamente, come “moderato”. Peraltro, Piccardo nega di essersi espresso nell’intervista ad Allam esattamente nel modo riportato nel volume, e — in un testo inviato al sito internet del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni da me diretto — suggerisce, al contrario, l’ipotesi che la costruzione del personaggio Smith derivi da “un’azione di consolidamento delle retrovie” (15) da parte dei servizi segreti statunitensi, i quali promuoverebbero in Europa musulmani “improbabili” (16) ma estremisti allo scopo di spaventare la popolazione non musulmana, ingenerando avversione all’islam in genere. Secondo Piccardo, Smith è stato lanciato sulla scena mediatica italiana quando per gli Stati Uniti d’America è diventato “[…] necessario ingenerare negli europei in generale e negli italiani in particolare un disprezzo, un timore e un odio viscerale nei confronti dei loro vicini musulmani, al punto che ogni azione contro di loro venga poi salutata da una parte cospicua della popolazione come giusta e liberatoria, per non dire sacrosanta e necessaria” (17).
Allam, beninteso, non prende posizione e sembra anzi auspicare che le autorità italiane continuino un dialogo con l’UCOII. Trattandosi però della maggiore organizzazione islamica italiana che tratta con il governo in vista di un’Intesa, anche la semplice ipotesi di un “moderatismo” fasullo e costruito ad arte va comunque esaminata con attenzione, certo tenendo conto anche delle precisazioni e delle smentite successivamente offerte dallo stesso Piccardo, così come i sermoni pronunciati in una sua moschea di fronte alle telecamere della RAI — per quanto ci si assicuri che la scelta del predicatore sia avvenuta per una serie di circostanze sfortunate e casuali — in cui alla domanda “Uccidi delle persone nell’interesse della gente?” si risponde con brutale franchezza: “Sì, perché no?”. E tutto questo anche a prescindere da altre considerazioni, strettamente giuridiche, che rendono un’Intesa con questa o altre organizzazioni islamiche comunque assai difficile (18).
Il fondamentalismo islamico e i misteri della Repubblica Italiana
Non meno inquietante è un’altra problematica, accennata in una decina di pagine ma tale da gettare una luce insieme illuminante e sinistra sulla storia italiana recente. Si tratta, naturalmente, di spunti non nuovi ma che per la prima volta ci vengono illustrati presentando il punto di vista dei fondamentalisti islamici. “A partire dagli anni Settanta e per circa un ventennio — afferma tranquillamente Allam, come se si trattasse di realtà ovvie e scontate — la politica di [Aldo] Moro [1916-1978], [Giulio] Andreotti e [Bettino] Craxi [1934-2000] nei confronti del terrorismo mediorientale […] si può riassumere nel detto: “vivi e lascia vivere”. Di fatto i nostri 007 concludevano con i potenti mukhabarat, i Servizi segreti di sanguinari regimi arabi, degli accordi sottobanco, disdicevoli sul piano etico e politico ma efficaci su quello della sicurezza, salvaguardando grosso modo l’incolumità dell’Italia e degli italiani in cambio di una certa tolleranza dell’attività logistica dei loro terroristi sul nostro territorio” (p. 164). Ancora — secondo Tawfik Ali al Sirri, alias Abu Ammar, un dirigente del Gruppo Islamico egiziano arrestato a Londra nell’ottobre del 2001 — negli anni 1992-1996, all’epoca del jihad islamico in Bosnia, “l’Italia era un punto di passaggio privilegiato per la Bosnia. Per gli islamici l’Italia è stata per la Bosnia quello che il Pakistan è stato per l’Afghanistan. Gli islamici erano sinceramente interessati alla stabilità dell’Italia. Aveva un’importanza strategica. Era un rifugio per gli islamici” (p. 159). Insomma, “[…] i Servizi segreti italiani erano attendibili e sinceri” (p. 165)!
Ma la situazione è cambiata. Come scrive Allam, “è finita la tregua tra l’Italia e il movimento integralista islamico” (p. 164), non solo perché il secondo Governo Berlusconi, sostenendo la guerra internazionale dichiarata dagli Stati Uniti d’America al terrorismo, non concede più alle organizzazioni terroriste islamiche l’uso dell’Italia come base logistica, ma anche perché — secondo l’autore — il terrorismo islamico ha subito una “privatizzazione” (p. 165), non è più guidato da governi ma da un’organizzazione privata come al-Qa’ida che conclude pochi patti e ancor meno ne rispetta. I fondamentalisti islamici, abituati al ragionamento giuridico, sostengono che tra l’Italia e il fondamentalismo ci fosse un Aqd al aman, un vero e proprio contratto, che ora è stato violato. “Dopo l’11 settembre — incalza al Sirri — l’atteggiamento italiano è cambiato, ha adottato la politica americana, contraddicendo le regole della propria sicurezza interna. Il Aqd al aman è stato violato dall’Italia” (p. 166). Le conseguenze, secondo lo stesso al Sirri, non si faranno attendere: “Se io come musulmano mi sento represso e vedo che l’Italia si allea con gli americani, la considero un nemico dell’islam. In origine l’Italia non era un obiettivo, è il suo allineamento con l’America che ha cambiato la situazione. Se l’Italia tornerà a essere neutrale, la situazione di nuovo cambierà” (ibidem). Se si tiene conto che, come scrive Allam, “nessuno nasconde più né smentisce il fatto che in Italia risiedano centinaia, forse migliaia, di mujahidin addestrati alle armi in Bosnia, Afghanistan e in altre terre di jihad” (p. 159), le prospettive non sono rassicuranti. Non sarebbe inoltre inopportuno chiedersi chi ci assicura che il “contratto” fra la Repubblica Italiana e il terrorismo islamico sia stato rispettato dalla controparte fin quando è stato in vigore, e se la presenza in Italia per decenni di terroristi ospitati e protetti da servizi di sicurezza da loro stessi definiti “attendibili e sinceri” non possa contribuire a gettare qualche luce sui misteri della Prima Repubblica.
Di fronte a situazioni così gravi e complesse non vi sono soluzioni ad horas. Allam ipotizza che il presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, con la sua apprezzata mediazione per la soluzione della questione dei tredici palestinesi rifugiati nella Chiesa della Natività a Betlemme, possa aver cercato di stipulare una “polizza di assicurazione” (p. 169) per l’Italia; ma ritiene pure che stavolta potrebbe non funzionare. Lo stesso Allam si lascia tentare, nelle pagine finali dell’opera, da qualche ipotesi di soluzione “buonista” — “una seria ed efficiente politica di integrazione degli immigrati” (p. 172), “[…] favorire l’affermazione di un islam tollerante e moderno, […] far trionfare la prospettiva di una pacifica convivenza con tutti i musulmani che condividono il comune patrimonio civile e ideale dell’Italia del Terzo millennio che sarà sempre più multietnica, multiconfessionale e interculturale” (pp. 172-173) — che rischia di ridursi a un semplice appello ai buoni sentimenti o slogan in una situazione che richiede ben altri rimedi. Di fronte al terrorismo, sembra necessaria anzitutto una seria attività di polizia e di intelligence. Di fronte al fondamentalismo, è certo giusto ricordare che non tutti i musulmani presenti in Italia sono fondamentalisti: lo sono, invece — in vari stati e gradi di fondamentalismo, che non vanno confusi fra loro — i dirigenti di molte delle realtà associative, grandi e piccole, prese in esame da Allam. Anche nei confronti dell’espressione “più […] legalitaria” (p. 171) del fondamentalismo, rappresentata dall’UCOII, sarei personalmente più cauto di Allam, soprattutto quando si tratti di riconoscimenti pubblici o di relazioni con il governo italiano. Lo sviluppo di un islam italiano non fondamentalista difficilmente potrà passare per associazioni che fanno capo alle grandi centrali del fondamentalismo internazionale, almeno fino a quando non saranno chiarite ambiguità che puntualmente si ripresentano a proposito, per esempio, del terrorismo suicida, sia di Hamas sia dei vari militanti che hanno fatto ricorso a questa tecnica terroristica durante la seconda Guerra del Golfo: potrà semmai nascere, in forme nuove e in gran parte da inventare, dall’interno di quella “maggioranza silenziosa” dei musulmani italiani che, per il momento, non si riconosce in alcuna associazione.
Pure in disaccordo su alcune conclusioni, penso che si debba riconoscere a Magdi Allam il merito di avere almeno posto diverse questioni delicatissime e a diverso titolo “esplosive” — la presenza in Italia di centinaia e forse di migliaia di militanti del fondamentalismo radicale addestrati militarmente, i rapporti complessi e ambigui fra le diverse anime del fondamentalismo islamico italiano, l’esistenza di un “contratto” fra passati governi italiani e il terrorismo islamico internazionale e le conseguenze della sua rottura — che dovrebbero occupare seriamente le riflessioni sul ruolo dell’Italia in un mondo dove, dopo l’11 settembre 2001, davvero nulla è più com’era prima.
Massimo Introvigne
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(1) Cfr. Magdi Allam, Bin Laden in Italia. Viaggio nell’islam radicale, Mondadori, Milano 2002. I riferimenti fra parentesi nel testo rimandano tutti a quest’opera.
(2) Cfr. i miei Osama Bin Laden. Apocalisse sull’Occidente, Elledici. Leumann (Torino) 2001; e Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, Elledici, Leumann (Torino) 2003.
(3) Cfr. una visione sintetica, in Jean-François Mayer, I fondamentalismi, Elledici, Leumann (Torino) 2001.
(4) François Burgat, Il fondamentalismo islamico. Algeria, Tunisia, Marocco, Libia [1988], trad. it., SEI, Torino 1995, p. 27.
(5) Il successo dei modernisti si accompagna quasi sempre alla diffusione in paesi a maggioranza islamica della massoneria — cui peraltro, a conferma delle ambiguità del movimento salafita ottocentesco, apparteneva anche il riformatore Afghani —, la cui maggiore presenza si riscontra in Turchia e nell’Iran degli anni precedenti la rivoluzione khomeinista. La relazione fra modernismo islamico e massoneria — talora assunta nelle forme anti-religiose del Grande Oriente di Francia, talora invece letta attraverso occhiali sufi — è però complessa: cfr. Thierry Zarcone, Secrets et sociétés secrètes en Islam. Turquie, Iran et Asie centrale, XIXe-XXe siècles. Franc-Maçonnerie, Carboneria et confréries soufies, Archè, Milano 2002. Le elezioni del 3 novembre 2002 si sono incaricate di dimostrare che l’adesione al modello modernista non è più maggioritaria neppure nella stessa Turchia.
(6) Su Qutb e sulla sua ricezione nelle varie branche dei Fratelli Musulmani cfr. William E. Shepard, Sayyid Qutb and Islamic Activism. A Translation and Critical Analysis of “Social Justice in Islam”, Brill, Leida 1996; Andrea Pacini (a cura di), I Fratelli Musulmani e il dibattito sull’Islam politico, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996. Sui Fratelli Musulmani in genere fondamentale è il testo di Richard P. Mitchell, The Society of Muslim Brothers, 2a ed., Oxford University Press, New York 1993.
(7) Sulle posizioni dei Fratelli Musulmani in Egitto dopo Qutb cfr. Carrie Rosefsky Wickham, Mobilizing Islam. Religion, Activism, and Political Change in Egypt, Columbia University Press, New York 2002.
(8) Renzo Guolo, Il partito di Dio. L’Islam radicale contro l’Occidente, Guerini e Associati, Milano 1994, p. 120.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) Ibidem.
(12) Cfr. una panoramica nell’ampia sezione dedicata all’islam in CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni, Enciclopedia delle religioni in Italia, a cura di Massimo Introvigne, PierLuigi Zoccatelli, Nelly Ippolito Macrina e Verónica Roldán, Elledici, Leumann (Torino) 2001; e, di taglio più giornalistico, Roberto Gritti e M. Allam, Islam, Italia: chi sono e cosa pensano i musulmani che vivono tra noi, Guerini e Associati, Milano 2001.
(13) Cfr. Mohammed Tozy, Monarchie et Islam politique au Maroc, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Parigi 1992.
(14) Cfr. una prospettiva diversa sulla situazione napoletana nell’opera del citato esponente della corrente conservatrice legata al Regno dell’Arabia Saudita, Hamza Massimiliano Boccolini, L’Islam a Napoli: chi sono e cosa fanno i musulmani all’ombra del Vesuvio, Intra Moenia, Napoli 2002.
(15) Hamza Roberto Piccardo, Raglio d’asino non sale in cielo ma vola via etere, testo inviato dall’autore al CESNUR, in risposta a un’anticipazione via internet di questo articolo, e a sua volta disponibile sul sito del CESNUR all’indirizzo <http://www.cesnur.org/2003/smith.htm>.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Cfr. una rassegna dei problemi e un’ampia trattazione di alcuni di essi, in Agostino Cilardo, Il diritto islamico e il sistema giuridico italiano. Le bozze di intesa tra la Repubblica Italiana e le associazioni islamiche, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002. Circa la problematica soggiacente cfr. Giovanni Cantoni, Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della “vulgata” “islamicamente corretta”, con prefazione di Samir Khalil Samir S.J., Centro Studi “A. Cammarata”, San Cataldo (Caltanissetta) 2000.